Mercoledì, 21 ottobre 2020.
Nota n. 2 sulla nuova configurazione del Museo Manzoniano di Lecco.
Il 31 luglio scorso abbiamo dato conto delle numerose balordaggini imposte ai visitatori del Museo Manzoniano di Lecco (VEDI QUI). La segnalazione è stata ignorata dai responsabili del settore cultura/musei della città: l’ex Assessore alla Cultura Simona Piazza (ma oggi riconfermata a questo ruolo nella nuova Giunta comunale) e il Direttore scientifico del Museo, Mauro Rossetto.
L’8 ottobre, all’appena eletto Sindaco Mauro Gattinoni abbiamo quindi scritto perché intervenisse a correzione di quelli che sono veri insulti alla cultura manzoniana della città.
Non abbiamo avuto il piacere di una risposta ma sabato scorso 17 ottobre abbiamo verificato di persona che al Museo è stata cambiata solo l’etichetta della castronata più evidente.
È rimasta invariata la data fasulla della nomina di Manzoni a Senatore sul pannello informativo della Sala 9.
Invariata la sgangherata pagina Facebook del Museo: per il divertimento dei due miliardi di utilizzatori della piattaforma, l’erogazione di una pensione a Manzoni viene tuttora presentata come la sua nomina a Senatore.
Invariato il grave falso storico sull’inventato “Saluto al Re” dell’aprile 1860 da parte della Camera dei Deputati, da Manzoni mai scritto neppure in bozza né tantomeno pronunciato, con una grottesca riscrittura del nostro Risorgimento e del ruolo che in esso ebbe Manzoni.
I casi sono due: o il Sindaco Gattinoni ha dato indicazione che si cambiasse solo l’etichetta — cosa che francamente ci stupirebbe e imporrebbe a tutti una riflessione seria — o sono gli inetti e indifferentii funzionari museal/museografici che, oltre ai visitatori, hanno voluto prendere in giro anche il neo Sindaco, lasciando invariati, a sua insaputa, i vergognosi errori da noi evidenziati (cosa che riteniamo molto più probabile).
Con questa Nota n. 2, oltre a una messa a punto sulla realtà storica del contraffatto “Discorso di Lecco” di Carducci, dobbiamo purtroppo segnalare ulteriori castronate inflitte ai visitatori del Museo Manzoniano nella medesima Sala n. 9. E siamo solo alle prime battute della nostra analisi!
E la nuova “Assessora alla Cultura e Polizia locale” (nonché Vice Sindaco) Simona Piazza che farà?
Farà il suo dovere, rimediando prontamente a questi nuovi insulti alla cultura manzoniana della città? Oppure continuerà a permetterli e a sostenerli, come ha sistematicamente fatto, soprattutto negli ultimi tre anni della passata amministrazione, come da noi ampiamente documentato ed evidenziato anche dalla stampa locale?
Basteranno pochi giorni per saperlo!
Suggeriamo al neo-Sindaco di non seguire il vergognoso e anti-civico esempio del suo predecessore (campione ineguagliato di tanatosi istituzionale) e di instaurare una normale interlocuzione con i cittadini che segnalano errori e deficienze su argomenti di pubblico interesse — un falso storico al Museo è peggio di un albero pericolante sulla pubblica via.
Quando un cittadino gli scrive (soprattutto se per posta certificata) gli risponda!
Sono sufficienti poche parole: “Gentile signore, abbiamo registrato la Sua segnalazione: verificheremo e, al caso, interverremo immediatamente. Le daremo comunque conto delle nostre valutazioni nel merito. Grazie per l’attenzione al patrimonio collettivo”.
L’appena eletto Sindaco Gattinoni non si è presentato come il “Sindaco di ciascuno”?
E allora lo sia — non si limiti alle parole!
NOTA
2
«Dal Monumento
a Manzoni
in Lecco, strappata
l’anima lecchese»
Al Museo Manzoniano di Lecco ostracizzato il geniale e generoso manzoniano Abate Stoppani, esaltato l’antimanzoniano e travisatore Carducci.
Nella narrazione sul Monumento a Manzoni in Lecco cancellati fatti, protagonisti, documenti della città e il suo stesso nome.
Messo invece in risalto l’antimanzoniano Giosuè Carducci e il suo contraffatto “Discorso di Lecco”!
Cancellato il lecchese Abate Antonio Stoppani che per vent’anni ne fu mente, anima, cuore e braccio, con l’intelligenza dell’arte e la tenacia del bronzo ricordando all’intera Italia: “Lecco città di Manzoni”.
Cancellato lo scienziato darwiniano Gaetano Negri che per 90 minuti ne tenne il bel Discorso inaugurale, iniziandolo e chiudendolo col ricordo dell’Abate Stoppani.
Cancellato il lecchese Abate Antonio Stoppani che per vent’anni ne fu mente, anima, cuore e braccio, con l’intelligenza dell’arte e la tenacia del bronzo ricordando all’intera Italia: “Lecco città di Manzoni”.
Cancellato lo scienziato darwiniano Gaetano Negri che per 90 minuti ne tenne il bel Discorso inaugurale, iniziandolo e chiudendolo col ricordo dell’Abate Stoppani.
Cancellati i lecchesi Antonio Ghislanzoni e Mario Cermenati che ne furono intelligenti ed efficaci promotori a fianco di Stoppani.
Cancellati i lecchesi Antonio Ghislanzoni e Mario Cermenati che ne furono intelligenti ed efficaci promotori a fianco di Stoppani.
Cancellata infine la ricca, unica, originale documentazione che illustra come l’Abate Stoppani e la città progettarono, promossero e realizzarono il monumento a Manzoni e al romanzo “I Promessi Sposi”.
Diecine di manifesti anche esteticamente avvincenti; centinaia di documenti degni di un affascinante e tutto lecchese snodo del Museo Manzoniano: un nucleo di vera cultura lariana per spingere italiani e stranieri a visitare e amare Lecco, città del Manzoni e dei Promessi Sposi.
Messo in evidenza invece Giosuè Carducci, sempre anti-manzoniano, spesso in modo ottusamente goliardico.
Valorizzata una sua gherminella letteraria, pomposamente titolata “Discorso di Lecco”: 686 parole scritte nel pomeriggio di mercoledì 14 ottobre 1891 rimangiandosi le lodi da lui fatte domenica 11 ottobre all’uomo e al politico Manzoni, in uno dei dieci brindisi serali, a inaugurazione conclusa da un pezzo.
Una doppia rivoltatura di gilet, poi addirittura spacciata come “DISCORSO INAUGURALE”, a irrisione della buonafede altrui e della memoria collettiva.
Contestato con clamore per le giravolte politiche, deriso per ingenue vicende editorial-amorose, braccato per un conflitto di interessi proprio su Manzoni (anche per lui escluso dai libri di testo dell’intera nazione), in quella domenica 11 ottobre 1891 a Lecco, Carducci cercava all’ombra del Monumento di Manzoni meno conflittuali riposizionamenti.
Per tutta la cerimonia di inaugurazione del Monumento confinato al silenzio dai manzoniani sodali dell’Abate, il “Vate della Terza Italia” poté parlare solo ai brindisi della cena serale — ce ne furono altri nove, tutti pronunciati in una euforica e chiassosa confusione.
Pressato dall’ambiente cortesemente ostile, e certo già carburato come gli piaceva, parlando per non più di tre minuti rivoltò il gilet, dicendosi da sempre entusiasta ammiratore del Manzoni non solo artista, ma uomo e politico.
Nulla disse invece sul senso del monumento e, proprio come il clero reazionario, tacque sull’Abate Stoppani, scomparso ormai da dieci mesi ma indiscusso protagonista di quell’11 ottobre 1891.
Nei resoconti giornalistici relegato nelle note di colore dedicate ai brindisi di fine giornata, per il troppo repentino e radicale voltafaccia venne mordicchiato dal Corriere della Sera che titolò una noticina di poche righe con un “Carducci si ricrede”.
Spaventato di se stesso nel vedersi scritto come dal Giusti ne “Il brindisi del Girella”, Carducci fece nuovamente giravolta: tre giorni dopo, mercoledì 14, redasse un testo eliminando le lodi espresse a Manzoni uomo e politico nel brindisi di domenica sera e con Padovani lo titolò e pubblicò su “Il Resto del Carlino” come “Discorso di Lecco”.
Pochi anni dopo, in modo sfrontato, Padovani si incaricò di spacciarlo (con il silenzio-assenso di Carducci) come il “discorso inaugurale” del Monumento a Manzoni.
Una doppia e risibile auto-sconfessione aggravata da una poco nobile panzana che, dopo 129 anni, trova ancora volenterosi diffusori.
Nella ridanciana Bologna di allora se ne burlarono mettendo alla berlina il “Vate della Terza Italia” come “rivoltatore di gilet”, amante del buon vino.
Ma a Lecco gli ingenui e poco informati museal / museografi (con in testa il Direttore scientifico Mauro Rossetto e tutta la catena “culturale” del Comune: Direttore SiMUL, Pieraldo Lietti; Dirigente Area 4, Massimo Gatti; la già Assessore alla cultura Simona Piazza, la già Giunta al completo, il già Sindaco Virginio Brivio) ne hanno fatto un elemento di attrazione del Museo Manzoniano.
Si falsa così la verità storica e si cancellano dalla memoria collettiva sia figure centrali del Risorgimento italiano sia inediti e veramente interessanti documenti, ben rappresentativi della cultura manzoniana della città di Lecco e del territorio lariano.
Con questa Nota n. 2 sulla nuova configurazione del Museo Manzoniano, cerchiamo di fare chiarezza sull’intera vicenda, augurandoci che ne tenga conto la nuova Amministrazione comunale guidata dal neo Sindaco Mauro Gattinoni.
A margine non possiamo non segnalare — e siamo a DUE — ulteriori strafalcioni nel percorso espositivo del Museo Manzoniano di Lecco.
Sono infatti evidenziati oggetti con nessuna attinenza né con Manzoni né con il suo Monumento in Lecco, e ignorati invece documenti preziosi, testimonianza del rapporto unico della città con lo scrittore.
Una volgare presa in giro riservata ai visitatori del Museo dal suo Direttore scientifico, dall’ex Assessore alla Cultura e dall’ex Signor Sindaco.
Amici lecchesi, in particolare voi che vi occupate di cultura e di storia della città: ce la fate a battere un colpo? Sarebbe sufficiente una vostra lettera al nuovo Sindaco che, ne siamo certi, non potrebbe ignorare figure ben note della città.
Finché rimarrete in silenzio, questi scempi continueranno a ridicolizzare la cultura della città di Manzoni e la vostra stessa funzione.
Da “Bononia ridet”, settimanale satirico bolognese — sabato 17 ottobre 1891.
1. La verità sul contraffatto “Discorso di Lecco” di Giosuè Carducci.
Nella Nota che segue evidenziamo la scelta della Direzione scientifica del Museo Manzoniano di Lecco (e dei suoi referenti, l’ex Assessore alla Cultura Piazza — oggi riconfermata come “Assessore alla Cultura e alla Polizia locale” — e l’ex Sindaco Brivio) sia di minimizzare l’importanza del Monumento a Manzoni che sorge nel centro della città sia di adulterarne la storia con censure ad hoc.
Se ne è cancellato il vero protagonista, l’Abate Stoppani (della sua realizzazione, per vent’anni, mente, cuore, braccio) nonché il messaggio che con quella bella opera d’arte il Comitato cittadino di cui era Presidente volle lanciare all’intera nazione: Lecco è la città di Manzoni; quella Lecco ispiratasi al pensiero del poeta nel costruire la propria fisionomia di città: nessuna accettazione dei soprusi; fiducia nelle proprie forze; giustizia certa ma nel perdono.
Se ne è cancellato l’oratore ufficiale alla cerimonia di inaugurazione dell’11 ottobre 1891, Gaetano Negri, politico e scienziato onesto, darwiniano convinto, ammiratore di Manzoni e amico fraterno del sacerdote Abate Stoppani cui dedicò l’inizio e la fine del suo lungo e seguitissimo discorso su Manzoni, sul senso del monumento, sulla sua storia.
Se ne è cancellato Antonio Ghislanzoni, da sempre grande estimatore di Manzoni, che alle attività del Comitato promotore e del cugino Abate Stoppani, garantì l’appoggio fattivo e coinvolgente di musicisti e cantanti di prestigio.
Se ne è cancellato Mario Cermenati, ammiratore e seguace del naturalista Abate Stoppani, che, pur giovanissimo, si impegnò in riuscite iniziative culturali di promozione per raccogliere fondi.
In una parola, al Museo Manzoniano di Lecco, nel pur asfittico riferimento al Monumento a Manzoni inaugurato nel 1891, si è cancellata ogni traccia del legame tra quell’immagine e l’intera comunità lecchese / lariana.
Una operazione di radicale censura che va ad aggiungersi alla cancellazione della fisionomia stessa di Manzoni operata attraverso il marchio posto a simbolo del Museo dedicato a Manzoni, cui abbiamo dedicato il 31 luglio scorso la Nota n. 1 — Il marchio talebano che cancella Manzoni.
Dall’altro (per di più con grossolani errori di ogni tipo) si è invece dato uno spropositato spazio a Giosuè Carducci che in quella vicenda svolse un ruolo insignificante e si produsse per di più in una poco commendevole doppia giravolta culturale.
Può apparire strano, ma è proprio così.
Il “Discorso di Lecco”, definito tale solo da Carducci e da “Il Resto del Carlino”, in realtà non fu da Carducci mai pronunciato nella forma e contenuti con cui è da 129 anni conosciuto e i cui manoscritti, di pugno di Carducci, sono oggi proposti come degni di nota al Museo Manzoniano di Lecco.
Carducci pronunciò in realtà ben altre parole, allora riportate correttamente dal Corriere della Sera e da altri quotidiani ma poi oscurate dalla propaganda filo-carducciana funzionale a efficienti interessi editoriali e a un certo clima politico-culturale.
Si trattò in realtà, tra una bicchierata e l’altra in una rumorosa cena con un centinaio di commensali, di una dichiarazione di non più di tre minuti, esternata dal poeta/professore la sera dell’11 ottobre 1891 all’Albergo Croce di Malta di Lecco, a cerimonia inaugurale terminata da ore.
Uno dei 10 brindisi che, in una effervescente confusione festaiola chiusero la serata, prima che iniziasse lo spettacolo al Teatro Sociale di Piazza Garibaldi, con proiezione di “ombre” con i volti di Manzoni, Garibaldi, Stoppani.
1.1 / Carducci era a Lecco per cercare di dare una ripulita alla propria immagine, appannata da una serie di negatività.
PRIMO — Da contestazioni per “tradimento” delle idealità democratiche e repubblicane.
Nell’aprile 1891, pochi mesi prima della giornata lecchese, centinaia dei suoi stessi studenti avevano manifestato all’Università (impedendogli di tenere lezione), poi in piazza e sotto casa sua con assordanti fischietti contro il suo appoggio a una iniziativa filo-monarchica in ambito universitario — ne erano usciti processi anche per aggressione (in quell’occasione Carducci si era comportato lealmente, scagionando uno studente “quasi-innocente” che, senza il suo intervento, avrebbe rischiato una grave imputazione).
Nella vignetta pubblicata sul settimanale satirico “Bononia ridet” del 14 marzo 1891 un mare di fischietti-studenti tallona 5 oche monarchiche il cui alfiere è inteso essere Carducci.
SECONDO — da un risibile editorial/carnale conflitto di interessi.
Un amorazzo extra-coniugale del 55enne poeta/professore, abbondantemente sposato e padre di tre figlie (la maggiore nata nel 1859), con Annie Vivanti, 24enne attrice e verseggiatrice di non eccelsa caratura, gioiosamente libera e giovanilmente rampante — ma questi erano fatti loro.
Il fatto di tutti è che il “più grande poeta dell’Italia di oggi”, professore di una prestigiosa Università, membro del Consiglio Superiore dell’Istruzione, alla prima opera della attrice/poetessa (edita da Treves nel febbraio 1890) aveva spianato la strada con una sconsiderata prefazione / pizzino amoroso.
Dalla “Prefazione” di Giosuè Carducci (Lirica, di Annie Vivanti, Treves 1890):
Signorina,
[…]
A Lei, la fisonomia dell’immagine, la tempera del colorito, la qualità della frase e l’andamento del verso vengono e spirano col movimento del fantasma e della passione che Le dan la poesia. Tutto ciò è sempre bene? lo so e Le dico che molte volte mi rapisce.
E Le bacio la mano.
La cosa si era poi evoluta tra Boccaccio e Dumas.
