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Martedì 18 maggio 2021

La nostra Nota critica
«Lotto sguardato da Frangi — Per Lecco un capolavoro tutto da verificare»
è stata pubblicata il 16 aprile 2021.

Sul Corriere della Sera dell’11 maggio 2021 due pagine di “promo-distrazione” dalle evidenti criticità del dipinto di Lotto in mostra di Lecco.

Martedì 18 maggio 2021

La nostra Nota critica
«Lotto sguardato da Frangi — Per Lecco un capolavoro tutto da verificare»
è stata pubblicata il 16 aprile 2021.

Dalle colonne del Corriere della Sera dell’11 maggio 2021 una risposta solo pubbli-redazionale­­ alla nostra analisi sul dipinto di Lotto e sulla mostra di Lecco.

Tenendo giudiziosamente conto della nostra analisi, con due paginoni sul CorSera, la Curia di Lecco lascia perdere scoiattolo pliniano, bare mignon e preveggenze varie!

Ma la pezza cucita con il “sermo humilis” è peggio del buco!

E il curatore artistico Valagussa non molla con l’abbaglio su Berenson, imbarazzante per le quotazioni commerciali del dipinto!

Anzi, raddoppia con una simpatica invenzione ­firmata Scorranese!

Un caldo Grazie! ai giornali del lariano (Leccoonline del 21-04-2021 e LeccoToday del 22-04-2021) per avere dato conto della nostra Nota del 16 dedicata al dipinto attribuito a Lorenzo Lotto ed esposto in questi mesi a Palazzo delle Paure di Lecco.

È un ottimo servizio reso alla collettività!

Un grazie con riserva invece al Corriere della Sera che, confermando solo a metà la validità delle nostre osservazioni critiche, svicola rispetto al tema centrale da noi sollevato: Berenson nel 1895 descrisse un ALTRO dipinto.
Martedì 11 maggio 2021, nei due paginoni (40-41) dedicati al dipinto di Lotto esposto a Lecco, è stato infatti attuato un radicale cambiamento di rotta.
Per sei mesi ogni discorso di promotori e organizzatori della mostra sul senso del dipinto di Lotto era infatti centrato sullo scoiattolo che vi è lì rappresentato e su una sua pretesa capacità predittiva, anticipatrice della tragica Passione del Bambino.
Dopo la nostra Nota, che ha dimostrato l’inconsistenza di questo approccio, gli organizzatori hanno cambiato registro: nei due paginoni del CorSera lo scoiattolo come annunciatore di morte viene infatti ricordato solo una volta e di sfuggita — di fatto, al povero incolpevole animaletto si è data silente sepoltura.
In compenso, a cercare di dare una nuova linea interpretativa, la mai esausta inventiva pubbli-redazionale ci ha donato la rotonda espressione “sermo humilis” che, apparendo di tono “alto”, può sembrare spiegare tutto mentre, in relazione al dipinto di Lotto, spiega nulla!
Ma la cosa veramente grave è un’altra.
Agitando quella bandierina terminologica, sfilata dal taschino di Auerbach, dalle colonne del CorSera gli organizzatori della mostra cercano di tacitare l’altra parte della nostra analisi, forse preoccupati per il posizionamento commerciale del dipinto.
Abbiamo infatti dimostrato in modo inoppugnabile anche l’inconsistenza della ormai centenaria vulgata secondo cui il dipinto esposto a Lecco sarebbe stato descritto da Berenson nella sua monografia del 1895.

Noi sosteniamo che in quell’opera Berenson descrisse un ALTRO dipinto — DA INDIVIDUARE — il che pone l’ovvio problema DA DOVE DIAVOLO — prima del 1929 ma certo dopo il 1895 — sia saltata fuori la tela esposta in questi mesi a Palazzo delle Paure.

Non bisogna essere grandi accademici per comprendere che ciò sostanzialmente lascia il dipinto esposto a Lecco senza carta di identità: sicuramente un bel problema anche per le sue quotazioni commerciali.
Attenzione! Ciò non significa che il dipinto esposto a Lecco sia fasullo: può essere benissimo di Lotto ma bisogna ricostruirne la storia, fino alle nostre osservazioni garantita dall’autorità di Bernard Berenson ma ora senza prove documentali.
A fronte di quanto da noi evidenziato, il curatore artistico della mostra Giovanni Valagussa (tra l’altro Conservatore presso l’Accademia Carrara di Bergamo, un ruolo di rilevante responsabilità culturale), anziché prendere atto dell’evidenza e avviare un serio percorso conoscitivo sul dipinto esposto a Lecco (suggerendo, per esempio, anche le opportune analisi strumentali per cominciare a definirgli un contorno non di sola fantasia) ha scelto tutt’altro percorso.
Con gli imbarazzanti due paginoni dell’edizione nazionale a stampa del Corriere della Sera, promotori e organizzatori della mostra (tra questi vi è anche il Comune di Lecco, Istituzione pubblica che ha ineludibili obblighi nei confronti della cittadinanza) non solo hanno ribadito la “favola Berenson” ma anche servito al mezzo milione di lettori del CorSera, alla cittadinanza di Lecco e agli effettivi o potenziali visitatori della mostra di Lecco, una vera e propria invenzione su quanto esposto in merito al Lotto del 1522 dal celebre critico statunitense-lituano.
La cosa è poco lodevole sotto ogni profilo e riteniamo quindi opportuno tornare, seppure in sintesi, su questo aspetto della nostra analisi del 16 aprile scorso.

