Osservazioni critiche sulla adeguatezza didattica del docu-film «Alessandro Manzoni, milanese d’Europa – L’immagine della parola». Un film di Pino Farinotti. Regia di Andrea Bellati. Scritto da Angelo Stella e Pino Farinotti. Prodotto dal Centro Nazionale Studi Manzoniani, con il contributo di Fondazione Cariplo.
Parlato docu-film – I numeri tra [parentesi] si riferiscono ai fotogrammi sopra riportati.
Farinotti: [1]: «Alessandro nacque bene, nobile e ricco. Sua mamma era Giulia Beccaria, una delle donne più conosciute in Milano. Vivace, intelligente, Giulia era figlia di Cesare Beccaria. Sua mamma era Teresa de Blasco, di origine siciliane e spagnole. Le frequentazioni erano quelle della cultura illuminista milanese, a cominciare dai Verri, tre fratelli. Uno dei quali, Giovanni, ebbe con Giulia rapporti intensi. Ventenne dovette – il termine è corretto (i Beccaria erano in difficoltà finanziarie), sposare don Pietro Manzoni. “Don” significava un sottile strato di nobiltà. Pietro era più grande di lei di 26 anni.»
Nostre osservazioni – In questo Episodio (più avanti vedremo anche il contributo della dottoressa Jone Riva, prosecuzione dell’incipit di Farinotti) il docu-film del Centro Nazionale Studi Manzoniani (d’ora in poi CNSM) presenta errori di fatto e osservazioni fuorvianti. Vediamoli, iniziando dall’iconografia.
Mentre Farinotti parla di Teresa de Blasco (la madre di Giulia) sul video viene presentato il ritratto di una giovane donna. Lo spettatore è inevitabilmente portato a ritenere che sia della madre di Giulia. Non è così. L’immagine che ci viene mostrata è invece quella di un ritratto della stessa Giulia, eseguito da Maria Cosway verso il 1796-97, poco dopo il trasferimento di Giulia a Parigi con Carlo Imbonati. A lato l’immagine di Teresa de Blasco, madre di Giulia.
Ritratto di Pietro, il maggiore dei quattro fratelli Verri.
Ma vi è un altra sostituzione di persona. A proposito delle figure frequentate da Giulia, Farinotti pone tra i primi: «i Verri, tre fratelli. Uno dei quali, Giovanni, ebbe con Giulia rapporti intensi». Ai nostri occhi è intanto proposto ritratto di un giovane con una sgargiante giacca blu.
Lo spettatore è autorizzato a ritenere si tratti del ritratto del citato Giovanni Verri, intimo della Giulia. Ma non è così. Il ritratto mostrato nel docu-film è infatti quello di Pietro Verri (sulla sinistra). Che era fratello maggiore di Giovanni (sulla destra).
Farinotti scambia un fratello con l’altro. Ma non solo: ne dimentica uno. Farinotti dice che erano tre. E invece erano quattro: Pietro (1728-1797), Alessandro (1741-1816), Carlo (1743-1823), Giovanni (1745-1818).
Ritratto di Giovanni Verri, il più giovane dei Verri.
Restituito alla famiglia Verri il quarto figlio, disperso dal CNSM, e dato a Giovanni il volto di Giovanni, possiamo passare a Giulia.
Notorietà di Giulia in Milano? – Secondo il docu-film, Giulia ventenne era «una delle donne più conosciute in Milano». Ci sembra non fosse proprio così.
Giulia, dodicenne nel 1774 alla morte della madre, venne affidata al collegio presso il Convento in Milano delle Agostiniane in San Paolo. E lì rimase fino all’autunno inoltrato del 1780. Il padre Cesare, risposatosi pochi mesi dopo la morte della madre di Giulia, la trascurò completamente.
Del suo ambiente, Pietro Verri fu l’unico che la incontrasse ogni tanto in convento, in occasione delle visite che egli faceva alla sua propria sorella Anna, che lì era monaca da vent’anni. Per il periodo della sua formazione Giulia non ebbe quindi alcuna frequentazione con l’ambiente milanese.
La madre di Giulia, la vivace Teresa, non di Milano né di nobile famiglia (i Beccaria si erano opposti al matrimonio di Cesare con lei proprio per questo) nella sua breve esistenza, caratterizzata pare da un gran gusto per i divertimenti, non aveva lasciato grandi tracce nella coscienza della città.