Annie Vivanti, mentre “molte volte rapiva” il maturo poeta/professore, rapiva anche due giovanotti: uno, fidanzato più o meno ufficiale, l’altro del tutto ufficioso. Come succede, i due si erano incrociati sulla soglia di casa della fanciulla: ne era uscita una sfida a duello, poi giudiziosamente fatta svaporare dal fratello di lei.
Dalla “Prefazione” di Giosuè Carducci (Lirica, di Annie Vivanti, Treves 1890):
Signorina,
[…]
A Lei, la fisonomia dell’immagine, la tempera del colorito, la qualità della frase e l’andamento del verso vengono e spirano col movimento del fantasma e della passione che Le dan la poesia. Tutto ciò è sempre bene? lo so e Le dico che molte volte mi rapisce.
E Le bacio la mano.
La cosa si era poi evoluta tra Boccaccio e Dumas.
Annie Vivanti, mentre “molte volte rapiva” il maturo poeta/professore, rapiva anche due giovanotti: uno, fidanzato più o meno ufficiale, l’altro del tutto ufficioso. Come succede, i due si erano incrociati sulla soglia di casa della fanciulla: ne era uscita una sfida a duello, poi giudiziosamente fatta svaporare dal fratello di lei.
TERZO — da accuse di conflitto di interessi proprio in relazione a Manzoni.
Membro dal 1881 del Consiglio Superiore dell’Istruzione, Carducci nel 1884 aveva condotto un duplice diretto attacco a Manzoni in ambito scolastico:
a/ aveva ampiamente condiviso la scelta di escludere Manzoni dai libri di testo obbligatori delle scuole del Regno lasciandone la lettura di “prose” solo all’ultimo anno di liceo e a discrezione del docente — un golpe culturale anti-manzoniano in piena regola;
b/ aveva escluso Manzoni dalla propria antologia “Letture Italiane”, “suggerita” ai ginnasi di tutta Italia dal Ministero dell’Istruzione.
I manzoniani lo accusavano di collusioni affaristico-editoriali con il Ministro Coppino.
La stoccata del quotidiano milanese “Il Secolo”.
Mentre Carducci sabato 10 ottobre 1891 si recava in treno a Lecco per la giornata inaugurale di domenica 11, aveva modo di constatare che quella vicenda anziché svaporare col tempo, continuava a essere ben presente sia ai manzoniani sia alla opposizione antigovernativa (in questo caso rappresentata dal “Secolo” di Milano) cui non garbava la linea monopolizzatrice del Governo nei riguardi dell’istruzione pubblica.
Il quotidiano milanese di quel sabato 10 ottobre accoglieva il poeta/professore con un più che evidente “sinistro-destro” redazionale.
In seconda pagina metteva l’annuncio “Il Monumento di Manzoni a Lecco”, sottolineando che il deputato Merzario, dai primissimi anni ’60 amico e compagno di lotte politiche dell’Abate, era stato nominato a capo dei parlamentari presenti alla cerimonia (con autorità quindi di condizionarne i comportamenti pubblici).
Immediatamente sotto, un articolo — “I libri di testo” — in cui si attaccava Carducci sulla vicenda della esclusione di Manzoni dai libri di testo (sottolineature nostre):
«Nelle scuole secondarie si impongono le antologie del Carducci: e anche queste hanno il difetto di essere disposte secondo partiti letterari e di mancare di quella larghezza imparziale che nelle antologie è doverosa. Per questo partigianesimo si abbonda negli autori del trecento e del quattrocento, trascurando i moderni, fra i quali Manzoni con palese ingiustizia.»
E questo tanto per dargli il benvenuto! alla inaugurazione del Monumento dedicato all’uomo i cui scritti egli aveva partecipato attivamente a escludere dalle scuole del Regno.
Ovviamente quelle poche righe non dovettero piacere a Carducci.
E infatti egli, pochi giorni dopo, nella sua lettera di accompagnamento della riscrittura di quanto pronunciato a Lecco al brindisi serale, citò proprio questo articolo, a evidenziare quanto quella questione gli stesse a cuore.
1.2 / L’incredibile doppia giravolta lecchese di Carducci.
Una vera giravolta per Carducci nei confronti dell’uomo effigiato nel monumento inaugurato in Lecco.
Le sue poche parole, dette con il bicchiere alla mano, in tre minuti e nel brusio di cento commensali, pur con tutta la facondia oratoria di Carducci, non potevano apparire più che una curiosa esternazione, tra l’altro decisamente zoppa in quel contesto.
Carducci infatti non disse una parola né sul monumento (nei suoi tre altorilievi vero messaggio di etica manzoniana) né sull’Abate Stoppani che con quella immagine in bronzo innalzava un monumento non solo allo scomparso Manzoni scrittore, filosofo, politico ma al “manzonismo presente e vivo”, a quell’orientamento etico-politico così efficacemente rappresentato proprio dall’Abate Stoppani.
Come si ricorderà, a metà degli anni ’80 di quel secolo, la forte affermazione di un forsennato positivismo pseudo-scientifico (Marx ed Engels lo ritenevano uno dei peggiori sottoprodotti dello sviluppo selvaggio del capitalismo) e il consolidarsi di una altrettanto forsennata chiusura del Vaticano di fronte sia allo Stato unitario sia alle più elementari esigenze di rinnovamento della formazione e della funzione del clero, avevano sollecitato e favorito il manifestarsi di una “terza via”, rispettosa e della scienza vera e del sentimento religioso.
È noto come l’Abate Stoppani, proprio in quel torno di anni impegnato come scienziato e come teologo a verificarne la possibilità di affermazione, fosse continuamente e brutalmente attaccato dal Vaticano che combatteva in lui anche l’alfiere di Manzoni (il Manzoni conciliatorista e unitario con Roma capitale).
E infatti per quel monumento in Lecco, il clero reazionario della città (e i pochi lecchesi che gli si allinearono — come gli Scola) aveva fatto muro contro Stoppani, arrivando a nominarlo solo di sfuggita nelle cronache della giornata (proprio come al Museo Manzoniano).
Il silenzio di Carducci su uno dei più noti rappresentanti di quel “nuovo manzonismo” andava quindi a sposarsi col silenzio del clero reazionario, in un connubio decisamente deprimente (per l’ex satanico “Vate” naturalmente).
La maldestra giravolta “filo-manzoniana” di Carducci al brindisi di Lecco della domenica 11 sera fu comunque accolta anche con soddisfazione: al termine dei tre minuti ci furono dei “Viva Manzoni — Viva Carducci”.
Tenuto ai margini per una lunga giornata, Carducci poté quindi almeno per un momento sentirsi al centro dell’attenzione e ben accolto (l’uomo era sensibile alle lodi).
Il Corriere della Sera prese atto delle smaccate dichiarazioni “filo-manzoniane” di Carducci: lunedì 12 sintetizzò (in modo veritiero) le sue parole e ci fece sopra solo un poco di ironia, titolando il fine articolo di cronaca della giornata con un “Carducci si ricrede” (ci torneremo sopra; per una prima presentazione di questo breve testo, vedi qui il ritaglio stampa del CorSera).
Centro Studi Abate Stoppani / Museo Manzoniano di Lecco / Nota n. 2 / DOCUMENTI
1.3 / Da Carducci e Padovani una sgangherata difesa pseudo-letteraria.
Ma per Carducci quella breve citazione de “Il Corriere della Sera” di lunedì 12 (che lo collocava tra i brindisi e le luminarie — lui, il più grande poeta vivente d’Italia!) dovette essere una conferma del fallimento dei progetti di visibilità e riposizionamento che lo avevano spinto a Lecco.
Per cercare di riprendersi la scena, fece quindi lanciare dall’amico Padovani, direttore de “Il Resto del Carlino” di Bologna, una sgangherata difesa approntata con mediocri strumenti pseudo-letterari.
Il giorno successivo, martedì 13 ottobre, Padovani, senza minimamente contestare il senso di quanto scritto dal CorSera, si attaccava all’uso del verbo “ricredere” (un appiglio eristico di nessun conto) e in prima pagina del suo giornale sosteneva a spada tratta che “Carducci non si ricrede ma si ripete”, argomentando in modo decisamente sconclusionato — ma chi se ne frega! — che Carducci, almeno dal 1873, aveva lasciato alle spalle le intemperanze giovanili e confermato la sua ammirazione per le “doti artistiche di Manzoni”.
Padovani però teneva a rimarcare che una frase della breve sintesi del CorSera, riguardante il ruolo di Manzoni sul piano politico, era da considerare con la dovuta attenzione (ci torneremo sopra): Carducci doveva apparire un pochino manzoniano, non diventare un manzoniano tout-court.
Mercoledì 14 “Il Corriere della Sera”, finse di prendere sul serio Padovani e, con il titolo “Carducci su Manzoni”, pubblicò un preciso e circostanziato resoconto di ciò che Carducci aveva detto al brindisi di domenica 11, mettendo in bella evidenza i molti passaggi in cui il “Vate della Terza Italia” lodava Manzoni, come uomo, come patriota, come politico integerrimo.
Era ovvio il senso della mossa: e ora Carducci, che a Lecco si è dichiarato così manzoniano, ci racconti un poco perché ha escluso Manzoni da tutti i libri di testo delle scuole del Regno e come intende reintegrarlo.
Ciò che il Corriere della Sera aveva sottinteso lo aveva invece già espresso in chiaro martedì 13 ottobre il già ricordato “Secolo” (evidenziazioni nostre):
«Pare che a Lecco vi sia qualche strada di Damasco, perchè domenica Carducci si è convertito. Peccato che abbia aspettato sì tardi! E speriamo che la conversione non si fermerà tra i fumi del banchetto, ma i suoi effetti gli faranno rinnegare l’Antologia scolastica nella quale Manzoni non ha il posto che gli è dovuto».
Carducci, leggendo questi commenti e soprattutto il CorSera di mercoledì 14, capì di essersi dato la zappa sui piedi: un conto era stato parlare la domenica sera a quel brindisi rumoroso di Lecco, ascoltato (con difficoltà) da qualche diecina di persone; un conto vedersi scritto su uno dei quotidiani più venduti di Italia.
La cosa non poteva essere lasciata correre dal poeta / professore.
Il quale, presa carta e penna, si mise a scrivere non ciò che aveva detto a Lecco, ma ciò che voleva si pensasse avesse detto — cose ovviamente non necessariamente coincidenti.
Tre giorni dopo il brindisi serale di domenica 11 all’Albergo Croce di Malta di Lecco, subito dopo avere letto il Corriere della Sera di mercoledì 14 e tenendoselo davanti (ne daremo più avanti la prova), Carducci scrisse quindi un testo apparentemente simile ma completamente diverso dalle parole pronunciate la domenica sera, rimangiandosi la rivalutazione positiva su Manzoni politico e sul clero progressista.
A questa sua riscrittura del brindisi, Carducci diede il pomposo titolo di “Discorso di Lecco”.
Il suo sodale Padovani, direttore de “Il Resto del Carlino”, ufficializzò la cosa, pubblicando giovedì 15 la riscrittura di Carducci e dandola come unica veritiera – poco importava che il Vate mentisse sapendo di mentire.
In generale la stampa ignorò la “riscrittura” di Carducci e riprese la versione del “Corriere della Sera”.
Solo “La Perseveranza” — ma polemicamente — riportò il nuovo testo di Carducci pubblicato da “Il Resto del Carlino” evidenziando trattarsi di ben altro rispetto a quanto da Carducci effettivamente detto a Lecco.
Nessuno però si prese la briga di approfondire la cosa e mettere con le spalle a terra Carducci e il suo socio giornalista: allora sarebbe stato facilissimo — tutti avevano ben presenti le cose — e avremmo evitato 130 anni di una antipatica gherminella, maturata col tempo in aperta menzogna.
1.4 / Dopo il “ripensamento”, il falso ideologico.
Dieci anni dopo, non contento di esserne uscito nel 1891 con solo lievi ammaccature, Padovani, in perfetta malafede (e col silenzio/assenso di Carducci? diremmo proprio di sì!) giunse a spacciare questa riscrittura falsante come il “Discorso inaugurale” del Monumento, tenuto invece — lo abbiamo appena scritto sopra — al mattino, per 90 minuti e con grande favore del pubblico, da Gaetano Negri.
Nei decenni successivi, grazie alla forza di comunicazione di Zanichelli, editore storico di Carducci, nonché alla tendenza dei vari intellettuali a non inimicarsi editori e chissà che altro, questo falso ideologico ha assunto il connotato della verità, cancellando ciò che effettivamente Carducci aveva detto l’11 ottobre 1891 e, seguendo Padovani, trasformandolo nel “discorso ufficiale” della manifestazione.
In sintonia con la gherminella messa in piedi da Carducci/Padovani nel 1891 (per la mano di Padovani trasformata in falso ideologico dieci anni dopo), al Museo Manzoniano di Lecco, i pochi riferimenti al Monumento a Manzoni sono presentati in modo indecentemente confuso e mutilo; tale comunque da indurre il visitatore ignaro a ritenere che il Monumento sia stato inaugurato da Carducci.
L’alterazione della verità da parte della Direzione scientifica del Museo Manzoniano di Lecco, con i suoi riflessi inevitabili sulla storia della città, sulla memoria di Manzoni e dell’Abate Stoppani, ci obbliga a una messa a registro dei fatti realmente accaduti.
Ma è soprattutto da considerare come uno dei tanti esempi di come in questo Museo il dato storico venga sistematicamente deformato, con una indecente riscrittura degli avvenimenti che ha insieme del ridicolo e del patologico.
Invitiamo i lettori a non sottovalutare questi fenomeni di scadimento del pensiero e della memoria collettiva; suggeriamo un loro intervento perché questo Museo sia luogo di apprendimento e non magazzino di errori e invenzioni infantili e/o maliziose.
Con la nota che segue intendiamo quindi:
richiamare la realtà di quanto accaduto attorno al Monumento a Manzoni in Lecco l’11 ottobre 1891;
.
collocare nella sua reale dimensione l’irrilevante ruolo che vi ebbe Carducci;
.
chiarire ciò che realmente disse Carducci in quella giornata;
.
illustrare qual fosse stato sempre il pensiero anti-manzoniano di Carducci;
.
dare la dignità che meritano ai veri protagonisti di quella vicenda, ancora oggi parte costituiva della fisionomia della città di Lecco; in particolare all’Abate Stoppani, di cui dobbiamo cominciare a preparare il bicentenario della nascita (15 agosto 2024).
Come nostro metodo, le osservazioni che svilupperemo — certo anche puntuali e a volte puntute — saranno supportate da documenti integrali, comprensibili anche al lettore meno preparato sull’argomento: ognuno avrà così modo di farsi una propria idea su quella vicenda, cronologicamente datata ma con aspetti importanti per la storia e la fisionomia anche attuale di Lecco.
La Nota si compone di 37.360 parole (240.000 battute; circa 15 pagine di un quotidiano; più o meno 90 pagine di un libro di formato medio); è leggibile in poco meno di due ore.
La prima parte di questa Nota è stata pubblicata Giovedì 30 luglio 2020 con il titolo
«Al Museo Manzoniano di Lecco il marchio talebano che cancella la faccia di Manzoni.»
2. Marasma museal / museografico sul Monumento a Manzoni.
Nella Nota del 30 luglio scorso, dedicata agli strafalcioni del Museo Manzoniano su aspetti della vita politica di Manzoni, abbiamo già parlato della sua Sala 9.
È la più angusta del Museo (6 metri quadri) e in essa viene trattato l’argomento “Il letterato e la politica”.
Ma vi è stato infilato anche uno sconclusionato e falsificante riferimento al Monumento a Manzoni, per di più con le solite baggianate culturali e museografiche.
Diremo nel prosieguo di questa Nota degli aspetti culturali e della falsificazione; in via preliminare è però opportuno sgombrare il campo dagli strafalcioni.
2.1 / Etichette pazze per un Museo in pieno marasma culturale e organizzativo.
Perché il lettore abbia una percezione anche fisica della Sala 9 ne mostriamo quella parte (3 metri quadri sui 6 complessivi) in cui sono esposti alcuni documenti relativi al Monumento a Manzoni, mescolati ad altri perfettamente estranei non solo al Monumento e allo stesso Manzoni ma allo stesso buon senso comune:
— il pannello informativo, titolato “Il letterato e la politica”;
— una vetrinetta (cm 135×60), contenente 3 documenti a foglio e 1 volume a stampa, con relative etichette;
— sopra la vetrinetta, a parete, 1 litografia e 2 fotografie, senza alcuna etichetta (è una delle trovate museografiche più grottesche del Museo, ne parleremo in altra sede).