1. Invenzioni redazionali e verità documentali.

1 / Deformanti, di fantasia o decisamente erronee le uniche tre affermazioni con una qualche attinenza con la critica d’arte esposte nei due paginoni del CorSera.

Rilevando come non proprio memorabili l’intervista di Beba Marsano a Giovanni Frangi (da segnalare solo un mesto accenno allo scomparso scoiattolo — Frangi aveva puntato tutto su quello) e quella di Ornella Sgroi a due studenti-ciceroni del Liceo di Stato Manzoni di Lecco (si poteva anche segnalare che la formazione loro e di altri 300 studenti è stata interamente curata dalla Curia di Lecco, cosa certo né scontata né inevitabile), nei due paginoni del CorSera, l’unica frase con un qualche collegamento con le problematiche da noi evidenziate è nel redazionale “Anatomia della fragilità” a firma di Roberta Scorranese (p. 40, evidenziazione nostre):

«La Madonna con Bambino tra i Santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria, datato 1522, è la sintesi perfetta del sermo humilis di Lorenzo Lotto, come aveva intuito Bernard Berenson, autore di una fondamentale monografia sull’artista — nella quale, peraltro, compare questo quadro, già nel 1895, oggi in una collezione privata.»

Quindi, secondo Scorranese:

1. Il dipinto esposto a Lecco sarebbe l’espressione perfetta di un “sermo humilis” che Lotto avrebbe espresso nel 1522.

2. Nella sua monografia del 1895 Berenson avrebbe evidenziato questo “sermo humilis”, presuntivamente elaborato da Lotto.

3. Nella medesima monografia Berenson avrebbe descritto criticamente il dipinto esposto a Lecco.

Ci rincresce di dovere dire, col sermo il meno humilis possibile, che le tre affermazioni sono tutte e tre destituite di qualsiasi fondamento!

Cominciamo dall’ultima, su cui ci siamo già ampiamente espressi e che è preliminare a qualsivoglia discorso di approfondimento.

Il 16 aprile 2021 abbiamo pubblicato la Nota titolata «Lorenzo Lotto sguardato da Giovanni Frangi. Per Lecco un “capolavoro” tutto da verificare.» ].

Si tratta di oltre 95 cartelle formate da 38.000 parole (per dare una idea, i due paginoni del CorSera ne riportano 2.297) accompagnate da oltre 110 documenti iconografici.

Circa la metà di questo materiale, tutto strettamente documentale, è dedicato a dimostrare che Berenson, nella sua monografia lottesca del 1895, descrisse un dipinto che certo apparteneva a un genere sperimentato da Lotto attorno al 1520, ma che presentava evidenti elementi oggettivi che lo distinguono da quello esposto a Lecco in questi mesi.

Qui sotto riportiamo le pagine della monografia di Berenson del 1895 cui abbiamo fatto riferimento per la nostra analisi (qui per la nostra traduzione).

Da una lettura anche superficiale di queste tre paginette, e senza bisogno di particolari competenze critiche, qualsiasi lettore può convenire con quanto noi abbiamo ampiamente dimostrato: Berenson descrisse in quella monografia un ALTRO dipinto, da identificare; di certo NON quello esposto a Lecco.

Ci meravigliamo che commentatrici esperte come Scorranese, Marsano e Sgroi non solo non hanno minimamente tenuto conto della nostra Nota (sopravviveremo anche a questo) ma non si sono prese neppure il piccolo disturbo di andarsi a leggere Berenson.

Noi abbiamo riportato cinque prove documentali che qui riassumiamo, invitando il lettore interessato a consultare la Sezione 5 della nostra Nota del 16 aprile per una più ampia disamina.

Nel dipinto descritto da Berenson abbiamo una Madonna che:

1. è appoggiata all’indietro (nel dipinto esposto a Lecco è inclinata in avanti);
.
2. guarda ciò che avviene tra il Bambino e Santa Caterina (nel dipinto esposto a Lecco invece guarda noi);
.
3. è in un contesto che Berenson giudicava “matrimoniale”, tanto da intitolarlo “Marriage of St. Catherine” (nel dipinto esposto a Lecco non c’è proprio nulla di matrimoniale).