In una parola, quando Giulia uscì dal collegio, era in Milano pressoché sconosciuta, e tale rimase per quei due anni che abitò (mal sopportata) nella casa del padre Beccaria. L’unico ambiente con un minimo di eco mondano che di certo frequentò – ma solo dal febbraio 1781 – fu quello di Giovanni Verri.
Questi, galante e spiantato cadetto, frequentava intellettuali, musicisti e cantanti, certo vivaci intellettualmente e simpatici, ma tutto tranne che rappresentanti del mondo milanese che contava.
Così li descriveva Pietro Verri al fratello Alessandro in una lettera del 31 maggio 1777:
«Una folla di giovinetti spensierati, occupatissimi dei loro ricci, calzoni larghi e grossissimo collo, impegnati a far credere d’avere quanti capelli non ha cavallo nella coda, vegetano sfiorando leggermente tutto, e singolarmente si fanno pregio di non dire mai una verità.»
Se vogliamo essere precisi, l’unica ragione per cui Giulia potesse godere di una qualche notorietà – ma negativa – era il suo scoperto legame con Giovanni Verri. Se il costume consentiva che una donna sposata avesse una pubblica relazione amorosa (preferibilmente col consenso del marito), in una nubile non era per nulla ben visto avere una vita sentimental-sessuale al di fuori delle regole.
Un matrimonio forzato? Parlando di Giulia, continua Farinotti: «dovette – il termine è corretto (i Beccaria erano in difficoltà finanziarie), sposare don Pietro Manzoni. “Don” significava un sottile strato di nobiltà.»
Lo spettatore ne trae l’idea che:
1º. dal matrimonio di Giulia dipendesse la sopravvivenza dei Beccaria (“dovette”, “i Beccaria erano in difficoltà finanziarie”);
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2º che la situazione fosse così grave da costringerla a sposare anche una figura quasi irrilevante sul piano sociale («“Don” significava un sottile strato di nobiltà»).
Questa rappresentazione ha qualche riscontro con la realtà storica? Vediamo, cominciando dalla “nobiltà”.
Come si sa, signori si nasce, nobili si diventa.
E infatti, negli ordinamenti europei, il titolo di “nobile” veniva accordato dal monarca per meriti di ogni tipo (anche erotici – vedi Luigi XIV nei confronti delle sue signore di compagnia) o per norma (lo svolgimento di una funzione per un certo numero di anni) o per l’acquisto di terre.
Essendo la nobiltà un “ordine” ne erano previsti vari livelli (e il passaggio da uno all’altro), alcuni legati al rapporto di sangue con il sovrano, altri all’entità dei meriti o degli acquisti.
Dire di un nobile che aveva un “sottile strato di nobiltà”, come affermato da Farinotti, è come dire di un sacerdote che ha un “sottile strato di appartenenza alla Chiesa”, perché non Cardinale.
E significa destinarsi a non comprendere come un Verri “conte” potesse guidare a bacchetta un Beccaria “marchese”, e quindi con più “strati di nobiltà”.
Nel caso della famiglia Manzoni di Lecco, cui apparteneva don Pietro, il titolo di “nobile” era stato acquisito da tempo.
Secondo sentenza del tribunale araldico della Lombardia, in data 13 giugno 1771, i Manzoni vengono descritti nel catalogo delle famiglie nobili, e più precisamente: Manzoni don Paolo, canonico ordinario della Metropolitana, e don Pietro Antonio, fratelli – già in possesso del feudo onorifico e nobile di Moncucco, nel territorio di Novara, di cui, in virtù di reale dispaccio di Carlo II di Spagna, era stato investito (23 febbraio 1691) il loro avo paterno don Pietro Antonio.
I Manzoni erano quindi “nobili” prima dei Beccaria, che divennero tali nel 1705 (vedi il “Teatro Genealogico delle Famiglie Illustri, Nobili, e Cittadine di Milano”), con l’acquisizione di due roccaforti a Gualdrasco e a Villareggio (provincia di Pavia); e prima dei Verri (1695).
Ma veniamo al matrimonio tra il “nobile” don Manzoni e “donna” Giulia Beccaria (avendo un fratello, era “marchesa” solo per cortesia mondana).