Del pannello informativo riportiamo l’ultima parte — è quella in cui si fa un qualche riferimento al “Monumento dedicato allo scrittore” (evidenziazioni come nell’originale):
«Come Antonio Rosmini (1797-1855) e Antonio Stoppani (1824-1891), quindi, Manzoni fu un cattolico-liberale anticonformista e, proprio per questa sua mancanza di allineamento, fu utilizzato con opposti intendimenti nelle polemiche politiche che si scatenarono nei primi decenni postunitari, caratterizzati dagli scontri virulenti tra la Sinistra anticlericale, scientista e massonica, e i conservatori.
Queste polemiche ebbero riflessi locali il giorno dell’inaugurazione del monumento dedicato allo scrittore, l’11 ottobre 1891, che era stato promosso da un Comitato ispirato da Antonio Stoppani e sostenuto dai progressisti. In quell’occasione, la celebrazione di Manzoni da parte del frammassone Giosuè Carducci nel suo discorso, diede luogo ad un piccolo gossip culturale sui quotidiani nazionali, provocando una smentita del poeta con una lettera sul quotidiano bolognese II Resto del Carlino.
Di questa vicenda si presentano le foto della cerimonia e gli autografi carducciani del Discorso di Lecco.
Tra i molti materiali […] una rara edizione di Ça ira, poema carducciano che celebra gli avvenimenti della rivoluzione francese.»
Il lettore ha letto bene? Sicuramente sì.
Si sarà quindi accorto che in questo pannello informativo, nel guazzabuglio di periodi anche senza senso, si accenna a un monumento dedicato a Manzoni, la cui inaugurazione si tenne l’11 ottobre 1891.
Ma senza un piccolo dettaglio — a quale monumento ci si riferisce? dove si trova questo monumento?
È forse quello di Piazza San Fedele a Milano?
Solo un visitatore molto attento — e alla ricerca specifica di questa informazione, come è stato il nostro caso — solo con difficoltà può scoprire in quale città si trova il Monumento: in tutta la documentazione del Museo questo “dettaglio” è indicato, per inciso e di sfuggita, solo nell’etichetta mal leggibile di una vetrinetta.
Per il momento però ci mettiamo nei panni di un visitatore qualsiasi.
Il quale, per raccapezzarsi in ciò che ha letto — ma certo non compreso — cerca di chiarirsi le idee guardando sia gli oggetti che vede esposti nella vetrinetta posta a un passo dal pannello, sia le illustrazioni, poste a parete proprio sopra di essa.
Nella vetrinetta il visitatore vede 3 fogli manoscritti e il volumetto “Ça ira” di Giosuè Carducci, edito da Sommaruga nel 1883 (tanto per capirci: in francese “ça ira” significa “si farà” e “ça ira / ça ira / ça ira” era il ritornello di una delle canzoni di lotta della prima fase della Rivoluzione Francese del 1789).
Guardiamo insieme i tre manoscritti, cominciando da sinistra.
Etichette pazze — Primo manoscritto.
Ma di che si parla?
Leggiamo l’etichetta (evidenziazioni nostre):
«Giosuè Carducci | Bozza della lettera al Direttore del quotidiano Il resto [sic!] del Carlino, sul significato del discorso tenuto a Lecco | manoscritto autografo [Bologna, 30 maggio 1892]»
E poi leggiamo dal documento (è abbastanza chiaro, per leggere meglio vedi qui):
«Ringrazio dell’onorifico invito la cortesia lombarda, tanto buona e graziosa nel bel paese dei Promessi Sposi. Mi rallegro con l’arte lombarda di questa imagine del poeta della verità, tanto bene effigiata dallo scultore Confalonieri. […]»
Un momento! C’è qualcosa che non va!
Più che di una lettera al Direttore del Carlino bolognese sembrerebbe l’inizio di una qualche esternazione, più o meno letteraria, rivolta a dei lombardi.
E poi che c’entra quel “30 maggio 1892”?
Non si sta parlando della inaugurazione del monumento a Manzoni dell’11 ottobre 1891?
Che significa quella data, di 7 mesi successiva all’inaugurazione?
È chiaro che si tratta di ben due svarioni, regalati al visitatore in sole tre righe: un record anche per la fantasiosa e distratta Direzione scientifica del Museo.
E poi perché si parla di “bozza”?
Ma andiamo avanti.
Etichette pazze — Secondo manoscritto: ma cosa è? anche qui non si capisce nulla!
E poi, dove diavolo parlò Carducci? Non certo alla inaugurazione!
Cominciamo come sempre dall’etichetta (evidenziazioni nostre):
«Bozza del discorso» tenuto a Lecco all’inaugurazione del Monumento ad A. Manzoni | manoscritto autografo, c.1 di 6, [1891] | donazione Fondazione della Provincia di Lecco.»
E quindi leggiamo il documento (anche questo abbastanza chiaro, per leggere meglio vedi qui):
«Signor Direttore del Carlino, | La ringrazio. E in fatti il verbo “ricredere” non venne mai pronunziato. ecc.»
Ma quale “bozza del discorso”?
Ovviamente questa è la lettera al Direttore del quotidiano bolognese “Il Resto del Carlino”.
È chiaro che si tratta di un altro caso di marasma etichettatorio di questa Sala 9: quei buontemponi museal/museografi di Lecco hanno scambiato le etichette.
E dall’espressione “alla inaugurazione del Monumento” cosa ne ricava inevitabilmente il visitatore?
Ne ricava ciò che legge, ossia che il cosiddetto “Discorso di Lecco” di Carducci “si tenne alla inaugurazione del Monumento”.
Siccome le parole non sono farfalle neppure a Lecco, questa non è informazione al visitatore: è una doppia disinformazione in piena regola.
La prima disinformazione è su ciò che realmente disse Carducci l’11 ottobre 1891.
Lo abbiamo già anticipato, il suo testo, steso mercoledì 14 e conosciuto come “Discorso di Lecco”, è una opportunistica e vergognosa riscrittura, lontana mille miglia dalle parole che egli effettivamente pronunciò domenica 11 sera (più avanti il lettore troverà una ampia e circostanziata analisi di questo dato di fatto).
La seconda disinformazione è sul “quando / dove” Carducci parlò in quell’11 ottobre 1891.
Carducci parlò a cerimonie finite da un pezzo e ben lontano dalla ufficialità: non al Teatro Sociale, dove Negri tenne il vero Discorso inaugurale dalle 13 alle 14,30; non in piazza Manzoni, dove Chierici, Ghislanzoni e Cipolla tennero i tre discorsi dello scoprimento del Monumento.
Fu a cerimonie concluse da almeno due ore, all’Albergo Croce di Malta, che Carducci fece uno dei dieci brindisi che chiusero la cena sociale iniziata alle 18,00.
Quindi certamente NON parlò in nessuno dei momenti dell’inaugurazione del Monumento.
Etichette pazza N. 1.
Qui il primo scambio di etichetta: il manoscritto di Carducci la cui prima riga reca
«Signor Direttore del Carlino, ecc.»
è accompagnato da un’etichetta che al visitatore dice invece:
«Bozza del discorso tenuto a Lecco all’inaugurazione del Monumento, ecc.»
Etichetta pazza N. 2.
Questo il secondo scambio di etichetta: il manoscritto di Carducci la cui prima riga reca
«Ringrazio dell’onorifico invito la, ecc.»
è accompagnato da un’etichetta che al visitatore dice invece:
«Bozza della lettera al Direttore del quotidiano Il resto [sic!] del Carlino, ecc.»
Nessuna paura: è solo una simpatica burla di quei buontemponi museal/museografi che già conosciamo.
2.2 / Il brindisi di fine cena di Carducci a cerimonia inaugurale conclusa da ore.
A proposito del “brindisi” riprendiamo la cronaca molto precisa del banchetto, riportata da “La Perseveranza” di lunedì 12 ottobre 1891.
“La Perseveranza” era un molto influente quotidiano milanese, fondato nel 1860 ed espressione della Destra storica al potere fino al 1876.
Come si può notare, la notizia di cronaca sulla giornata manzoniana di Lecco evidenzia il brindisi di Carducci (il secondo dei dieci che vennero pronunciati in quel fine cena di domenica 11 ottobre 1891) ma del suo professarsi manzoniano sottolineando non la sincerità o veridicità ma l’abilità nel parlare.
Detto da quel giornale era una stoccata in piena regola.
Come a tutti allora ben noto, il quotidiano milanese non era tenero con il poeta/professore.
Proprio al contrario, era stata “La Perseveranza” a portare pochi anni prima un forte attacco a Carducci, accusandolo di collusione col Ministro dell’Istruzione perché venisse adottato nei ginnasi di tutta Italia una antologia del Carducci stesso, da cui era completamente escluso Manzoni (un po’ quello che succede al Museo Manzoniano di Lecco).
Bisogna ricordare che a Lecco in quell’11 ottobre 1891 era radunato il fior fiore del manzonismo, con una atmosfera cortesemente ostile a Carducci, come già si era visto nella mattinata.
Gaetano Negri, infatti, proprio all’inizio del suo lungo e vero “Discorso inaugurale” tenuto al Teatro Sociale, ne aveva fatto pubblicamente il nome, lodandone il talento artistico.
Ma poi per 90 minuti aveva demolito punto per punto i motivi antimanzoniani che Carducci aveva elaborato in quarant’anni di insegnamento e di critica letteraria e politica all’autore de “I Promessi Sposi”.
Allo scoprimento della statua, Carducci contava certo di dire qualche cosa ma era stato bloccato dal deputato Merzario (per trent’anni intimo amico dell’Abate Stoppani e manzoniano di ferro), per l’occasione nominato Coordinatore dei parlamentari presenti e quindi formalmente autorizzato a deciderne gli interventi (su questi aspetti, altro più avanti nella cronaca della giornata).
2.3 / Dalla narrazione del Museo ignorata anche la pur ambigua targa dell’Albergo Croce di Malta.
Si vuole occultare il “dove” parlò realmente Carducci?
Qui sotto riportiamo il testo della targa, tuttora ben visibile sulla fronte dell’ex Albergo Croce di Malta nel cuore di Lecco, dal 1908 posta a memoria di quell’11 ottobre 1891 e dell’intervento di Carducci.
«Il giorno 11 ottobre 1891 / inaugurandosi il monumento / all’autore dei “Promessi Sposi” / Giosuè Carducci / apportato con la sua presenza / tributo di onore e di plauso / pronunciava in questo albergo / il “Discorso di Lecco” / testimonianza della sua ammirazione / verso Alessandro Manzoni / e del suo disdegno / contro chi non ne intese o ne falsò / l’arte gloriosa / X Ottobre MXMVIII».
La targa, decisamente fuorviante, fa acriticamente propri tutti elementi della “rivoltatura di gilet” operata da Carducci e si chiude con una frase di pura fantasia (a queste nostre osservazioni — forse mai avanzate prima da altri — il lettore troverà più avanti il nostro sostegno documentale).
Ha però un elemento di verità: Carducci parlò all’Albergo Croce di Malta, NON alla “inaugurazione del monumento” (forse per ciò è ignorata dal Museo Manzoniano).
2.4 / Quale bozza? la prima, la seconda? la “ennesima”?
Bozza! Bozza! Bozza!
Ma perché la Direzione del Museo Manzoniano si è incantata su questa parola? per incantare il visitatore?
Nelle etichette della vetrinetta che ben già conosciamo, viene definita “bozza” la lettera di Carducci al Direttore del Carlino e “bozza” il testo di quanto egli falsamente sostenne di avere pronunciato a Lecco.
Ma “bozza” è un termine che non si presta a equivoci: è quanto precede un qualche cosa di definitivo — documento, contratto, articolo, libro, composizione artistica, programma, ecc. ecc.
Naturalmente, mentre c’è un solo “definitivo”, lungo il percorso possono esservi una o più “bozze”.
Bene!
Chiediamo alla Direzione del Museo: se quei pezzi di carta messi nella vetrinetta della Sala 9 sono “bozze” di un qualche cosa:
1. cosa e dove è il “definitivo”?
2. in cosa differisce dalle “bozze”?
Per quale ragione queste “bozze” vengono presentate al Museo? Hanno in sé un qualche significato nascosto? Sono così lontane dal definitivo da meritare una collocazione privilegiata nel museo manzoniano?
Perché nel 2014 la Fondazione Provincia di Lecco ha speso 3 o 4.000 Euro per acquistare delle “bozze”, dandole poi in comodato al Comune di Lecco che vi ha acceso sopra una assicurazione?
Il lettore ha già compreso che sono domande retoriche.
Ciò che il Museo presenta al visitatore non sono “bozze” di alcunché: sono gli autografi “definitivi”, con cui mercoledì 14 ottobre la mano di Carducci censurava ciò che la bocca di Carducci aveva detto domenica 11 al brindisi serale in Lecco e il cui testo venne fedelmente ripreso dal quotidiano bolognese, che lo mise in stampa giovedì 15 ottobre con il titolo “Discorso di Lecco”.
Questi autografi di Carducci vennero il 30 ottobre 2014 presentati in una pubblica conferenza in Lecco da Mauro Rossetto (oggi, il più volte qui ricordato Direttore scientifico del Museo Manzoniano) assieme a Gianmarco Gaspari, allora Direttore del “Centro Nazionale Studi Manzoniani”.
In quella occasione nessuno si sognò di chiamare i manoscritti “bozze”; purtroppo però non ne venne messo in luce il carattere volutamente mendace e ci si perse in accenni del tutto fuori luogo a presunti “gossip” giornalistici.
Per ragioni insondabili il termine “gossip” piace alla Direzione scientifica del Museo Manzoniano che a distanza di anni continua a usarlo del tutto a sproposito, come nel già riportato testo del pannello della Sala 9 (puoi rivederlo qui).
Non ci fu proprio nessun “gossip” giornalistico.
Ci fu un’azione intellettualmente disonesta di Carducci che mercoledì 14 ottobre si rimangiò quanto aveva detto al brindisi serale di domenica 11.
Comunque sia, il lettore ha già compreso che la definizione “bozza” è una invenzione della Direzione scientifica del Museo Manzoniano di Lecco.
Resta da vedere il perché di questa invenzione: è una goliardata? è un problema postprandiale?
Ci auguriamo che sia solo così.
Perché altrimenti bisognerebbe pensare a un retro-pensiero poco simpatico da parte della Direzione scientifica: far credere al visitatore che quei testi siano delle vere “bozze”, ossia che siano stati stesi da Carducci “prima” e in preparazione del “coso” pronunciato a Lecco l’11 ottobre 1891 durante i brindisi serali all’Albergo Croce di Malta.
È questo che si vuole far credere al visitatore? Sembrerebbe proprio di sì, anche considerando un recente scritto di Mauro Rossetto, Direttore scientifico del Museo Manzoniano, nel quale si sostiene esattamente questa tesi.
Nel Catalogo della mostra “Manzoni nel cuore” (inauguratasi il 9 febbraio 2020 a Lecco e conclusasi il successivo 30 agosto), nell’articolo a firma Rossetto “La costruzione di un Museo attraverso le sue collezioni”, a p. 55 si legge (evidenziazione nostra):
«[…] con il deposito fatto dalla Fondazione della Provincia di Lecco di un corpus di manoscritti autografi di Giosuè Carducci: sono gli appunti per il “Discorso di Lecco” pronunciato dal “vate” in occasione dell’inaugurazione del Monumento ad Alessandro Manzoni, nel 1891.»
Il Direttore scientifico del Museo definisce quindi i manoscritti di Carducci come degli “appunti”, termine che ha una evidente vicinanza concettuale con il termine “bozza” e che starebbe a indicare un qualche cosa che Carducci scrisse PRIMA di avere parlato a Lecco.
Ma caro Mauro Rossetto, Direttore scientifico del Museo, quei manoscritti è proprio Carducci a scrivere al direttore del Carlino di averli stesi DOPO avere letto come le sue parole erano state riportate dai giornali, quindi DOPO avere parlato a Lecco:
«E giacché parecchi giornali, all’asciutto di notizie, han dato importanza alle parole ch’io dissi in Lecco, mi faccia Ella il piacere di pubblicarle nel giornale suo quali proprio le dissi. Quand’io parlo all’improvviso, come pongo tutta l’intenzione a dire delle frasi, così quello sforzo mi lascia non solo nella memoria il discorso per più giorni. Eccoglielo dunque fresco fresco.»
“Bozza” e “appunti” sono quindi invenzione esclusiva della Direzione scientifica del Museo.
I casi quindi sono due: o la Direzione scientifica del Museo non sa leggere oppure vuole prendere in giro il visitatore: ci faccia sapere cosa preferisce.
Nel frattempo, suggeriremmo agli amici della Associazione Bovara di Lecco (editrice del citato Catalogo “Manzoni nel cuore”) di vagliare con maggiore attenzione ciò che ospitano sulle loro pagine: è facilissimo che la loro disattenzione (o accondiscendenza mal riposta) venga presa o per incapacità o per consenso verso le sciocchezze ospitate.