La Santa Caterina dal canto suo:

4. ha un serto di pervinche e alloro (a Lecco, solo di pervinche);
.
5. porta — attenti al plurale — gioielli e perle (a Lecco, solo un gioiello formato da un rubino e una perla).

A fronte di questi elementi inconfutabili, continuare a sostenere (come fa Valagussa col tramite di Roberta Scorranese e col tacito assenso di Marsano e Sgroi) che Berenson nella monografia lottesca del 1895 descrisse il dipinto che in questi mesi è esposto a Lecco, è qualcosa di più che inerzia intellettuale: è la dimostrazione lampante della incomprensione di quali siano le questioni sottese alla dimostrata nullità della bibliografia attribuita a Berenson 1895.

2 / Ovviamente ne viene messo in discussione il posizionamento sul mercato dell’arte.

Lo ripetiamo: con la nostra Nota del 16 aprile 2021 abbiamo dimostrato che la bibliografia relativa al dipinto esposto a Lecco, oggi nelle disposizioni della Collezione Camozzi-Vertova di Costa di Mezzate, è tutta da rivedere.

Al lettore che non si occupa con particolare attenzione di queste tematiche la cosa può apparire non particolarmente significativa.
Per il mercato dell’arte è cosa che conta invece — e parecchio.

Come noto, il valore di un dipinto, realizzato in un passato ormai abbastanza remoto (nel nostro caso parliamo di mezzo millennio), è in gran parte legato alla identificazione certa del suo autore.
Quel tale dipinto è di Tiziano, Tintoretto, Leonardo, Lotto, Correggio, ecc. ecc. oppure è di un artista a loro coevo che li ha imitati più o meno innocentemente?

Oppure è un lavoro di bottega, realizzato da uno o più allievi sotto la supervisione del maestro, magari con un suo intervento diretto solo su una piccola parte o con solo la sua firma?
Oppure — Apollo ci scampi e liberi — è stato prodotto da un pittore più tardo di qualche secolo?

Se ci pensate, sul piano ideologico-culturale, chi effettivamente sia l’autore di un’opera è solo relativamente importante: se in un dipinto è raffigurato un certo modo di intendere il concetto della Santissima Trinità, o la lotta degli schiavi, o il comportamento più o meno pudico di una Odalisca, poco importa che sia tutto ed esclusivamente opera di un grande nome — conta il suo contenuto e la qualità della rappresentazione.

La cosa però cambia quando ci spostiamo sul piano del collezionismo, da sempre strettamente legato a interessi — banali ma serissimi — di carattere economico.

3 / Gli pseudo Leonardo e Caravaggio … occhio ai quattrini!

Nella nostra Nota del 16 aprile abbiamo sollecitato analisi strumentali sul dipinto esposto a Lecco che, a quanto si sa pubblicamente, non vi è mai stato sottoposto.
In risposta il solito silenzio da tanatosi, quasi la nostra fosse una strana richiesta, quando invece le analisi strumentali sulle opere d’arte sono ormai prassi comune.
Visto anche che molte di queste analisi hanno oggi un costo veramente modesto, è inevitabile chiedersi perché vi sia questa reticenza a una maggiore e condivisibile conoscenza su opere che vengono proposte come particolarmente significative alla pubblica attenzione; viene inevitabilmente da pensare che queste analisi potrebbero mostrare dati oggettivi che — forse — modificherebbero opinioni ben consolidate sotto decennali strati di “idee”, “sensazioni”, “intuizioni” ecc. ecc., spesso pure chiacchiere tutte funzionali solo alla proprietà delle opere stesse e alla loro appetibilità commerciale.

È dei primi di quest’anno la decisione definitiva da parte della Francia di NON acquistare il dipinto “Giuditta che decapita Oloferne”, scoperto in una soffitta di Tolosa nel 2014 e poi esposto nel 2016 alla Pinacoteca di Brera come autografo di Caravaggio (la cosa provocò grosse polemiche interne).
La Francia, che lo aveva in prima battuta definito “tesoro nazionale”, dichiarandosi disposta a acquistarlo anche per 120 milioni di Euro, ha cambiato idea essendosi sempre più affermata l’ipotesi che il dipinto, definito comunque “di qualità eccellente”, sia stato in realtà realizzato dal coevo Louis Finson, pittore fiammingo e autore di numerose copie di opere del Merisi.