Giulia Beccaria non poteva essere “costretta” proprio da nessuno a sposare don Pietro. Certo, il matrimonio fu “combinato”, come molti matrimoni di allora quando fossero in gioco rendite, terre, quattrini. Ma è da segnalare che pronubo interessato ne era Pietro Verri, per ragioni molto precise.
Uscita dal collegio conventuale, la diciannovenne Giulia divenne infatti amica intima di Giovanni Verri. Il primogenito Pietro, senza figli maschi e ancora senza titolo (il vecchio padre Conte Gabriele si rifiutava di morire), aveva interesse a evitare che il proprio fratello cadetto generasse un figlio con una esponente del Patriziato Milanese, privandolo quasi sicuramente del titolo.
D’altro lato Cesare Beccaria non aveva certo bisogno del matrimonio della figlia per campare. Tra stipendio e rendite gli entravano in casa l’equivalente di oltre 2 milioni di Euro annui. Diciamo invece che Cesare era noto come impenitente taccagno.
Dal matrimonio di Giulia non aveva da guadagnare altro che liberarsi di una figlia che aveva da ridire sull’eredità lasciatale dalla madre e che notoriamente egli non amava (ricambiato). Una liberazione cui teneva, tanto da sborsare 200 zecchini (circa 100.000 Euro) in più di dote, quando si sparse voce che Pietro Manzoni fosse ambito come sposo anche da un’altra famiglia, che aveva “offerto di più”.
E donna Giulia (qui a lato in un ritratto di Andrea Appiani verso il 1790) cosa poteva guadagnare dal matrimonio con don Pietro?
Intanto la sistemazione con un possidente di non piccolo taglio (la famiglia Manzoni possedeva tra il territorio lariano e l’area di Pavia terre varie con una rendita di circa 55.000 Lire – più o meno 5 milioni di Euro, nettamente superiore a quella dei Beccaria).
Che poteva aspirare a entrare nel Patriziato milanese, con tutti i vantaggi annessi. E che (sul parere dei comuni conoscenti) era persona normale, non gretta (il quadretto disastroso che essa ne fece per la separazione, è altra cosa – ne parliamo più avanti).
E don Pietro, oltre alla naturale e sana piacevolezza della gioventù di Giulia (per la verità da nessuno mai giudicata come “bella” – l’acuto ritrattista Appiani si tenne fedele alla natura e Pietro Verri, uscita dal convento, l’aveva definita ”sana e robusta”) cosa guadagnava dal matrimonio con la giovane?
Questo è forse più interessante. I Manzoni tra il 1600 e il 1700 avevano posseduto miniere di minerale ferroso, fucine, opifici, altiforni, ed erano stati fornitori dell’esercito spagnolo di stanza in Lombardia. E con tutte le caratteristiche del potere di allora: compresi anche scontri violenti con i concorrenti d’affari.
Ritratto di Giulia Beccaria di Andrea Viappiani, circa 1790.
Con la diminuzione dei profitti dell’attività siderurgica, la famiglia Manzoni aveva indirizzato le proprie risorse verso la rendita fondiaria, con investimenti in immobili e in terre. Verso l’ultimo quarto del ’700, i due fratelli eredi della casata, Paolo (canonico al Duomo di Milano) e Pietro (padre di Alessandro), avevano accentuato l’orientamento verso la proprietà terriera.
E deciso di dare la scalata al Patriziato milanese cui era già appartenuta la loro madre Maria Margherita Porro, una delle più illustri famiglie milanesi.
Al Patriziato di Milano si accedeva su valutazione della Commissione municipale dei Conservatori degli Ordini, a ciò preposta. La quale si basava non sui “gradi di nobiltà” (definiti dal sovrano) ma sulla valutazione circa il rapporto che un nobile poteva dimostrare di avere avuto per almeno cento anni con la città.
Ovviamente in queste cooptazioni non codificate da elementi oggettivi, erano importanti le relazioni. Anche per ciò, Pietro Manzoni aveva accettato di sposare Giulia Beccaria, contando di rafforzare la progettata domanda di adesione all’élite cittadina, che infatti avanzò nel 1791.
A don Pietro andò male, anche per il Patriziato. La sua domanda, esaminata solo nel 1792 (a separazione da Giulia già avvenuta) venne respinta. La Commissione ritenne che i Manzoni non avessero maturato un sufficiente legame con la città nel cui Patriziato chiedevano di entrare.
Indipendentemente dagli “strati” di nobiltà.
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