E questo vale anche per quel panegirico a firma di Fernando Mazzocca sul “nuovo” ritratto di Manzoni (proprietario Gritti) attribuito in modo risibile da Sergio Rebora a Giuseppe Molteni, della serie “dacci oggi il nostro Molteni quotidiano” (ma su questo in una successiva, corposa nostra Nota).
Il lettore scuserà questa digressione ma nel citato Catalogo “Manzoni nel cuore” a p. 5, nella colonnina “Ringraziamenti”, si fa anche il nostro nome: ringraziamo del gentile pensiero (dettato certo dalle migliori e più benevoli intenzioni) ma — non solo per i rilievi appena indicati — non vorremmo essere considerati come parte attiva e consenziente della loro pur interessante e meritoria iniziativa nella quale non siamo assolutamente mai stati coinvolti, neppure di striscio.
Ma torniamo a noi.
In realtà Carducci mentiva per la gola: mercoledì 14 ottobre scrisse un testo molto molto diverso da ciò che domenica 11 aveva effettivamente detto al brindisi all’Albergo Croce di Malta e che era stato fedelmente riportato dal CorSera il 14 ottobre — un testo molto diverso non solo per l’uso di questa o quella parola ma in molti punti del tutto opposto, come più sotto mostreremo.
Quindi nessuna “bozza”, nessun “appunto” ma solo manoscritti definitivi di Carducci, con un bel po’ di balle di contorno.
Prima o poi salterà fuori perché la Direzione scientifica del Museo Manzoniano di Lecco sente il bisogno di travisare la storia e le vicende manzoniane: per il momento ne prendiamo atto e lo segnaliamo alla cittadinanza e agli studiosi.
Ma fin qui siamo ancora nel campo del parlare a vanvera e della confusione cui ormai siamo assuefatti in questo Museo dove non si può fare un passo senza incappare in castronate, travisamenti, balle!
Con il terzo e quarto documento della nostra ormai familiare vetrinetta alla Sala 9 abbiamo invece un salto di qualità.
«Queste polemiche ebbero riflessi locali il giorno dell’inaugurazione del monumento dedicato allo scrittore, l’11 ottobre 1891, che era stato promosso da un Comitato ispirato da Antonio Stoppani e sostenuto dai progressisti. In quell’occasione, la celebrazione di Manzoni da parte del frammassone Giosuè Carducci nel suo discorso, diede luogo ad un piccolo gossip culturale sui quotidiani nazionali, provocando una smentita del poeta con una lettera sul quotidiano bolognese Il Resto del Carlino.»
2.5 / Il documento fantasma intestato a un fantasma per una occasione fantasma.
In questo caso la Direzione scientifica del Museo Manzoniano di Lecco ha deciso di stupire e di presentare al visitatore un documento che nulla ha a che fare né con Manzoni né tantomeno con il suo Monumento di Lecco — e neppure con Carducci.
Il lettore ci chiederà: ma ne siete sicuri? se così fosse dovremmo pensare a un atteggiamento di consapevole raggiro ai danni del visitatore da parte della Direzione scientifica del Museo.
Sì, ne siamo sicuri!
Al Museo Manzoniano vengono presentati documenti che nulla hanno a che fare né con Manzoni né col suo monumento.
Il lettore ci segua e comprenderà il perché e il percome.
Al solito, cominciamo col leggere la etichetta (evidenziazioni nostre):
«Convocazione del nuovo Consiglio comunale di Bologna inviata a Giosuè Carducci (Bologna, 30 maggio 1890).»
Inviata a Giosuè Carducci? E chi lo dice?
Nel foglio manca il nome del destinatario! Per prima cosa quindi: fuori la documentazione da cui si evince che quella sia la comunicazione inviata a Carducci!
E poi, nel documento cosa è scritto?
Si legge bene: è un prestampato, con marchio del Municipio di Bologna / Segreteria Generale, con le specifiche inserite a mano:
«Illustrissimo Signore,
.
La S. V. Illustrissima è pregata di volere intervenire all’Adunanza del Consiglio Comunale fissata pel giorno di Sabato 31 del mese corrente alle ore 4 pom. per esaurire d’urgenza i seguenti oggetti:
1º. Dimissioni del Sindaco e della Giunta.
2º. Nomina del Sindaco.
3º. Nomina della Giunta.
.
d’ordine
il Segretario di Giunta
M. Burzi
Avete letto bene? Sicuramente sì.
E allora chiedetevi con noi: che c’entra quella frase “Convocazione nuovo Consiglio comunale”.
La convocazione è al “vecchio” Consiglio comunale: il Sindaco non ha ancora dato le dimissioni, come indicato chiaramente ai punti all’ordine del giorno.
Ripetiamo la domanda: sanno almeno leggere alla Direzione scientifica del Museo Manzoniano?
Il lettore comunque si chiede: ma nuovo o non nuovo Consiglio comunale, che c’entra tutto questo col monumento a Manzoni o con Manzoni?
È proprio la domanda che ci siamo posta noi quando abbiamo visionato il foglio al Museo.
Prima di stendere queste nostre osservazioni abbiamo quindi fatte le opportune verifiche consultando i verbali delle sedute del Consiglio comunale di Bologna, dal 27 al 31 maggio 1890 (grazie per la cortese ed efficiente collaborazione dell’Archivio Storico del Comune di Bologna).
Quei giorni furono caratterizzati da una crisi-lampo della Giunta bolognese, determinata da una vicenda del tutto marginale e in nessun modo connessa a Manzoni, al suo monumento, allo stesso Carducci: il Sindaco Carlo Carli era stato messo in minoranza a proposito della nomina a un ruolo di responsabilità amministrativa di un tal Landini, ritenuto inaffidabile.
Alla seduta del 27 maggio, nel corso della quale la Giunta venne messa in minoranza sulla vicenda accennata, Carducci partecipò con voto contrario alla Giunta; egli tenne però a dichiarare non essere il suo un voto di sfiducia alla politica generale della stessa.
Alla seduta successiva del 30 maggio, nel corso della quale il Sindaco Carli manifestò l’intenzione di rassegnare le dimissioni (e a conclusione della quale venne diramata la convocazione per il 31 maggio, riportata nella vetrinetta del Museo Manzoniano di Lecco), Carducci non partecipò, essendo assente giustificato.
Alla seduta del 31 maggio, Carducci invece partecipò.
La Giunta rassegnò le dimissioni; si procedette alla elezione del nuovo Sindaco; fu riconfermato il Sindaco dimissionario Carlo Carli; la Giunta che ne uscì ricalcava la struttura della precedente.
Né il 27, né il 30, né il 31 maggio 1890 al Consiglio comunale di Bologna, in nessun modo si parlò neppure di sfuggita di Manzoni o del suo monumento a Lecco.
Quindi: che CAVOLO c’entra questo documento qui al Museo Manzoniano, nella vetrinetta contenente documenti connessi (seppur alla lontana) con l’inaugurazione del monumento a Manzoni in Lecco dell’11 ottobre 1891?
Non ci sono dubbi sulla risposta: assolutamente NULLA! NULLA! NULLA!
Le cose stanno diversamente?
La Direzione scientifica del Museo Manzoniano è invece in grado di spiegare perché ha posto nella bacheca della Sala 9 quella convocazione del Consiglio Comunale di Bologna del 30 maggio 1890?
Bene, lo faccia! Ma lo faccia subito!
In mancanza di una risposta coerente, sarà chiaro che l’inserimento di quel documento è una consapevole presa in giro del visitatore del Museo.
Infatti quella convocazione del Consiglio comunale di Bologna non è frutto di una svista dell’allestitore della vetrinetta, poi non controllata dalla Direzione del Museo (cosa ovviamente comunque grave).
È invece un documento su cui il Direttore scientifico del Museo, Mauro Rossetto; la responsabile della parte iconografica, direttore Barbara Cattaneo; il consulente museografico, architetto Negri, avevano pensato da tempo nella fase progettuale, come risulta da documenti da loro stessi redatti.
Nel “Progetto museografico” dell’architetto Negri, datato aprile 2019 (quindi qualche mese prima della inaugurazione del Museo) quella convocazione fantasma a un fantasma per una ragione fantasma, al punto 9.3 è previsto sia posta proprio nella posizione in cui la vede oggi il visitatore (vedi qui sotto gli elementi del “Progetto Negri” riferiti a questo particolare, freccetta nostra).
Breve parentesi.
Saremmo veramente curiosi di conoscere come, nel loro intimo, il Museo Manzoniano sia vissuto dai museografi dello Studio diennepierre (e dal loro principale referente, l’ex Assessore alla Cultura Simona Piazza, oggi “Assessora alla Cultura e alla Polizia locale”) oltre che come una location di tendenza! (le due fotografie sono tratte dalle pagine Facebook degli interessati).
Non hanno mai sentito anche la semplice curiosità di verificare che non ci fossero castronate nelle vetrinette di quel Museo in cui tanto amano mostrarsi agli oltre due miliardi di loro co-utenti Facebook in adolescenziali ricreazioni o in lieti eventi personali? A proposito, auguri di cuore agli sposi dal nostro Centro Studi.
2.6 / Anche “Ça ira” utilizzato come fumo negli occhi per il visitatore — povero Manzoni (ma anche povero Carducci!).
Tra l’altro la “Legenda opere” redatta dall’architetto Negri, è utile anche per comprendere come fosse da sempre nella testa della Direzione scientifica del Museo Manzoniano la messa in luce dell’anti-manzoniano Carducci a detrimento dei manzoniani che per quel Monumento si erano fatti il mazzo (scusate il prestito dialettale).
Se notate, al punto 9.4, l’architetto Negri scrive «Volume in stampa originale di G. Carducci, da reperire».
Da “reperire”, appunto. Il che significa che la “rara edizione” di “Ça ira” non faceva parte della dotazione del Museo ma è stata cercata appositamente.
Abbiamo così l’opportunità di chiudere con la composizione a sonetti “Ça ira” di Carducci questa rassegna di oggetti affastellati per occupare indebitamente spazi museali più coerentemente e opportunamente dedicabili a ben altra documentazione, perfettamente nota alla Direzione scientifica, immediatamente accessibile e coerente con la vicenda del monumento a Manzoni (ne parleremo più avanti nella esposizione).
Già che ci siamo (e pensando alle scolaresche in visita al Museo) riprendiamo le parole con cui la Direzione scientifica presenta il ”Ça ira” nel pannello informativo — in 15 parole 3 informazioni diseducative (evidenziazioni nostre):
«una rara edizione di Ça ira, poema carducciano che celebra gli avvenimenti della rivoluzione francese.»Prima informazione diseducativa — La raccolta di sonetti ”’Ça ira” NON è un “poema”. Sia perché “poema” indica nella usuale esperienza collettiva (ma anche a livello accademico) una composizione di vasto respiro, con la concatenazione di diversi temi, trattati in modo ampio e sistematico, cosa che il “Ça ira” non è affatto. Sia perché Carducci — esplicitamente — NON volle farne un poema. Carducci, pochi mesi dopo l’uscita del libretto, nel rispondere alle molte critiche, dedicò parecchie pagine a spiegare perché aveva scelto il sonetto per la sua composizione. A chiarire che NON aveva voluto compiere una analisi, seppure in versi, della Rivoluzione Francese, e neppure farne la storia. Ma la Direzione scientifica del Museo non si fa distrarre né da Manzoni né da Carducci, e va per una strada tutta sua fatta di invenzioni e fantasie in libertà.
“Seconda informazione diseducativa — Nel “Ça ira” Carducci non “celebra” un bel niente e se — dovunque sia — potesse leggere il pannello del Museo si incazzerebbe satanicamente con il suo estensore tirando fuori professoralmente il dizionario:
«celebrare v. tr. [dal lat. celebrare] – 1. Lodare, esaltare, glorificare, a voce o in iscritto, persona o cosa: c. un eroe, un martire; c. le imprese, le gesta di qualcuno.»
Sempre nella già citata risposta alle critiche, Carducci si difende proprio dall’accusa di avere espresso consenso a un ignobile massacro.
Sostiene (e per la verità non possiamo che esprimergli solidarietà) di avere rappresentato un dato storico con gli strumenti propri dell’arte.
Ma la Direzione scientifica del Museo se ne frega, non solo di Manzoni e di Carducci, ma anche del buon senso e va avanti, va avanti, va avanti.
Terza informazione diseducativa — Carducci né celebra né tratta delle “vicende della rivoluzione francese”; la quale, per convenzione storiografica, è fissata dal 1789 al 1799.
Il “Ça ira” (lo dice anche il sottotitolo “Settembre 1792”) di quel decennio ricorda gli avvenimenti occorsi a Parigi tra la fine di agosto e i primi di settembre del 1792, che ricostruiamo molto alla breve, tanto per intenderci e per fare intendere al lettore perché Carducci compose quella raccolta di sonetti e perché nulla hanno a che vedere con il Museo Manzoniano e tanto meno con il Monumento a Manzoni in Lecco.
Nell’aprile 1792 Luigi XVI, ancora Re a tutti gli effetti, profitta delle scelte belliciste di Lafayette e girondini e si allinea alla decisione dell’Assemblea nazionale di fare guerra all’Austria e alla Prussia; contemporaneamente sabota in tutti i modi la struttura militare che egli stesso ha messo in movimento e lavora alla sconfitta del proprio regno con l’idea di tornarvi in sella come prima dell’89, liquidando la Rivoluzione.
Avanzando vittoriosamente in territorio francese gli eserciti austro-prussiani, la direzione rivoluzionaria borghese di Parigi, preoccupata per il possibile appoggio che dall’interno poteva venire ai nemici invasori, decide di eliminare senza processo i prigionieri di un certo peso sociale e politico rinchiusi nelle diverse prigioni della capitale e anche qualche altro, tanto per non sbagliare.
Tra il 2 e il 7 settembre, vengono assassinati da squadre “rivoluzionarie” 1.200 tra prigionieri, preti refrattari e nobili sospetti: una manifestazione di terrorismo di Stato che fece scuola in campo politico per i due secoli successivi.
Con il massacro di settembre si chiude il dodicesimo sonetto di “Ça ira”.
L’opera quindi non tratta delle “vicende della Rivoluzione francese”.
Tratta del tradimento del Re di Francia nel 1792 e della sua intesa con l’Austria e la Prussia contro gli interessi nazionali francesi.
Se non si evidenzia questo dato, non si capisce nulla del “Ça ira” e del perché Carducci lo abbia composto.
2.7 / Perché Carducci scrisse “Ça ira”? Per molte ragioni, anche condivisibili.
Ma che c’entra questo con il Monumento a Manzoni in Lecco?
Carducci scrisse il “Ça ira” per denunciare la “Triplice Alleanza’, l’accordo difensivo firmato nel giugno 1882 in funzione anti-francese dal Regno d’Italia con gli imperi d’Austria-Ungheria e di Germania.
L’accordo aveva come ovvia conseguenza il “tradimento” di fatto da parte del Re Umberto I delle aspirazioni del movimento irredentista per “Trieste italiana”, libera dal dominio austro-ungarico.
Contro l’accordo diplomatico tra Italia e Austria, nell’autunno 1882, l’irredentista triestino Guglielmo Oberdan aveva messo in piedi un attentato ai danni dell’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Scoperto e arrestato, auto-accusatosi, era stato condannato a morte e impiccato nel dicembre 1882.
Carducci, spesosi pubblicamente con articoli e petizioni a favore di Oberdan, era stato messo sotto processo.
Da questa situazione, la sua decisione di scrivere il “Ça ira”: il ricordo del “tradimento” del Re di Francia nel 1792 era un trasparente attacco al Re d’Italia del 1882, accusato da Carducci di un analogo “tradimento” della patria.
Per questa composizione, uscita nel maggio 1883, Carducci venne ovviamente messo sotto tiro dai monarchici che lo accusarono di invocare il terrore repubblicano.
Pressato dalle critiche, nell’autunno del 1883 Carducci scrisse una risposta collettiva che venne stampata all’interno della raccolta di suoi scritti “Confessioni e Battaglie”, Sommaruga 1884.
Suggeriamo di leggerla. Oltre che del “Ça ira” parla delle terre di Toscana, con toccanti descrizioni di paesaggi.
In risposta alla domanda: perché lo hai scritto? Carducci rispose solo che i poeti sono tali in quanto scrivono anche senza un preciso perché; senza quindi dire una parola sulla Triplice Alleanza, Trieste italiana e Oberdan.
Per tornare a noi, in 80 pagine citò solo una volta il nome di “Manzoni“; una volta l’avverbio “manzonianamente”; una volta l’aggettivo “manzoniani”; ma nelle tre occasioni senza alcuna attinenza né con Manzoni propriamente detto né con ciò che Manzoni pensava della Rivoluzione francese; tanto meno con il suo monumento in Lecco, nel 1883 ancora tutto da fare.