È invece di questi giorni il chiarimento del caso del “Salvator Mundi” dopo due anni di serrati confronti anche al livello diplomatico intercontinentale.
Acquistato da un privato nel 2017 come interamente di Leonardo da Vinci per 450 milioni di dollari, non venne esposto alla mostra del Louvre su Leonardo (inaugurata a Parigi il 21 ottobre 2019) perché, dopo approfondite perizie strumentali, il prestigioso Museo francese aveva valutato che in quell’opera l’intervento di Leonardo era stato irrilevante — per il privato, 450 milioni di $ buttati nel gabinetto.

4 / E allora? come ci si deve regolare?

Il lettore si chiederà: ma allora cosa garantisce che il dipinto “X” sia autografo di Leonardo, Lotto, ecc. ecc.?

Là dove presente, la documentazione oggettiva.
Altrimenti l’autorevolezza e l’affidabilità degli esperti che lo certificano sulla base di molteplici considerazioni — storiche, culturali, di stile, ecc. ecc.
Più consolidate sono le certificazioni su una autografia, più affidabili e di prestigio gli esperti, maggiore la certezza, maggiore il valore commerciale dell’opera.

Nel caso del dipinto appartenente alla Collezione Camozzi-Vertova ed esposto in questi mesi a Lecco, il più importante testimone della sua attribuzione a Lorenzo Lotto è da quasi cento anni indicato in Bernard Berenson, nella nostra epoca forse il più noto al Mondo tra gli esperti della pittura rinascimentale.

È chiaro che accettare la nostra tesi secondo cui Berenson descrisse nel 1895 un ALTRO dipinto, e non quello esposto a Lecco, obbligherebbe ad azzerarne la bibliografia; obbligherebbe a ricostruirne la identità.
Si comprende che i proprietari del dipinto non ne sarebbero contenti; si comprende che le diecine di illustri critici d’arte che non se ne sono mai accorti (o hanno fatto finta di nulla), farebbero la figura dei cioccolatai ma …

Ma noi che ci possiamo fare?
La nostra missione / piacere / dovere è di analizzare i dati della realtà, non assecondare i pur comprensibili desiderata dei proprietari di dipinti preziosi o la reputazione di legioni di critici e di storici dell’arte. O no?

5 / Le implicazioni per la Curia.

L’azzeramento della bibliografia costruita sul dipinto esposto a Lecco, che discende oggettivamente dalla nostra analisi, ha un ovvio riflesso anche sulla Curia della città, promotrice della mostra.

Abbiamo già rilevato come la Curia abbia generosamente utilizzato l’immagine del dipinto nella sua comunicazione ai fedeli, affiancandolo a cardini della dottrina e della prassi religiosa: il Natale, la Passione, la Resurrezione.
Il fatto che ora, proprio con la doppia paginata sul CorSera la Curia abbia cambiato registro e ne parli come di “collante di una comunità colpita dalla pandemia” o come “antidoto a una ripresa illusoria” non cambia di una virgola l’importanza dell’investimento culturale che su quel dipinto ha fatto il Prevosto di Lecco, Don Davide Milani.

Non interessa alla Curia lecchese che su quel dipinto non vi sia neppure il più piccolo dubbio? non sarebbe opportuno che, a fronte delle nostre circostanziate osservazioni, ci si impegnasse a rendere più solido quel riferimento iconografico usato a piene mani nel rapporto con i fedeli della città?

Guardate che la cosa non è affatto complicata.
È sufficiente sottrarsi a quella vera e propria TANATOSI che sembra cogliere le Istituzioni lariane ogni volta che viene sollevato un qualsivoglia problema di carattere culturale — tanatosi tanto più esibita quanto più fondate appaiono le osservazioni critiche.

Il non rispondere non è mai manifestazione di superiorità o forza: è proprio al contrario l’espressione più palese di impotenza a rispondere o di una convenienza a tacere.

Il nostro Centro Studi ha svolto la sua analisi con la Nota del 16 aprile.
Domanda: gli argomenti di quella analisi hanno un qualche valore o sono tutte sciocchezze?

Se i nostri interlocutori ritengono che siano sciocchezze, non dovrebbero avere alcun problema a dimostrarlo pubblicamente: quale migliore occasione per fare stare zitti quei mai contenti del Centro Studi dell’Abate Stoppani assestando loro sulle orecchie un bel paio di pagine scritte come si deve e definitive?
Se sono sciocchezze non ci vorrà né molto tempo né molto talento.

Se invece non ci si sente in grado di controbattere con argomenti altrettanto documentati, allora il silenzio o lo scantonare è la cosa peggiore che si possa fare.
Non solo perché ci si mostra peggio di quello che probabilmente si è ma anche perché il silenzio immotivato o lo scantonamento, anziché sopire suscitano la curiosità anche di altri attori: perché stanno zitti? avranno qualche cosa da nascondere?

Noi sappiamo bene che non è così, che nulla i promotori e gli organizzatori della mostra hanno da nascondere attorno a quel dipinto, ma è chiaro che, anche tra gli adepti della ricerca storica e culturale, gli atteggiamenti elusivi stimolano gli istinti di caccia — segui la pista: qualche cosa salterà fuori!

Possiamo assicurare che la nostra Nota del 16 aprile è stata accolta da alcuni specialisti del settore con espressioni come “molto interessante” — modo diplomatico per segnalare che abbiamo portato alla luce del sole una voragine conoscitiva che in cento anni nessuno aveva neppure intravisto e che la parte seria della critica d’arte ritiene sia da considerare con attenzione.

6 / Le implicazioni per il Comune di Lecco.

Su questa mostra di Lecco dedicata a Lotto e a Giovanni Frangi il Comune della città ha svolto un ruolo pressoché nullo: il Sindaco Gattinoni e l’Assessora alla Cultura Piazza hanno partecipato, stando in secondo piano, a un paio di presentazioni dell’iniziativa nell’ottobre scorso; hanno detto due parole di circostanza alla sua inaugurazione virtuale del 5 dicembre 2020.
Nulla di più sul piano culturale, lasciando campo libero alla Curia che — con le idee più chiare — si è assunta il compito di indirizzare e dirigere.

In primo luogo — cosa importantissima e nei due paginoni promo-pubblicitari del CorSera accuratamente non detta — istruendo i 300 studenti che hanno dato la loro disponibilità a fare da “ciceroni” nell’apertura della mostra al pubblico.
In secondo luogo accentrando tutta la attività di comunicazione connessa alla mostra.

Il Comune si è limitato a tirare fuori un po’ di soldi, con un contributo di 39.000 Euro: 14.000 sotto forma di servizi espositivi; 25.000 in Euro a fondo perduto (15.000 dei quali a remunerazione di Giovanni Frangi — per approfondimenti vedi qui).
Segnaliamo in proposito che nelle due paginate del CorSera dell’11 maggio, i redattori della manchette in alto a sinistra di p. 41 hanno dimenticato questo piccolo dettaglio, assieme a quello degli altri 50.000 Euro dati a fondo perduto da Fondazione Cariplo, che portano a Euro 144.925 gli incassi totali realizzati da questa iniziativa della Curia nel nome di Lotto-Frangi.

Fin qui avremmo semplicemente la conferma della ormai cronica incapacità da parte delle strutture comunali di produrre progetti culturali di largo respiro e di considerare normale l’essere subalterni alla Curia della città.

La cosa cambia a fronte della nostra analisi che azzera la bibliografia sul dipinto e pone quindi un problema semplicissimo: per che cosa il Comune ha dato contributi per Euro 14.000+25.000?

Per un’opera di Lorenzo Lotto di cui si dovrebbe sapere quasi tutto?
Oppure di un’opera di cui, al di là della sua eventuale qualità pittorica, non si sa praticamente un bel niente?

A fronte di una documentazione oggettiva che solleva problemi reali su una iniziativa che gode di finanziamenti pubblici, il Comune non può fare finta di nulla: deve adoperarsi perché vi sia la massima chiarezza.
Ciò non perché si dubiti di attività poco corrette: ci mancherebbe!
Ma perché lo impone la storia della città di Manzoni, di Stoppani, di Ghislanzoni.

Di una città che non può mai scordare il proprio obbligo / previlegio a sostenere un ruolo di punta nella cultura italiana.
E che quindi non può consentire che nel suo nome si propongano al pubblico iniziative — come la mostra di Lecco dedicata a Lotto e a Frangi — quanto meno fragili e suscitatrici di dubbi.

Il nostro Centro Studi ha posto sul tappeto alcuni problemi culturali e critici in relazione a quel dipinto attribuito a Lotto: il Comune ESIGA dagli organizzatori della mostra e dai proprietari dell’opera (che sono remunerati almeno con 5.000 Euro per il “prestito”, con l’aggiunta di una lunga e vasta pubblicità mediatica a tutto favore della sua valorizzazione anche commerciale), di renderne pubblica la vera storia e di tirare fuori le analisi strumentali che certo sono state eseguite sul dipinto per sapere se è veramente di Lotto e se vi sono elementi interessanti per la critica di quell’opera.

E se nulla è stato fatto in quel senso, il Comune si faccia promotore di una indagine seria: spinga gli organizzatori e i proprietari a operare (non ci vogliono molti soldi) perché su quel dipinto si possa sapere tutto ciò che la scienza oggi ci può offrire; si attivi perché venga messa da parte la reticenza sulla storia proprietaria del dipinto, rivendicata con innocente disinvoltura dal curatore artistico Valagussa e dal portavoce Cortella nel Webinar del 23 febbraio 2021 (per approfondimenti, vedi qui).