Dal momento che accusare un re di tradimento non significa di per sé essere contro la monarchia, a scanso di equivoci, Carducci tenne a scrivere in modo molto chiaro di ritenere la repubblica una iattura per la situazione italiana e che lui si sarebbe sempre schierato per la monarchia.
Questa parte della risposta piacque molto a tanti: il CorSera la pubblicò in prima pagina il 27 dicembre 1883. La questione finì lì e Carducci poté continuare a fare il suo filo letterario alla Regina Margherita, iniziato nel 1878 e che lo condusse negli anni successivi a legarsi mani e piedi al “traditore” monarca italiano.
Certo! tutto questo può essere molto interessante — come altri 1.000 aspetti della nostra storia nazionale.
Ma ripetiamo: che c’entra tutto ciò con Manzoni e con il Monumento a Manzoni?
NULLA! NULLA! NULLA!
E allora che ci sta a fare quel libretto, acquistato appositamente dal Museo per occupare quel posto nella vetrinetta della Sala 9?
Lo abbiamo già anticipato:
FUMO! FUMO! FUMO!
naturalmente occupando indebitamente spazio prezioso.
Sapete perché parliamo a questo modo dello “spazio” del Museo?
Il 27 dicembre 2019, recartici a Lecco per ritirare i “Progetti Museal/Museografici” (ottenuti solo con il ricorso a un Accesso Civico Generalizzato) Mauro Rossetto, Direttore scientifico del Museo Manzoniano, a una nostra osservazione circa la mancanza nel museo di ogni riferimento con un minimo di struttura al rapporto tra Manzoni e l’Abate Stoppani, ci disse con aria contrita: “Sì lo so, ma vedi, non c’era spazio”.
Caro Direttore, per il fasullo “Discorso di Lecco” (che Carducci mai pronunciò) e per la convocazione fantasma del Consiglio Comunale di Bologna, lo spazio però lo hai trovato; e lo hai trovato anche per il “Ça ira”, vero cavolo a merenda in questo sgangherato museo.
Tra l’altro, nel 1889 Ruggero Bonghi fece stampare l’incompiuto studio «La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Italiana del 1859» a cui Manzoni aveva lavorato negli ultimi anni di vita.
Perché il Direttore Scientifico non ha pensato di mostrare quell’opera di Manzoni al posto del “Ça ira” di Carducci?
Non avrebbe avuto comunque alcun rapporto con il Monumento a Lecco ma almeno lo avrebbe avuto con Manzoni — o no?!
Morale: nelle 15 parole del pannello dedicate a Carducci, tre baggianate quindi, propinate al visitatore, spesso ignaro e indifeso o perché giovanissimo studente o perché non informato su queste vicende del nostro passato.
Altrettante polpette avvelenate per la mente di chi va al Museo per apprendere, pensando che almeno lì sarà libero dalle false notizie.
2.8 / Costretti a considerare il povero Carducci come un cavolo a merenda, passiamo ora alle immagini a parete.
Le tre immagini poste a parete sopra la vetrinetta non sono corredate da etichette (come in tutto il percorso espositivo, si intende — è questo un colpo di genio solo del museografico architetto Negri, o dobbiamo ringraziare altre personalità?).
Nel cercare di riprendersi dal caos primordiale del testo del pannello e cercare di capire qualche cosa dalle immagini, il visitatore cerca quindi di leggere le scritte che vi intravede.
Nelle due fotografie raffiguranti folti gruppi di persone attorno a un monumento si legge abbastanza bene: «Giulio Rossi / Premiato con Diploma d’Onore / Milano-Genova».
Bello! Ma questa è la pubblicità del fotografo: a cosa si riferiscono quelle foto?
Nel pannello è scritto “le foto della cerimonia”: ma di quale cerimonia si parla? dove si è svolta questa “cerimonia”?
E sì! Perché da nessuna parte del pannello dedicato anche al Monumento a Manzoni, si dice che quel Monumento è a Lecco!
È una cosa incredibile!
Dalla narrazione sul Monumento a Manzoni che la città di Lecco gli dedicò nel 1891, è stato cancellato il nome stesso della città.
Ma dove vive il Direttore scientifico del Museo, il simpatico dott. Mauro Rossetto? e il suo consulente museografico, l’ottimo Massimo Negri dello Studio diennepierre?
Pare di vedere le faccine: ma suvvia Stoppani, stiamo parlando di Lecco! è ovvio!
No signori, non è ovvio per niente!
È ovvio per voi che siete di Lecco; è ovvio per il Direttore scientifico che lavora nel Sistema museale della città da più di vent’anni; è ovvio per l’architetto Negri che è di Lecco, ha lo Studio a Lecco, si è occupato per mesi della iconografia di questo Museo.
Ma per il visitatore, non diciamo giapponese o russo o tedesco ma di qualsiasi altra città italiana che non sia Lecco, tutto ciò non è per nulla ovvio.
Quelle fotografie senza una adeguata presentazione non significano NULLA, NULLA, NULLA.
Così come sono, perché acquistino un qualche senso, per esempio per i ragazzi delle scuole, debbono essere illustrate dai professori che accompagnano i ragazzini e che — si presume, si spera — siano in grado di colmare i vuoti abissali di questo Museo che da solo non trasmette nulla se non castronerie proprie, in sinergia perfetta con le castronerie altrui.
Non parliamo tanto per parlare!
2.9 / Sorridi viola anche tu: vedrai che ti passa!
Per chiudere questa prima parte dedicata alle castronerie con il solito sorriso amaro suscitato da questo Museo delle burle manzoniane, basta dare un occhio a quanto proposto da un paio di redazioni lecchesi sulla vicenda “Discorso di Lecco” del Carducci.
Primo contributo. Qui abbiamo l’Abate, miracolosamente redivivo, che va satanicamente a braccetto con il buon Giosuè Carducci:
«Giosuè Carducci presente all’inaugurazione del monumento a Manzoni insieme ad Antonio Stoppani.»
Secondo contributo.
Dopo la resurrezione dei morti — anche a evitare di esserne ritenuti complici, dal momento che ci ringraziano per non meglio definite “informazioni” che avremmo dato loro — riportiamo anche il modo con cui una redazione lecchese, mostratasi sempre vicina al Museo Manzoniano e al suo Direttore scientifico nonché all’ex Assessore alla Cultura, oggi “Assessora Cultura e Polizia locale”, ha presentato molto recentemente ai suoi lettori il famoso quanto mai pronunciato “Discorso di Lecco” del Carducci, tanto valorizzato nel Museo Manzoniano.
Così EccoLecco:
«Il monumento a Alessandro Manzoni a Lecco fu inaugurato l’11 ottobre 1891 e Giosuè Carducci lesse un testo di Antonio Stoppani, promotore del monumento.»
Qui siamo nella più sgangherata commedia alla Ciccio & Franco ma è un segnale di quanto sia importante che una Istituzione come il Museo Manzoniano veicoli contenuti veritieri, affidabili e seri, cui i cittadini — e anche le redazioni un po’ improvvisate, poverine — possono fare riferimento (le freccette rosse sono nostre).
Un inciso di cronaca: una delle due proprietarie e redattrici di EccoLecco è Maria Sacchi, l’appena nominata “Assessora alla Cura delle città e Lavori pubblici”.
Tanti auguri a tutti!
La cosa tragica è che questo modo sgangherato di fare disinformazione può fare ridere le persone con un minimo di cervello ma può produrre effetti devastanti.
Terzo contributo.
Qualche settimana fa, il giovane S.B. di Lecco, come partecipante alle allora imminenti elezioni comunali della città (per delicatezza ne tacciamo l’appartenenza partitica) travolto dalla passione politica, nella sua pagina Facebook è andato ancora oltre (freccetta rossa nostra):
«[…] all’inaugurazione [del Monumento a Manzoni] partecipò Giosuè Carducci, il quale lesse il celebre Discorso di Lecco, scritto da Antonio Stoppani.»
Dicono che il giovane, prima di donarci questo straordinario scampolo storico-letterario, avesse passato alcune ore nella Sala 9 del Museo Manzoniano, fissando intensamente la convocazione del Consiglio comunale di Bologna del 30 maggio 1890.
________
Sgombrato il terreno dalle castronate, possiamo passare alle cose serie.
3. Lecco, 11 ottobre 1891: dopo le favole del Museo Manzoniano, la storia vera.
Per l’intelligenza della cronaca della inaugurazione del monumento a Manzoni in Lecco l’11 ottobre 1891 e della sua coda festaiola all’Albergo Croce di Malta (dove si tennero i brindisi cui partecipò anche Carducci) è opportuno ricostruire, seppure sinteticamente, la vicenda del monumento e il ruolo in essa dell’Abate Stoppani.
Ne abbiamo già parlato in altra sede (vedi il nostro approfondimento Per il 125 anniversario del Monumento a Manzoni in Lecco) ma è forse opportuno riprendere alcuni aspetti della vicenda, cancellati dalla narrazione del Museo Manzoniano di Lecco.
Abbiamo già visto che nel pannello della Sala 9 il contributo dell’Abate Stoppani alla realizzazione del Monumento è così liquidato (evidenziazioni nostre):
« […] il monumento dedicato allo scrittore, […] che era stato promosso da un Comitato ispirato da Antonio Stoppani e sostenuto dai progressisti.»
Già da quel poco che ha letto fin qui, il lettore ha compreso che quelle poche parole sono una voluta censura dell’Abate Stoppani e del suo ruolo — sotto tutti gli aspetti decisivo — per la realizzazione del Monumento.
Da quanto presenteremo di seguito il lettore comprenderà che non si tratta solo di censura allo Stoppani ma di un vero e proprio insulto all’esperienza collettiva della maggior parte dei cittadini di Lecco (tra questi 300 bambini delle elementari che, poveri o non poveri, vollero dare il loro obolo) e dei loro connazionali di fine ’800 (da ogni regione giunsero contributi e sostegni) nonché all’intelligenza dei visitatori del Museo.
3.1 / Una brevissima sintesi degli antefatti: la mobilitazione del Comune di Lecco in omaggio a Manzoni.
A comprendere meglio il ruolo dei diversi protagonisti è opportuno tenere conto anche di alcuni elementi attinenti alla sfera privata:
— nel 1873 Sindaco di Lecco era Giuseppe Resinelli, consuocero dell’Abate (Giovanni Maria, fratello minore di Antonio — era nato nel 1831 — e per anni suo compagno nelle spedizioni naturalistiche, aveva sposato nel 1859 Barbara Resinelli, figlia di Giuseppe);
— Luigi, uno dei fratelli maggiori dell’Abate, commerciante, nel 1873 era Consigliere comunale.
A parte la sua già affermata notorietà come geologo, l’Abate aveva quindi anche la possibilità di una interlocuzione rapida e, se il caso, anche informale con la struttura pubblica.
All’indomani della morte di Manzoni (22 maggio 1873), Stoppani si mobilitò immediatamente perché anche a Lecco si prendessero iniziative in ricordo dello scrittore.
Il 24 maggio il Consiglio Comunale della città, riunitosi alle 8 pomeridiane, deliberava una serie di iniziative, come riportiamo più sotto.
Delibera del Consiglio comunale di Lecco, riunito il 24 maggio 1873 alle ore 8 pomeridiane:
_______
OMAGGIO ALLA MEMORIA DELL’ILLUSTRE ALESSANDRO MANZONI MORTO IL GIORNO 22 CORRENTE MAGGIO 1873.
II Presidente ricorda al Consiglio comunale l’irreparabile perdita fatta dall’Italia per la morte dell’lllustre ALESSANDRO MANZONI;
Ricorda che il Grand’Uomo passò parte della sua gioventù nei nostri paesi, che un tempo ebbe anche a presiedere questa amministrazione comunale come risulta dagli atti d’ufficio di cui porge comunicazione, che coll’impareggiabile suo romanzo I Promessi Sposi illustrò specialmente il nostro territorio;
E propone alle votazioni del Consiglio il seguente ordine del giorno:
Il Consiglio comunale di Lecco interprete dei voti dell’intera cittadinanza commossa vivamente all’annuncio della morte dell’illustre ALESSANDRO MANZONI — omaggio di ammirazione e di riconoscenza, onde perpetua ne resti la memoria ad illustrazione imperitura del paese, ad edificazione ed esempio della presente e delle future generazioni
Delibera:
1. Di aprire una sottoscrizione per l’erezione di un monumento nel Comune di Lecco alla memoria dell’Illustre Poeta autorizzando la Giunta ad iniziarla con Lire 3.000.
2. Di nominare una Commissione composta di sette individui, incaricata di raccogliere, d’accordo colla Giunta municipale, le sottoscrizioni dai comuni, dai corpi morali e dai privati; di predisporre il relativo progetto e di suggerire e proporre il luogo ove collocare il monumento.
3. Di provvedere perché il Municipio di Lecco sia rappresentato alle supreme onoranze decretate dal Consiglio comunale di Milano.
Quest’ordine del giorno è approvato per alzata e seduta all’unanimità da voti 14.
Il Consiglio ha quindi proceduto mediante schede segrete alla nomina della suddetta Commissione che risultò composta dei seguenti signori:
1. Ghislanzoni Antonio.
2. Stoppani Cav. Prof. Antonio.
3. Gavazzi Cav. Egidio.
4. Badoni Cav. Giuseppe.
5. Keller Cav. Alberto.
6. Villa Pernice Comm. D. Angelo.
7. Torri Tarelli Ing. Tomaso.
Finalmente il Consiglio ad unanimità prega il Sindaco Cav. Dott. Giuseppe Resinelli di rappresentare il Comune ai solenni funerali dell’Illustre Defunto.
Letto, confermato e sottoscritto, mandando il presente verbale a pubblicarsi ed a trasmettersene copia alla R. Sotto-Prefettura.
Il Presidente DOTT. GIUSEPPE RESINELLI
Il Consigliere Anziano, dott. FRANCESCO CORNELIO.
3.2 / Come Milano, più di Milano, Lecco onorerà Manzoni con un grande monumento che ne evidenzi il legame con il territorio lariano e ne esalti il romanzo.
Una originale e centratissima campagna di comunicazione.
Contemporaneamente alla mobilitazione del Comune, a supporto dell’azione organizzativa e di reperimento fondi, l’Abate Stoppani avvia la campagna di comunicazione per il Monumento, secondo una linea sicuramente originale.
Nei giorni, settimane, mesi successivi alla morte di Manzoni, da centinaia di intellettuali di tutta Italia erano state proposte con articoli, opuscoli e in conferenze pubbliche, considerazioni e valutazioni (per lo più favorevoli, ma alcune anche critiche, per esempio quella di Carducci, su cui torneremo più avanti) che avevano come soggetto il Manzoni artista o il religioso o il politico.
Sempre, però, il Manzoni già maturo, senza alcun riferimento né alla sua formazione né al territorio lecchese che dal 1614 aveva costituito l’ambiente di riferimento economico, sociale ed esistenziale della sua famiglia; in cui egli stesso aveva vissuto fino ai quindici anni e con cui aveva mantenuto uno stretto legame di frequentazione diretta, con significative relazioni economiche e sociali, fino ai suoi trenta tre anni.
Uno degli esempi di questa produzione acefala è il discorso che in sua memoria Giulio Carcano (tra l’altro, per anni, uno dei frequentatori assidui di Manzoni) pronunciò in Milano il 27 novembre 1873 al Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere (il testo è però datato dall’autore al giugno precedente).
In quel discorso di 51 pagine, titolato “Vita di Alessandro Manzoni”, ai rapporti tra Manzoni e Lecco Carcano fa solo tre riferimenti:
a.«[il padre, Pietro Manzoni] era d’antica famiglia, oriunda di Valsàssina, ov’ebbe già feudi e onoranze …»;
.
b. «La famiglia, la quale soggiornava gran parte dell’anno al Galeotto [sic!], vecchio palazzo in vicinanza di Lecco, vi condusse il fanciullo …»;.
c. «Quest’altra storia d’oppressi e d’oppressori comincia sotto a quel cielo così bello che aveva illuminata la prima fanciullezza del poeta.»
L’unica notizia in qualche modo utile che Carcano ci dà sulla formazione di Manzoni è che la sua famiglia “soggiornava gran parte dell’anno al Galeotto [sic!]” (utile per l’ex Sindaco Brivio che non manca mai di parlare di Villa Manzoni come luogo di “villeggiatura” dei Manzoni).
È chiaro che se l’Abate, come base concettuale per la campagna a favore del Monumento, avesse seguito questa linea stereotipata di rievocazione della personalità di Manzoni, avrebbe fatto poca strada.
Nella migliore delle ipotesi si sarebbe forse lasciato la possibilità di definire un collegamento tra Manzoni e Lecco attraverso il romanzo.