Ricordiamo che nel 1978 Rona Goffen mise in piedi un ampio (anche se lacunoso e a tratti solo fantastico) apparato concettuale che ha fatto scuola (vedi qui), proprio a partire da indagini strumentali sulla versione “Boston” del dipinto, fino ad allora pressoché sconosciuta.

E allora, perché nessuno finora ha fatto nulla in proposito sul dipinto esposto a Lecco (o ne tace)?
Tutti ne esaltano lo stato eccezionale di conservazione: scopriamone il segreto; apriamo un nuovo capitolo di conoscenza! Pensate quale contributo alla conoscenza anche della tecnica di Lotto ne verrebbe!

Se invece organizzatori e proprietari continueranno a fare orecchie da mercante, allora il Comune riconsideri il contributo a fondo perduto accordato agli organizzatori della mostra (è previsto che i quattrini siano erogati a consuntivo dell’iniziativa): ci mancherebbe anche che la collettività si debba trovare a finanziare iniziative oggettivamente opache!

Ma andiamo avanti con i due paginoni del CorSera.

7 / Una bandierina intessuta di solo fumo.

E passiamo a quel “sermo humilis”, innalzato a mo’ di vessillo da Scorranese in sostituzione del povero scoiattolo, già onnipresente e ora ridotto a una unica fuggevole citazione nel mega promo del CorSera.

Scorranese ha ritenuto superfluo dire qual sia l’accezione dell’espressione cui ella voleva riferirsi, lasciando al lettore il piacere di dare un qualsivoglia senso al quel “sermo humilis” alla cui gradevolezza eufonica è stata ora affidata la spiegazione del senso del dipinto esposto a Lecco.

Non è il caso di addentrarci qui nella disamina dell’espressione, inventata da Erich Auerbach alla metà del ’900: limitiamoci a ricordare che è spessissimo usata del tutto a sproposito.

Auerbach elaborò l’espressione “sermo humilis” a indicare lo sforzo compiuto dai grandi diffusori della dottrina cristiana nei primi secoli (Sant’Agostino) e poi nel tardo Medioevo (Dante) per esprimere i concetti della dottrina, filosoficamente complessi (e anche oscuri), nel linguaggio delle masse con ridotte competenze culturali che costituivano uno dei loro principali pubblici di riferimento.

Va da sé che l’espressione artistica figurativa (in particolare la pittura) ampiamente impiegata dalla Chiesa per attrarre nei luoghi di culto e istruire anche le classi sociali culturalmente meno attrezzate, dovevano per definizione essere “humilis”: dovevano cioè trasmettere sia al cuore sia alla mente dello spettatore — con immediatezza e senza ambiguità — i diversi aspetti della dottrina cristiana.
Un pittore che non avesse usato un linguaggio “humilis” avrebbe fatto poca strada nei tanti secoli in cui l’arte fiorì nelle chiese.

Ma che c’entra questo con il dipinto esposto a Lecco?
Qualunque cosa si voglia intendere con l’espressione “sermo humilis” e pur ipotizzando che Lorenzo Lotto potesse — ma questo eventualmente solo in età avanzata — pensare a se stesso come a un Agostino da Ippona o a un Dante, armati di pennello, è del tutto certo che il dipinto esposto in questi mesi a Palazzo delle Paure in Lecco, nulla ha a che vedere con la volontà o il tentativo di rendere fruibile da illetterati i concetti complessi della dottrina cristiana da parte di Lorenzo Lotto, quarantenne nel suo periodo bergamasco.

8 / Incongruità documentale.

Altro che “sermo humilis”: secondo Berenson nel 1522 (ai suoi 40 anni, appunto) Lotto avrebbe sperimentato un genere raffinato, caratterizzato da Madonne e Sante avvenenti e vestite con ricercatezza, rappresentate con uno stile altamente sofisticato.

Lo ripetiamo, secondo Roberta Scorranese, nella sua monografia del 1895, Berenson avrebbe constatato nelle opere di Lotto del 1522 la «sintesi perfetta di un sermo humilis» che avrebbe caratterizzato Lotto, quasi in opposizione a pittori di regime come Tiziano.

Questa è qualcosa di più di una ingenua invenzione: è una vera e propria alterazione di un dato documentale perfettamente constatabile da chiunque.

Tornate a leggere le tre paginette sopra riportate: lì Bernhard Berenson lo scrisse bene in chiaro:

«L’anno 1522 è rappresentato da tre lavori datati, tutti del medesimo peculiare e raffinato genere: Madonna o Sante, estremamente avvenenti, sono vestite con grande ricercatezza, rappresentate con uno stile altamente sofisticato».

L’esatto contrario di quanto suggerito da Scorranese che invece indica in quel momento della vita di Lotto la pratica di un “sermo humilis” pittorico, teso alla illustrazione della dottrina cristiana.

D’altra parte ce lo conferma proprio Berenson nella stessa già citata monografia su Lotto, p. 330 (evidenziazioni nostre):

«Una sollecitazione strettamente cristiana o religiosa è, nonostante queste Madonne, meno frequente negli anni bergamaschi di Lotto che in quelli precedenti o successivi della sua vita. Essendo la religione per lui piuttosto un bisogno di sostegno e di consolazione che l’oggetto di uno sforzo artistico, essa gioca una parte meno importante quando la marea della vita è più alta in lui

Chiaro no?

9 / Incongruità nel fatto.

Altro che “sermo humilis”: il dipinto esposto a Lecco è parte di una serie di composizioni destinate a soddisfare la superbia sociale di patrizi e alto-borghesi, appena mascherata dai veli dell’iconografia religiosa.

Come scrisse Berenson nella già pluricitata monografia lottesca, nel 1522, vivente in Bergamo, Lotto produsse tre dipinti, raffiguranti Madonne e Sante tutte bellissime e benissimo vestite, caratterizzate da invasive grandi maniche (l’ultima moda del momento) che si prestavano ottimamente all’impiego di masse multisfaccettate di colore rosso vivo o arancione acceso — una sfida e una goduria per qualsiasi pittore.

1. “Marriage of St. Catherine” [Sposalizio di Santa Caterina], da Berenson indicato come il più affascinante.
È quello che la vulgata ormai centenaria indica nel dipinto esposto a Lecco ma che in realtà nulla ha a che vedere con questo e che non è stato ancora individuato.

2. “Madonna e Bambino tra i Santi Girolamo e Nicola da Tolentino” [Antonio da Padova], conservato a Londra.

3. “Santa Caterina”, Leuchtenberg (che egli però vide solo in una incisione).

La Madonna che egli vide nel primo dipinto (a noi non noto) e che descrive nella monografia del 1895 è a metà strada tra la “Madonna con Bambino e i Santi Rocco e Sebastiano”, 1521 (Ottawa, Canada) e quella delle “Nozze mistiche di Santa Caterina con il donatore Niccolò Bonghi”, 1523 (Accademia Carrara, Bergamo).

Nulla vieta — e anzi tutto fa pensare — che di dipinti coerenti con quel genere sperimentato da Lotto attorno a quell’anno 1522 ce ne possono essere anche altri (di varianti di quel tipo un pittore esperto come Lotto poteva sfornarne anche diecine in pochi mesi).

E infatti ne abbiamo la versione “Boston” (da Berenson non conosciuta) da qualche decennio ben nota e apprezzata e che può essere definita come un QUARTO componente della serie “Madonne e Sante bellissime ed elegantissime”.

Di tutta evidenza, il Costa-Mezzate in questi mesi esposto a Lecco, può esserne indicato come un QUINTO componente (che Berenson nel 1895 non vide e comunque non descrisse).

Fu proposto per la prima volta — anche con fotografia — nel 1929 da Venturi nella sua “Storia della Pittura Italiana” (vedi qui) che, guarda caso, non ne evidenziò alcun legame particolare con Berenson.

Per ragioni da appurare, Berenson, con un percorso avviato nel 1932 e conclusosi nel 1955 con la pubblicazione della terza edizione della sua monografia su Lotto, decise però di farlo passare per quello da lui descritto nel 1895, dando prova di non grande trasparenza (per una esaustiva esposizione di questa ambigua vicenda, vedi qui).

10 / Un genere pittorico “religioso” solo nei riferimenti iconografici: tutto mondano nella sostanza.

I dipinti di quel genere “raffinato”, cui appartiene anche il dipinto esposto a Lecco, non erano affatto destinati al pubblico indifferenziato (e quindi anche “umile”) che frequentava le chiese.

Erano commissionati a Lotto e ai suoi colleghi da patrizi e alto-borghesi per esaltare o se stessi o le proprie mogli e figlie, mascherandole da Madonne o Sante, e tenendo questi dipinti-pubblicità ben lontani dagli sguardi della gente minuta.

È ovvio che a questi signori dalla borsa ben fornita non interessava vedere rappresentate le loro compagne di vita e di stato sociale come modeste normali donne (magari anche banali o bruttine): dovevano brillare per una evidente bellezza tutta mondana e rifulgere in abiti all’ultimissima moda.