Tracciando cioè un legame o semplicemente descrittivo (“Quel ramo del lago di Como”, ecc.) e/o di struttura narrativa (la vicenda dei promessi sposi si avvia e si conclude a Lecco).
In ogni caso avrebbe però penato a fare emergere il legame strutturale e vincolate tra Lecco / territorio Lariano e la fisionomia più intima di Manzoni, il sottofondo permanente e immanente alla sua esperienza umana ed artistica complessiva.
Consapevole di ciò, Stoppani individua invece una linea di indagine e di comunicazione decisamente originale, rivendicandone esplicitamente la primazia (da “Prime Letture”, dicembre 1873, p. 405 (evidenziazioni nostre):
«questo non è campo che sia già stato mietuto, e neppur vigna che altri abbia già vendemmiata: anzi nessuno ci ha mai visto, ch’io mi sappia, né un campo da mietere, né una vigna da vendemmiare, benché taluno v’abbia raggranellato a caso un grappolo o una spica. L’argomento, forse fecondissimo per sé medesimo, fu reso sterile e nudo dalla dimenticanza degli uomini […]»
Unico in Italia, l’Abate punta tutto sul giovane Manzoni e quindi — di necessità — sul rapporto tra Manzoni e Lecco. Sostiene l’Abate: questa è la chiave per potere sviluppare discorsi ampi, originali e “unici”; con cui illustrare il perché di un monumento allo scrittore in Lecco, anche più “importante” di quello di Milano.
In proposito Stoppani è esplicito (ibidem, pp. 406-07):
«Che Lecco abbia comune con Milano la gloria di averlo noverato fra’ suoi concittadini, è cosa meno nota, ma non perciò meno vera. Vi basti il sapere di certo che nell’età fra i 31 e i 32 anni egli era a capo della Amministrazione comunale di quel gran borgo (ciò risulta […] dagli Atti del Convocato generale del Comune di Lecco tenutosi il 31 ottobre 1816).
Vedete se la città di Lecco avesse diritto e dovere di decretare un monumento ad Alessandro Manzoni, come fece appena vi giunse la novella della sua morte.»
Con questa scelta Stoppani mostrava tra l’altro una consapevolezza tutta moderna della funzione decisiva che gli anni di formazione hanno su qualunque individuo.
Ciò in perfetta coerenza con il ruolo di educatore della gioventù che egli si era ritagliato come collaboratore di riviste indirizzate agli adolescenti, accanto a quella dello scienziato originale nei temi e nei modi di indagine, nonché di docente amatissimo dai suoi studenti del Politecnico di Milano, i tecnici della nuova Italia.
3.3 / Per l’Abate fonti previlegiate sul mondo del giovane Manzoni.
Nella definizione di questa linea di comunicazione, funzionale alla complessa realizzazione del Monumento, l’Abate poteva contare su un ampio ventaglio di relazioni personali.
In primo luogo due sacerdoti, Natale Ceroli e Adalberto Catena — entrambi anch’essi rosminiani — che avevano avuto strettissimi rapporti con Manzoni, e ai quali Stoppani era legato sia da intima amicizia personale sia da comuni esperienze anche politiche (accusatili di “attività patriottiche”, gli Austriaci li avevano cacciati nel 1853 dai Seminari Arcivescovili di Milano, dove insegnavano).
La fonte principale era sicuramente Natale Ceroli, dal 1858 quotidiano assistente culturale di Manzoni per la gestione della corrispondenza, della biblioteca, ecc. nonché suo accompagnatore nelle lunghe passeggiate che Don Lisander faceva per il centro di Milano (alla morte di Manzoni don Ceroli fu incaricato di riordinarne i manoscritti e i carteggi, in collaborazione con Giovanni Rizzi e Visconti Venosta).
Fino alla sua morte (estate 1874, per febbri malariche durante un viaggio in Palestina, condotto proprio in compagnia di Stoppani che, colpito dal calcio di un mulo, riportò invece una grave ferita a una gamba), l’Abate poté contare sulla sua colta e acuta collaborazione per investigare aspetti poco noti della vita e della personalità di Manzoni nonché di consultare (ne siamo ragionevolmente certi) anche le “bozze” precedenti la Ventisettana.
Secondo il suo primo biografo (il nipote Angelo Maria Cornelio, su questi aneddoti abbastanza affidabile — su questi aneddoti, si intende!), più volte Ceroli aveva cercato di organizzare tra i due un incontro; per superare le resistenze del sempre riservato Manzoni, aveva suggerito si potesse stare sul conviviale: l’Abate (estimatore di Rossini) suonava benino il pianoforte; aveva un’ottima voce baritonale e sapeva adattarsi a ogni parte; ci si sarebbe divertiti.
Manzoni aveva però sempre nicchiato — a nostro avviso non tanto per riluttanza alle nuove conoscenze quanto per l’essere Stoppani un lecchese doc, con forti e sempre manifestate radici con la città di origine: in caso di incontro (e nonostante la differenza d’età, tra i due c’erano 39 anni) sarebbe risultato inevitabile parlare delle comuni conoscenze, cosa che Manzoni poteva preferire non fare (gli accenni di Paolo Bellezza a una frequentazione diretta tra i due sono senza fondamento).
La seconda fonte dell’Abate era Adalberto Catena, fin da ragazzo legatissimo alla famiglia Stoppani: prima di ricevere gli ordini, egli e il compagno di seminario Angelo Stoppani (fratello maggiore dell’Abate, morto giovanissimo) nel 1845 avevano compiuto uno speciale pellegrinaggio, recandosi a piedi da Lecco a Roma.
Nel 1870 Catena divenne parroco della Chiesa di San Fedele in Milano e diede praticamente tutti i giorni l’eucarestia a Manzoni, ricevendone le confessioni. Ne celebrò anche il funerale il 29 maggio 1873.
Stante la indubbia riservatezza, Catena era comunque in grado di trasferire all’Abate elementi di riflessione.
Da sinistra: Francesco Ticozzi (patriota, Prefetto di Napoleone I, avvocato e notaio della famiglia Manzoni in Lecco, zio di Lucia Pecoroni, madre dell’Abate Stoppani) — Lucia Pecoroni Stoppani (madre dell’Abate) — Giuseppe Bovara (architetto, amico fraterno per tutta la vita di Manzoni) — Natale Ceroli (sacerdote, amico fraterno di Stoppani, per 15 anni quotidiano assistente culturale di Manzoni).
Elementi di conoscenza gli venivano inoltre dalla sua stessa famiglia: uno zio di sua madre Lucia era stato per quasi tre decenni strettamente legato ai Manzoni.
Si trattava di Francesco Ticozzi, avvocato-notaio: tra i capi del movimento patriottico del 1796; incarcerato con durezza dagli austriaci al loro ritorno nel 1797; poi, con Napoleone, collocato in ruoli di responsabilità: Prefetto; Cavaliere della Croce di ferro, ecc. ecc. (per non parlare del fratello di lui, Stefano, in Lecco parroco di San Giovanni in Laorca; con l’arrivo dei francesi spretatosi in nome della “rivoluzione”; anch’egli poi funzionario napoleonico; uomo di cultura, pioniere di talento della critica d’arte italiana; traduttore anche della “Storia delle Repubbliche Italiane” di Sismondi, l’opera che servì di spunto a Manzoni per il suo “Osservazioni sulla morale cattolica” — quante sinergie se ne potrebbero trarre!).
Francesco Ticozzi fu per anni il consulente legale di Pietro Manzoni; fu lui nel 1807 a stenderne il testamento a favore di Alessandro e fu lui, per anni e fino alla propria morte nel 1825, a rappresentare legalmente in Lecco lo stesso Alessandro.
Senza pensare che Ticozzi andasse a spifferare in famiglia i fatti dei suoi clienti Manzoni, è ovvio che notizie non sensibili potevano essere giunte allo Stoppani anche per questa via informale ma potenzialmente molto ricca.
Non possiamo inoltre trascurare come “fonti” dell’Abate la propria madre, Lucia Pecoroni e il proprio fratello maggiore Pietro.
Donna istruita, per parte di madre e padre legata a famiglie socialmente ben messe e quindi bene informate; sorella di Antonio Pecoroni, affermato industriale serico di Lecco, Lucia Pecoroni, sposa e socia d’affari del socievole Giovanni Maria (“Giuanin bona grazia”) era dal 1820 attivissima commerciante con ampie relazioni in tutto il lariano (gli amici dell’Abate che la conoscevano — tra questi, Quintino Sella — gli esprimevano per lei i più ammirati complimenti).
Pietro Stoppani — Del 1819 e primogenito dei 15 nati da Lucia Pecoroni e Giovanni Maria; sacerdote, era uomo d’azione e di organizzazione più che di elaborazione teorica. Canonico coadiutore a Sant’Ambrogio in Milano, era stato molto attivo nelle Cinque Giornate del 1848 nel fare dell’importate chiesa milanese uno dei centri organizzativi della rivolta e un efficiente ospedale per le molte centinaia di feriti nei combattimenti (in famiglia si tramanda che in un abboccamento con ufficiali austriaci nel corso di una breve tregua, infuriato per la loro stupida intransigenza e lasciandoli esterefatti, avesse mandato all’aria la tregua rovesciando il tavolo della riunione — ma potrebbe essere cosa inventata per ricordarne il noto carattere deciso e poco diplomatico).
Nel 1860 era stato Segretario della Società Ecclesiastica di Milano, l’organizzazione di ispirazione rosminiana, struttura schiettamente politica cui aderivano oltre 250 preti conciliatoristi della città, facendone la più forte formazione organizzata del clero lombardo (loro organo di stampa era il bisettimanale “Il Conciliatore”, cui collaborava il giovane Antonio Stoppani). In questa sua funzione, nel febbraio 1860, Pietro aveva svolto certo un ruolo di primo piano nello schierarsi del clero milanese a fianco della monarchia sabauda in contrasto con la gerarchia vaticana di Pio IX: in quella operazione Cavour e d’Azeglio erano riusciti a garantirsi l’intervento diretto di Manzoni presso i “capi” del clero patriottico milanese (per questa vicenda vedi la nostra Nota del 2017).
Dal 1875 e fino alla morte (1899), Pietro fu poi parroco di Santa Maria della Passione, la più importante Basilica di Milano.
Dal 1867 al 1875 era però stato parroco di Chiuso, uno dei luoghi di scioglimento narrativo del romanzo di Manzoni. Proprio per questa sua esperienza, dell’Abate fu prezioso informatore nella identificazione di figure del romanzo con uomini in carne e ossa del paese, spesso frequentato dal giovane Manzoni per i legami che suo padre Pietro vi aveva come priore della locale confraternita del Ss. Sacramento.
Da questa breve rassegna delle fonti “manzoniane” dell’Abate si può comprendere come nella sua ricerca egli potesse battere con successo inediti percorsi.
3.4 / La prima inchiesta “manzoniana” sul territorio.
A partire dalla conoscenza sui rapporti economici e personali locali che così gli venivano, Stoppani perlustra il territorio lariano per raccogliere notizie di prima mano sui rapporti tra Manzoni e quel mondo naturalistico e sociale che era anche appassionatamente il proprio.
Cerca di trarre il più possibile idee e sensazioni anche “facendo parlare le pareti” (sono parole sue) del palazzo di Mozzana di Giuseppe Resinelli, suo consuocero, dove si trovava nel 1873 la famosa “culla” (oggi esposta al Museo Manzoniano di Lecco) a disposizione dei visitatori che volessero vederla — potremmo considerare quella esposizione come il nucleo ideale di un Museo manzoniano che certo l’Abate aveva in mente si potesse costituire, 100 anni prima che ciò si verificasse — di quel Museo che ora lo tiene ottusamente nascosto.
In quella culla avevano dormito e dormivano infanti Resinelli e poi infanti Stoppani (tra questi il nonno di chi scrive, anch’egli di nome Antonio, come lo zio Abate, nato nel 1872, un anno prima la morte di Manzoni).
Come quella culla fosse arrivata ai Resinelli ce lo dice Stoppani nel suo articolo su “Le Prime Letture” (dicembre 1873, p. 407):
«Come poi la si trovi a Mozzana, è presto detto. La famiglia Resinelli ebbe in eredità una gran parte degli addobbi del palazzo Manzoni, e se ne servì per la sua casa di villeggiatura, trasportàndovi con essi anche la culla, mòbile sempre opportuno per una gióvine famiglia. Quante memòrie del grand’uomo in quella casa! Figuràtevi che tra i frastagli della cornice dorata di uno spècchio di stile barocco, trovossi e tròvasi ancór oggi una lèttera di Pietro Manzoni, padre d’Alessandro, che ve l’avrà riposta forse un sècolo fà. Fra i molti oggetti portati via dal Caleotto attrasse singolarmente la mia attenzione un pesante calamajo di marmo. […]».
Dalla villa di Mozzana del consuocero Resinelli, Stoppani è a un passo da Cascina Costa e gli è facile parlare con un vecchione: era uno dei ragazzini della ampia famiglia della balia Caterina Panzeri Spreafico che a Cascina Costa aveva allevato per i primissimi anni il piccolo Alessandro come un proprio figlio.
Attraverso la sua vasta rete di conoscenze tra i sacerdoti rosminiani del lariano e della Valsassina (tra questi, Luigi Arrigoni, fratello di Giuseppe, il celebre storico della Valsassina), l’Abate chiacchiera con i vecchi, cerca documenti, registra tutto ciò su cui può mettere occhi mani e orecchie.
Intervista più volte e a lungo l’architetto lecchese Giuseppe Bovara (nel 1873 quasi cieco ma ancora perfettamente lucido), ricco di ricordi antichi e recenti su Alessandro, suo amico fraterno dalla primissima adolescenza e poi sempre frequentato.
Nel 1808 Manzoni aveva venduto all’amico Bovara il suo “paretajo” per la caccia alle allodole che si trovava giù verso il torrente Bione e in cui l’adolescente Alessandro passava le ore di libertà a spese degli incauti abitatori dei cieli (come molti ragazzini di ogni tempo e luogo).
Nel 1828, quando, con l’uscita de “I Promessi Sposi”, alla già consolidata fama di Manzoni come poeta si era aggiunta quella di autore di un grande romanzo (grazie a cui il territorio lariano era divenuto famoso in tutta Italia e in Europa), i Bovara avevano trasportato quel capanno per la caccia agli uccelletti nel giardino della loro villa in Lecco e ne avevano fatto una specie di tempietto al genius loci con cui avevano giuocato bambini, con tanto di targa alla memoria.
Ovvio che l’Abate ci si buttasse a pesce, facendone una delle immagini chiave della sua campagna di raccolta fondi per il Monumento.
3.5 / Definizione della linea di comunicazione: si comincia con la rivista di Sailer “Le Prime Letture”.
Comunque sia, con i primi materiali raccolti in questa sua inchiesta sul territorio, per la rivista “Le Prime Letture” Stoppani firma “Lecco, novembre 1873” il lungo articolo «Spigolature sull’infanzia di Alessandro Manzoni» con due pagine introduttive di Luigi Sailer (direttore ed editore/proprietario della rivista) che ricorda un episodio della sua frequentazione con il vecchio Manzoni e indica nell’Abate la persona più indicata a scoprire e illustrare come si fosse formato Manzoni fino ai suoi 15 anni (i due contributi formano le ultime 13 pagine dell’ultimo fascicolo della rivista per l’anno 1873, stampato nella prima decade di dicembre — nelle immagini ne riportiamo solo le pagine recanti illustrazioni).
Dal momento che in questa Nota si parla soprattutto di Carducci, vale la pena di ricordare (giusto un inciso) che Luigi Sailer era strettissimo collaboratore e amico di Francesco d’Ovidio, il manzonianissimo professore e saggista che nel 1884 diede avvio alla reazione dei manzoniani contro l’esclusione del Manzoni dai libri di testo delle scuole del Regno, di cui Carducci era stato parte molto attiva ed efficiente, come abbiamo già visto sopra.
Il lettore che abbia una qualche familiarità con l’iconografia manzoniana ha certamente notato il peso che in questo articolo dell’Abate su “Le Prime Letture” del dicembre 1873 viene dato alle quattro illustrazioni descrittive del paesaggio e dell’ambiente nei quali si svolse la prima parte della vita di Alessandro Manzoni.
Abbiamo la Cascina Costa di Galbiate (in linea d’aria distante 5 chilometri dal Caleotto di Lecco) di proprietà dei Manzoni e dove abitava Caterina Panzeri Spreafico, la balia di Alessandro.
La culla nella quale egli aveva dormito in quella cascina e che poi era passata ai Resinelli-Stoppani, prima di finire esposta al Museo Manzoniano di Lecco.
Il palazzo del Caleotto, dal 1614 abitazione della famiglia Manzoni in Lecco.