Per queste opere i committenti volevano che della religione il pittore richiamasse le esteriorità, di certo non che facesse opera di indottrinamento, qualunque potessero essere verso il 1520 a Bergamo le spinte spirituali di Lotto, del resto deboli nell’artista in quella fase della vita, come abbiamo visto sottolineò proprio Berenson nel 1895, nella citazione che abbiamo poco sopra riportato.

L’idea quindi che dipinti di quel genere fossero da Lotto gestiti come veicoli di un suo “sermo humilis” è veramente una corbelleria grande come una casa.

11 / Riassumendo ….

Sul dipinto attribuito a Lotto ed esposto a Lecco, nella nostra Nota del 16 aprile abbiamo sollevato in modo documentato e da tutti intelligibile due problemi critici, suggerendo un percorso conoscitivo alternativo:

1. Berenson nella sua monografia lottesca del 1895 NON descrisse il Costa-Mezzate in questi mesi esposto a Lecco ma un ALTRO dipinto, da identificare.

2. Il contenuto culturale del dipinto esposto a Lecco, dagli organizzatori presentato come previsione della passione del Bambino, indicata con enfasi dalla presenza dello scoiattolo preteso preveggente e da una bara mignon su cui poggia il Bambino stesso, è destituito da ogni riscontro documentale.

Per potere formulare una interpretazione alternativa che consenta una migliore intelligenza del senso del dipinto, abbiamo indicato che sarebbe necessario:
averne chiari i passaggi proprietari (altro che riservatezza);
condurre le opportune analisi strumentali da cui sicuramente potrebbero emergere interessanti spunti.

In risposta alla nostra analisi, i promotori e gli organizzatori della mostra, anziché prendere atto della correttezza e sensatezza delle osservazioni, agitando le due lenzuolate del CorSera:

hanno cancellato zitti zitti gli aspetti più evidentemente inconsistenti della loro ipotesi interpretativa, ma …

non si sono spostati di una virgola sulla “questione Berenson” da noi sollevata.

Ci sembra evidente che questa reticenza a riconoscere l’ovvietà sia strettamente legata alle medesime esigenze che hanno spinto gli organizzatori a praticare e chiedere quell’incredibile silenzio sulla proprietà e la storia del dipinto, così sfacciatamente espresso da Valagussa e Cortella nel corso del Webinar del 23 febbraio 2021, memorabile per la caccia a vuoto allo scoiattolo.

A proposito della quale, è da rilevare che nei due paginoni del CorSera dell’11 maggio 2021 non solo è scomparso il piccolo roditore ma pure il Professor Antonio Mazzotta.
La cosa è curiosa: il giovane storico dell’arte infatti non solo è l’autore del principale contributo critico del Catalogo ufficiale della mostra di Lecco (“Lorenzo Lotto: variazioni sul tema” — 13 pagine) ma in questi ultimi sei mesi ha svolto un ruolo centrale in molti dei momenti pubblici di promozione del dipinto e della mostra.

Che fine ha fatto il giovane Prof.?
Non pensiamo che il non aver trovato lo scoiattolo nella selva oscura della monografia lottesca di Berenson del 1895 possa giustificare un così radicale ostracismo; nel medesimo pasticcio si è infatti trovato anche il Prof. Valagussa, presentissimo invece nel CorSera dell’11 maggio.

Che il Prof. Mazzotta ritorni tra noi: nei suoi interventi ci ha detto anche cose interessanti e ci ha regalato comunque un momento di indimenticabile buon umore!

Fabio Stoppani
Centro Studi Abate Stoppani.

Stavamo per scordarcene …

Nell’assemblare i due paginoni per il Corriere della Sera dell’11 maggio 2021 a pro’ della mostra di Lecco, i confezionatori hanno proposto al lettore una vistosa distorsione percettiva, certo involontariamente.

A p. 41, nella striscia superiore della pagina, della sala ricavata al Palazzo delle Paure di Lecco nella quale sono esposti sia le 7 opere di Giovanni Frangi sia il dipinto attribuito a Lotto, hanno infatti proposto al lettore le due fotografie che mostriamo qui sotto.

Il lettore del CorSera ne ricava inevitabilmente l’idea che il dipinto di Lotto non solo sia largo più del doppio dell’altezza ma soprattutto che occupi nella parete poco meno delle opere di Frangi rappresentate nella fotografia a lato.

Solo per spirito di servizio, segnaliamo che così non è.
Come avevamo evidenziato nella nostra Nota del 16 aprile (vedi qui), non solo il dipinto di Lotto misura cm h74x68 (ossia è più alto che largo) ma ha una superficie di mq 0,47, ventidue volte meno dei mq 10,5 occupati dalle 7 opere di Frangi — tutto il contrario di ciò che appare nei due paginoni del Corriere della Sera (certo involontariamente).