Il capanno per la caccia alle allodole dell’adolescente Manzoni, poi conservato da Giuseppe Bovara come “tempietto” rievocativo di una calda frequentazione amicale avviata con il giovanissimo Alessandro e poi mantenuta per oltre 70 anni (Bovara morì il 2 dicembre 1873, pochi mesi dopo Manzoni).
Sono immagini che certo molti lettori hanno già visto variamente riprodotte: nell’iconografia manzoniana sono dei “classici” consolidati ma pochi sanno, o vogliono ricordare, che ideatore ne fu l’Abate Stoppani come elementi della formalizzazione su basi riconoscibili da tutti del legame tra Lecco e Manzoni.
Una recente eccezione: il già ricordato Catalogo “Manzoni nel cuore” riporta la notissima incisione di Villa Manzoni (opera degli artisti Barberis e Canedi) indicandone come fonte il libro “I primi anni di Alessandro Manzoni”, Bernardoni, Milano 1874. L’indicazione è corretta ma non completa: la prima pubblicazione su cui comparvero le quattro immagini che abbiamo qui riportato fu il numero di dicembre 1873 della rivista “Le Prime Letture”, come abbiamo visto poco sopra.
Non vogliamo certo fare i precisini con gli amici della Associazione Bovara: ci spinge a una certa acribia bibliografica il modo veramente insipiente — e anche sconfortante — con cui queste illustrazioni, ideate dall’Abate Stoppani come veicoli di comunicazione per la campagna del monumento a Manzoni in Lecco, sono considerate — o meglio NON sono considerate — al Museo Manzoniano, dove vengono valorizzati disegni di Carlo Pizzi di identico soggetto e datati dallo stesso autore “24 novembre 1873” ma senza neppure accennare all’ovvio collegamento (ce ne è un indizio anche nei “Cenni autobiografici” di Pizzi) con la contemporanea iniziativa editoriale condotta da Stoppani su “Le Prime Letture”, di cui abbiamo detto poco sopra.
Su questo aspetto particolare svolgeremo considerazioni approfondite nella prossima Nota (è in preparazione e uscirà quanto prima) dedicata anche alla Sala 2 del Museo Manzoniano nella nuova configurazione.
I disegni di Carlo Pizzi certamente collegati alla campagna di comunicazione lanciata da Stoppani per il Monumento a Manzoni.
Nella Sala 2 del Museo Manzoniano, titolata “Il giovane Alessandro e il suo rapporto con Lecco”, sono proposti al visitatore due disegni di Carlo Pizzi raffiguranti tre dei medesimi soggetti presentati dall’Abate Stoppani nell’articolo “L’infanzia di A. Manzoni” (uscito nel numero di dicembre 1873 di “Le Prime Letture”) di cui più sopra abbiamo mostrato alcune pagine.
Qui mostriamo: uno scorcio della Sale 2 del Museo e i tre disegni in questione: di Barberis (posizionati in alto a sinistra) e di Pizzi (posizionati in alto a destra e in basso, in doppia esposizione per il confronto).
3.6 / Il “Trionfo della Libertà”: una bandiera per il Monumento a Manzoni in Lecco.
Dopo gli spunti sull’infanzia propriamente detta di Manzoni, cui abbiamo già accennato sopra, il lungo articolo di Stoppani passa poi a descriverne le esperienze scolastiche (con i problemi di una istruzione non sempre di alto livello); i primi avvicinamenti alla poesia e alla letteratura; le prime soddisfazioni (la visita del poeta Monti al collegio del giovanissimo poeta venne ricordata da Manzoni per tutta la vita).
L’articolo si conclude con un richiamo insistito a “Il trionfo della libertà”, la prima composizione propriamente poetico / politica del sedicenne Manzoni.
Di questo poemetto Teodoro Pertusati, il 24 giugno 1873, aveva dato sul quotidiano milanese “La Perseveranza” alcune anticipazioni e un riassunto dei temi lì trattati.
Non mancava di ricordare come, imprigionati insieme allo Spielberg, nel 1835 a Gabriele Rosa Federico Confalonieri recitasse a memoria brani di quel poemetto, da lui imparati al Longone (dove era stato compagno di studi del Manzoni) e tenuti ancora a mente dopo più di vent’anni.
A partire da quei non molti versi riportati e dalla sintesi che ne faceva Pertusati, Stoppani ritenne che il poemetto giovanile di Manzoni fosse utile a mettere in luce il carattere progressista e democratico del sedicenne Manzoni e la sua già consolidata capacità di esprimere complessi concetti politico-sociali in efficaci e belle forme artistiche (Le Prime Letture, p. 415, sottolineature nostre):
«Questi son versi del Manzoni sedicenne; ma sono versi del Manzoni. Il suo sole vi brilla col primo raggio di un sole mattutino; ma è il suo sole; il suo spirito non ha ancora prodotti né i suoi fiori più belli né i suoi frutti più squisiti; ma ci si vede il suo spirito. È uno spirito in cui hanno già messo profonde radici il sentimento del giusto, l’amore della vera libertà, il culto della patria, lo sdegno della tirannia e del fanatismo, l’entusiasmo per quanto v’ha di grande, di buono, di bello in sulla terra.»
L’Abate alla fine del 1873 pensava quindi che la campagna a favore del Monumento a Manzoni in Lecco potesse trovare nelle idee patriottiche, democratiche e progressiste del giovane Manzoni un punto di forza: una scelta ben precisa sul taglio da dare all’intera operazione e quindi sugli interlocutori cui richiedere appoggi e contributi (da notare che nella composizione Manzoni prendeva di mira non solo quella parte del clero dimentica dei precetti evangelici ma anche gli invasori francesi dell’Armata d’Italia guidata dall’ormai affermatissimo Napoleone — il poema è del 1801).
Stoppani non poteva dirlo più in chiaro: dal Monumento a Manzoni stiano pure alla larga i reazionari; il clero conservatore e temporalista e in generale chi poco sente l’amore per un’Italia senza padroni: ne facciamo volentieri a meno.
A distanza di pochi mesi da questa prima dichiarazione programmatica sul come la collettività di Lecco intendeva impostare la campagna per il Monumento di Manzoni in città, l’Abate pubblica un volume di 260 pagine in cui ne amplia e sistematizza i temi.
3.7 / Un libro per ribadire il legame tra Lecco e Manzoni; la sua precoce fisionomia patriottica e democratico-popolare; la competenza “manzoniana” della città.
Nella prima metà del 1874, stampato dalla Tipografia Bernardoni di Milano, l’Abate Stoppani fa uscire un proprio volume titolato “I primi anni di A. Manzoni — Spigolature di A. Stoppani — Con aggiunta di alcune poesie inedite o poco note dello stesso A. Manzoni”).
Solo come piccolo mattoncino in vista del bicentenario della nascita dell’Abate (2024) ricordiamo che il suo primo biografo Angelo Maria Cornelio, nel suo “Vita di Antonio Stoppani”, Torino 1898, dà un’altra data di pubblicazione (p. 173): «Ritornato a Milano [ndr — dal viaggio in Medio-Oriente], lo Stoppani, nel 1875, quasi direi per concedersi un po’ di riposo, concentrava il pensiero in un’operetta vagheggiata da parecchio tempo sopra un soggetto simpaticissimo: I primi anni di Alessandro Manzoni.»
Secondo Cornelio quindi l’Abate avrebbe cominciato a lavorare al libro ai primi del 1875 “per concedersi un po’ di riposo” su un “soggetto simpaticissimo” (leggere Cornelio a volte fa prudere le mani).
Non una parola viene da lui detta né sul primo articolo di “lancio”, uscito su “Le Prime Letture” a fine 1873, né tantomeno sul rapporto tra libro e progetto del Monumento in Lecco, nonostante il richiamo esplicitamente fatto dall’Abate pensando anche ai più distratti.
L’indicazione da parte sua della data al 1875 è comunque del tutto senza fondamento (il libro di Stoppani ricevette infatti una “Menzione onorevole” al IX Congresso Pedagogico Italiano / V Esposizione Scolastica / Bologna, che si tenne nel settembre del 1874 — dobbiamo a Elena Zanoni questa informazione che rende superflua ogni ulteriore osservazione).
La inconsapevolezza di Cornelio ci dà però l’occasione per rilevare che questa cecità, in lui macroscopica, appartiene anche ai numerosi commentatori che, a distanza di tempo e vario titolo, si sono occupati di questa opera dell’Abate (giusto per un richiamo a noi vicino, anche la citata Elena Zanoni, nel suo pur meritorio lavoro del 2015 — parla solo genericamente di una grande ammirazione dell’Abate per Manzoni e del suo impegno nella raccolta fondi per il Monumento; l’articolo de “Le prime Letture” e il libro del 1874 sono da lei ricordati come testimonianza di questa ammirazione di Stoppani per Manzoni senza però trarne le necessarie conclusioni).
A che ci risulta, l’unico che ne abbia fatto un pur rapidissimo cenno è stato Bonfanti nel 1986, ma lo vediamo fra poche righe.
Comunque sia, e tornando al nostro libro sui primi anni di Manzoni, possiamo dire che gli obiettivi che ne voleva conseguire l’Abate appaiono piuttosto chiaramente:
a/ consolidare con elementi di cronaca e con le testimonianze di ben identificabili figure locali l’idea del legame organico tra Manzoni, la città di Lecco e il territorio lariano;
b/ illustrare la presenza precoce e la continuità in Manzoni di idealità sociali e politiche patriottiche, progressiste e democratico-popolari (i termini sono quelli del nostro tempo, li utilizziamo per capirci alla svelta con il lettore);
c/ posizionare come “esperto del Manzoni” se stesso (e quindi il Comitato dei sette istituito dal Comune per la realizzazione del Monumento) per proporsi con credibilità nel momento della raccolta dei fondi e dei sostegni politico-culturali.
Quanto alla struttura, il volume è diviso in due parti nettamente distinte: nella prima vengono svolti i temi più propriamente biografici; nella seconda vengono presentati scritti poco noti di Manzoni e anche veri e propri inediti (vedremo che ciò ne costituisce anche oggi uno dei punti di forza).
3.8 / I rapporti tra Manzoni e il territorio lariano.
Nel suo libro Stoppani riprende le tematiche già anticipate nell’articolo di fine 1873 su “Le Prime Letture”, ricorrendo anche a un largo copia-incolla del suo stesso testo lì stampato.
Naturalmente vi porta approfondimenti e testimonianze; alle 4 illustrazioni già proposte ne “Le Prime Letture” ne aggiunge di nuove che presentano il mondo fisico del territorio lariano: “Il Monte Baro”; “Il presunto castello dell’innominato”; “Pescarenico”; “Il convento dei Cappuccini di Pescarenico”.
Soprattutto però l’Abate dilata l’ambito temporale rispetto al primo articolo (quindi ben al di là dei 15-16 anni di Manzoni) e arriva a ricordi e riflessioni anche sulla prima piena maturità dello scrittore (l’Abate accenna a episodi del 1821 — Manzoni aveva 36 anni).
Non mancano aneddoti sulle precedenti generazioni dei Manzoni attivi in Valsassina nello sfruttamento e fusione dei minerali ferrosi; veri tirannelli locali portati a fare il bello e il cattivo tempo, in concorrenza con altre famiglie dello stesso stampo (molto citato il saluto al “sciur can” dovuto dai sottoposti ai mastini dei Manzoni, già anticipato da d’Azeglio).
L’Abate richiama momenti del periodo napoleonico — o vissuti dalla comunità lecchese o visti da Manzoni adolescente anche se in contesti diversi.
Della “Battaglia di Lecco” che si svolse a fine aprile 1799 tra francesi e russi, Stoppani descrive un piccolo episodio svoltosi a Villa Manzoni (di cui egli stesso aveva sentito da bimbo il racconto in famiglia): i russi occupano la Villa e Comino (l’uomo di fiducia della famiglia, guardiano della proprietà, per il quale Manzoni ebbe sempre un fortissimo affetto, tanto da portarlo con sé a Milano) sta per essere ucciso da un assalitore; viene salvato in extremis da un francese che da una finestra spaccia con un colpo di pistola il soldato russo; nella mischia hanno la peggio i russi e il loro sangue scorre a rivoli sul pavimento; Comino se la cava fuggendo alla disperata.
Sulla scorta delle notizie che gli vengono soprattutto dal fratello Pietro, l’Abate avvia quella presentazione degli “originali” in carne e ossa di alcuni dei personaggi del romanzo (Don Abbondio, specchio di un curato di Chiuso benissimo conosciuto da Manzoni giovane e molti anni dopo anche da Pietro Stoppani; Federigo, specchio di Serafino Morazzone, a lungo curato di Chiuso e morto nel 1822 cui Manzoni era molto legato e a cui aveva dedicato nella “Prima bozza” del romanzo una presentazione molto elogiativa, con tanto di nome e cognome).
In questo suo voler trovare per i personaggi del romanzo manzoniano prototipi realmente esistiti e per di più personalmente conosciuti da Manzoni, Stoppani è stato visto anche come un campanilista un po’ sempliciotto nel comprendere la dinamica dei processi creativi.
Niente di più semplicistico (Stoppani scriveva in modo discorsivo e bonario ma nulla aveva del sempliciotto): l’Abate, forzando solo un pochino le cose, intendeva seminare nel suo lettore l’idea che l’ambiente lariano aveva fornito all’artista Manzoni una eccellente materia prima non solo per le rappresentazioni naturalistiche ma anche per il tratteggio dei caratteri.
Questo il suo pensiero: il Manzoni che conosciamo e ammiriamo si è abbeverato infante e adolescente all’intero mondo lariano e questo patrimonio di impressioni e suggestioni ne ha alimentato la vena artistica e psicologica lungo tutta la vita; per questi motivi Lecco può e deve erigergli un grande monumento: Manzoni è un figlio vero di questa terra, uno straordinario museo a cielo aperto della vita del globo, abitato da una popolazione indipendente, dai ben definiti caratteri socio-esistenziali.
Stoppani tiene il taglio di questi suoi contributi sempre sul registro del racconto leggero; il che non gli impedisce di fare qualche puntata prettamente critica, come quando traccia il quadro per l’individuazione storica di padre Cristoforo che, come noto, fu personaggio assolutamente reale, impegnato in prima persona nella peste di Milano del 1630.
Per i legami economici e sociali di Manzoni con Lecco, nel libro l’Abate si limita a ribadire quanto già anticipato ne “Le Prime Letture”: tra il 1814 e il 1816 essere stato Manzoni rappresentante legale della città (una specie di Sindaco) in forza della sua capacità contributiva, riservandosi in proposito uno studio più ampio.
A p. 23 del suo libro Stoppani scrive infatti (evidenziazioni nostre):
«L’Autore, che per qualche ragione se ne interessa, ha intenzione di pubblicare un altro scritterello, diretto specialmente a far meglio conoscere quanta parte abbia Lecco e il suo territorio nella vita di Alessandro Manzoni.»
Quella pubblicazione purtroppo non vide mai la luce e gli appunti presi dall’Abate forse sono in fondo a qualche scatolone di famiglia. È un vero peccato perché da quello “scritterello” sarebbero certo emersi elementi di grande interesse.
Ma se l’Abate, per una ragione o per l’altra, non riuscì a sviluppare la ricerca come avrebbe voluto, ciò non toglie che la sua idea di fondo fosse assolutamente centrata e che sarebbe nei doveri del Museo Manzoniano mettere in campo risorse e relazioni per continuare sul percorso da lui accennato e realizzare, tra le altre cose, anche quello “scritterello”.
E non — proprio al contrario — cancellare lo Stoppani dal mondo di Manzoni come stolidamente fa la attuale Direzione scientifica del Museo con l’ancora più stolido assenso dei suoi referenti organizzativi e politici.
3.9 / Ribadire la fisionomia patriottica e democratica di Manzoni.
Anche nel libro viene valorizzato, come già ne “Le Prime Letture”, il poemetto “Il trionfo della libertà” con il suo messaggio di libertà, giustizia ed eguaglianza, espresso in forme veramente notevoli per un giovine di soli 16 anni.
A rafforzare l’idea di un impegno di Manzoni nella lotta politica patriottica — non episodico ma costante nel tempo — l’Abate riferisce un aneddoto inedito che gli può essere venuto solo dalla cerchia ristretta dei frequentatori di Manzoni.
Non per debolezza o per cercare benemerenze presso gli inquirenti, ma per dare dignità politica al moto insurrezionale di cui egli era parte importante, al capo della polizia Strassoldo che conduceva le indagini, Federico Confalonieri aveva raccontato per filo e per segno il suo progetto, tirando in ballo anche un alto prelato (Monsignor Carlo Sozzi, Vicario generale della Diocesi di Milano) cui egli aveva proposto di assumere un ruolo di responsabilità nel governo provvisorio che sarebbe scaturito dalla rivolta.
L’alto prelato, sentito dalla polizia, se l’era cavata negando di avere mai conosciuto o parlato con Confalonieri, cosa vera e riscontrata dagli inquirenti.
In realtà il contatto tra Confalonieri e Monsignor Sozzi c’era stato e c’era stata effettivamente la proposta di una collaborazione politica cui il prelato non aveva detto di no.
Ma ciò era avvenuto attraverso una terza figura — che era proprio Manzoni, ottimo amico di Confalonieri e in buoni rapporti con Sozzi.
Un’altra parolina di troppo da parte di Confalonieri e Manzoni si sarebbe trovato — con il Monsignore — a farsi un bel po’ di anni di galera allo Spielberg, in compagnia del troppo loquace amico e compagno di ideali.
Da parte dell’Abate, il render pubblico questo episodio, certo assolutamente veritiero, aveva l’obiettivo scoperto di indicare sulla base di “fatti” l’impegno politico patriottico di Manzoni.
Ciò per rintuzzare le tendenze — rappresentate perfettamente da Carducci — che negavano in Manzoni la figura del patriota impegnato nelle azioni (e non solo a chiacchiere più o meno artistiche) nel lungo procedere del Risorgimento italiano.
Non ne abbiamo il riscontro documentale ma questo episodio raccontato dall’Abate sembra una risposta ad hoc ad affermazioni che lo stesso Carducci aveva espresso proprio tra il giugno e il luglio del 1873 nei suoi quattro articoli su Manzoni, scritti in polemica con Paolo Ferrari e Giuseppe Rovani e usciti sul bolognese “La Voce del Popolo — Quotidiano democratico-sociale repubblicano”.
Segnaliamo che questi articoli furono poi ripresi da Carducci e pubblicati nel 1876 come parte del libro “Bozzetti critici e discorsi letterari di G. Carducci, Livorno, 1876” sotto il titolo “A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni” che nel 1891 (il lettore lo vedrà meglio più avanti) vennero citati da Carducci-Padovani a testimonianza di un presunto filo-manzonismo di Carducci fin da quell’epoca — queste nostre digressioni sono quindi del tutto pertinenti al tema principale di questa Nota.
In quegli articoli Carducci dava atto a Manzoni di avere creato — ma fino al 1819 — poesia di altissimo livello artistico ma … poco utili alla lotta patriottica (p. 334, sottolineature nostre):
«Mazzini […] ebbe per altro cooperatori efficacissimi; nell’ispirare l’odio allo straniero e il disprezzo ai principi domestici, il Berchet e il Giusti; nell’accomunare il fremito della ribellione e le rimembranze dispettose dell’antica grandezza e libertà, il Guerrazzi; nella guerra alla superstizione e al papato politico, il Niccolini.
.
Ma il Manzoni non può, senza offesa alla storia e alla critica, essere annoverato tra cotali banditori, bersaglieri e zappatori di rivoluzione.
L’ingegno suo, pio, calmo, sereno, rifuggente dalla turba e dall’inegual fluttuare della passione, gli rendeva non possibile cotesta parte.»
Il racconto di Stoppani del coinvolgimento non letterario ma direttamente organizzativo di Manzoni nella cospirazione del 1821 è evidentemente concepito se non per fare di Manzoni uno “zappatore di rivoluzione”, quanto meno per rendere note sue attività poco letterarie e decisamente cospirative, giocate in prima persona quindici anni prima che nascesse Carducci.
3.10 / Scritti poco noti di A. Manzoni ma anche inediti importanti per la conoscenza della sua personalità.
Nella seconda parte del libro “I Primi anni di Manzoni” l’Abate cambia completamente registro e presenta un corpo di scritti poco conosciuti o addirittura inediti di Manzoni giovane e maturo.
Vengono così resi pubblici per la prima volta due “Sermoni” scritti ai primissimi del secolo.
Il primo (“Perché, Pagani, dell’assente amico” — ha un posto di rilievo nella critica manzoniana) è dedicato a Gianbattista Pagani, compagno di collegio di Manzoni al Longone di Milano; di famiglia attivamente patriottica (quindi maltrattata anche dai francesi); per tutta la vita a lui legato da saldi vincoli (salvo il noto scherzo poco simpatico giocato da Pagani a Manzoni nella pubblicazione in Italia del Carme a Imbonati — Pagani ci aveva messo di sua iniziativa una dedica a Monti, anche a critica del quale in realtà la composizione era stata scritta).
Il secondo (meno interessante ma comunque un inedito) è “Sermone ad ignoto autore di versi per nozze” del 1804.
Stoppani pubblica inoltre per la prima volta un frammento di “A Pertenide”.
Chiude il libro un altro eccezionale inedito di Manzoni.
3.11 / Un rilevante contributo di Stoppani alla cultura manzoniana: Il Natale del 1833.
Nella sua ricerca, certamente per i buoni uffici dell’amico Natale Ceroli, l’Abate Stoppani entra in contatto con Vittorina Manzoni maritata Brambilla, la nipote prediletta di Manzoni (era figlia di Pietro, il primogenito di Alessandro) cui il poeta aveva donato il manoscritto degli “Inni Sacri”.
Fu grazie a lei che l’Abate poté esaminare il voluminoso incartamento e rinvenire 4 strofe di un Inno, l’ultimo, iniziato da Manzoni (ma non compiuto) nel marzo del 1835, spinto dalla morte della moglie Enrichetta Blondel, cui l’Abate aveva dato il titolo “Frammento di un Inno per la Festa del Santo Natale” ma che ora conosciamo — più correttamente — con il nome che gli aveva dato Manzoni — “Il Natale del 1833”.
È un testo che a chiunque, qualunque sia la sua visione del mondo, non manca di suscitare un moto di compassionevole condivisione (ne faremo memoria in una nostra Nota in lavorazione dedicata al “nuovo” ritratto di Manzoni da Sergio Rebora assegnato a Giuseppe Molteni — ebbene sì, un altro! — con l’entusiastico appoggio di Fernando Mazzocca e del sempre angelicamente lepido Presidente del CNSM).
Il Natale del 1833
Tuam ipsius animam pertransivit gladius. / (LUC., II, 35).
Anche l’anima tua stessa sarà trapassata dal coltello. / (Trad. Martini).
Sì che Tu sei terribile!
Sì che, in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine,
Sovra quel sen pietoso,
Come da sopra ai turbini,
Regni, o Fanciul severo!
È fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.
Vedi le nostre lagrime,
Intendi i nostri gridi,
Il voler nostro interroghi,
E a tuo voler decidi.
Mentre, a stornare il fulmine,
Trepido il prego ascende;
Sordo il tuo fulmin scende
Dove tu vuoi ferir.
Ma tu pur nasci a piangere;
Ma da quel cor ferito
Sorgerà pure un gemito,
Un prego inesaudito;
E questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
Nel guardo tuo beata,
Ebbra del tuo respìr,
Vezzi or ti fa; ti supplica
Suo pargolo, suo Dio;
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: è mio! …
Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte,
E ti vedrà morir.
Onnipotente ……….
Cecidere manus.
3.12 / Una titanica gara museal/museografica a chi si mostra più insipiente verso la memoria di Manzoni.
A prescindere dalla importanza che quel libro dell’Abate sui primi anni di Manzoni ha avuto — e ha — per la critica dell’opera manzoniana, per rimanere al nostro tema, è opportuno rilevare come con quel libro il geologo e teologo Stoppani aveva perseguito consapevolmente — e conseguito pienamente — l’obiettivo non solo di acquisire notorietà come estimatore delle tematiche manzoniane ma di venire riconosciuto anche in quell’ambito come portatore di novità e scoperte.
Era quello infatti un requisito fondamentale per potere sostenere a livello nazionale il ruolo di promotore del monumento a Manzoni in Lecco, iniziativa che ad alcuni era sembrata inizialmente una forzatura.
Il libro fu molto bene accolto e da allora (sono passati 146 anni) è sempre citato da tutti i critici di normale intelletto che riconoscono a Stoppani ciò che gli deve essere riconosciuto: è solo a Lecco che il suo libro/manifesto per il Monumento è ottusamente tenuto fuori dal Museo Manzoniano.
Il cui Direttore scientifico (sulle orme del suo predecessore) ogni tanto deborda dicendo di volerne fare anche un “museo letterario”.
E che, come unica cosa che riesce a fare in quella direzione è di ignorare quel notissimo cittadino lecchese che ha per primo pubblicato quegli importanti inediti del giovane Manzoni, a tutt’oggi oggetto di studi e riflessioni a ogni livello – complimenti Direttore per la sensibilità critico-letteraria!
In proposito non possiamo non ricordare che si tratta di uno stile di direzione museal/museografica con radici “storiche” in Lecco.
Il “già Direttore” del Museo Manzoniano (è stato fondato nel 1983 ma su questo la “nuova ” Direzione mantiene il più eroico silenzio), il ben noto in città Gian Luigi Daccò, nel 2009 aveva firmato un agile ma impegnativo libretto di 80 pagine (formato 25×17); su carta patinata; con molte illustrazioni a colori; edito da Mondadori Electa Spa, dal titolo «Manzoni a Lecco – Luoghi e memorie».
In quel volume, molto pubblicizzato allora dal Comune di Lecco, il “già Direttore”, con splendida coerenza con il proprio ruolo, si era dimenticato di citare – sia pure di sfuggita, o in nota o in una didascalia – il monumento a Manzoni in Lecco.
Per quanto riguarda il volume di Stoppani sui primi anni di Manzoni, il “già Direttore” lo aveva invece ricordato in una noticina, dicendo che si trattava di uno scritto «molto vecchio» e «indice evidente del disinteresse in cui è caduto l’argomento» (queste sono proprio le sue esatte espressioni).
Come si vede, tra la “vecchia” e la “nuova” Direzione del cittadino Museo Manzoniano è in corso una gara a chi — ognuno con le proprie caratteristiche — riesce a passare alla storia come il più nocivo alla memoria di Manzoni e di Stoppani.
Ma, dato il giusto riconoscimento ai professionisti del grottesco museale, prima di tornare al nostro tema centrale, il lettore ci consentirà di dire solo due parole:
a/ sulle conseguenze che ebbe per l’Abate Stoppani l’aver posto il poemetto “Il Trionfo della Libertà” tra gli elementi portanti della comunicazione per la promozione del Monumento a Manzoni in Lecco;
b/ sulla conoscenza del libro di Stoppani da parte di Giosuè Carducci (il protagonista di questa nostra Nota, attorno a cui tutto ruota).
c/ su uno caso di cecità collettiva che, nel suo ambito, è da considerare come veramente straordinario.
3.13 / Il “Trionfo della Libertà”, casus belli per la prosecuzione della guerra vaticana contro i rosminiani conciliatoristi.
Il lettore ricorderà che nell’articolo uscito su “Prime Letture” nel dicembre 1873, l’Abate Stoppani dava un favorevolissimo giudizio sul poemetto “Il Trionfo della Libertà” scritto dal giovane Manzoni nel 1801, ponendolo quasi a simbolo del Monumento da erigersi in Lecco.
L’Abate aveva formulato la sua lusinghiera valutazione basandosi su quanto ne aveva letto in un articolo di Teodoro Pertusati, pubblicato da “La Perseveranza” del 24 giugno 1873, nel quale del poemetto si presentavano alcuni versi e se ne dava una sintesi dei contenuti.
Cinque anni dopo, ai primissimi del gennaio del 1878, Carlo Romussi pubblicava un volume titolato “Il Trionfo della Libertà” nel quale, oltre a vari commenti dell’autore, veniva riportata per intero la composizione del giovane Manzoni.
A commento di quel volume, sul numero del 31 gennaio 1878 di “Leonardo da Vinci, periodico illustrato di educazione e diletto” (rivista milanese della tendenza più conservatrice del Vaticano, diretta e gestita da don Davide Albertario), nella rubrica “Bibliografia” e a firma del sacerdote G. Barbieri, venivano presentate due pagine titolate “Un oltraggio ad Alessandro Manzoni”.
L’articolo prendeva di mira alcune terzine della composizione in cui il giovane Manzoni, con ampi prestiti alla tradizione dantesca, esprimeva giudizi non proprio lusinghieri sulla Chiesa intesa come gerarchia temporale, contrapponendole gli evangelici precetti cristiani.
Alcune terzine riportate da Barbieri sono abbastanza esplicite, come la seguente (il soggetto è la Chiesa):
E nel roman bordello prostituta,
Vile, superba, sozza scellerata,
Al maggiore offerente era venduta.
Dopo illustrate le nefandezze della composizione del giovane Manzoni (in modo ancor più nefando pubblicizzate dal Romussi con lo stamparle in un libro) il commento della rivista di Don Albertario proseguiva scoprendo il vero bersaglio dell’articolo.
Ecco come procedeva il commentatore sacerdote Barbieri (evidenziazioni nostre):
«Eppure si è scritto che in questi versi si rivela lo spirito di Manzoni “uno spirito in cui ha già messe profonde radici il sentimento del giusto, l’amore della vera libertà, il culto della patria, lo sdegno della tirannia e del fanatismo, l’entusiasmo per quanto v’ha di grande, di buono, di bello in sulla terra.”
.
E chi giunse a scriver così? Voi lo crederete qualche liberale o framassone di tre cotte, ma no, non fu che un prete, più geologo forse che prete, ma prete, l’abate Stoppani nel suo lavoro “I primi anni di Alessandro Manzoni”.
.
Dopo che un prete sottoscrive in modo così franco ed esplicito a sì orride ingiurie contro quella Chiesa che gli ha conferito il sacerdozio, mi sembran più nulla le scempiaggini e le bestemmie onde l’avv. Romussi ha rimpinzo alcuni articoli che premise a questo poemetto manzoniano, tanto per ingrossarne la mole.»
Dopo qualche commento poco lusinghiero di nuovo a Romussi, l’articolo si concludeva con queste parole:
«Il libro dunque è pessimo sotto ogni aspetto, è pessimo anche nonostante il giudizio di abati. Che anzi può esser questo stesso giudizio un criterio per giudicare anche di questi abati, geologi e non geologi, i quali nel parlare di cose religiose si trovano troppo sovente d’accordo con avvocati o giornalisti più o meno scredenti, più o meno empi.»
Non possiamo qui sviluppare il perché di questo attacco allo Stoppani (ci torneremo a fondo in altra occasione).
Vorremmo però evidenziare come le scelte di comunicazione, presentate dall’Abate tra la fine del 1873 e i primi del 1874 a sostegno della realizzazione del Monumento a Manzoni in Lecco, avevano un contenuto politico e culturale ben definito che in certi ambienti non garbavano neanche un poco.
Tanto da farne il casus belli di uno scontro che fece storia e che vide come protagonista l’Abate Stoppani proprio negli anni cruciali per la realizzazione del Monumento a Manzoni in Lecco.
3.14 / Carducci conosceva il libro di Stoppani sul giovane Manzoni?
Certo che sì!
Grazie alla cordiale e più che disponibile collaborazione di “Casa del Carducci” di Bologna (cui dobbiamo interessanti elementi di questa vicenda, ancora grazie ai suoi intelligenti funzionari) sappiamo che nella biblioteca di Carducci è conservato il libro “I primi anni di A. Manzoni” pubblicato dall’Abate nel 1874.
Sappiamo anche (lo abbiamo già anticipato) che il libro ricevette una “Menzione Speciale” al IX Congresso Pedagogico che si tenne a Bologna nel settembre dello stesso anno e che — presumiamo — sarà stato seguito con attenzione del professor Carducci.
Quindi la risposta alla domanda è: sì, certamente Carducci conosceva il libro di Stoppani sui primi anni di Manzoni.
Se Carducci l’11 ottobre 1891 avesse voluto entrare nel merito della vicenda di quel monumento, avrebbe certo avuto modo di dirne un qualche cosa di più significativo (e degna del suo talento) che non sia stato quel suo girare e rigirare il gilet.
Prima di tornare alla cronaca lecchese dell’11 ottobre 1891, vorremmo porre ai lettori una riflessione su un aspetto particolare dei due scritti di Stoppani dedicati alla prima parte della vita di Manzoni.
3.15 / Un errore vistoso che è anche un caso di cecità collettiva.
L’articolo di Stoppani sull’infanzia di Manzoni, pubblicato su “Le Prime Letture” alla fine del 1873 e poi il libro sui suoi primi anni, pubblicato nei primi mesi del 1874, non devono essere visti come analisi storiche sulla vita e l’opera di Manzoni.
Come tenne a precisare lo stesso autore, furono semplicemente il veicolo per rendere noti alcuni elementi trascurati dalla critica e dai commentatori del tempo, come il forte legame organico tra Manzoni e il territorio lariano.
Abbiamo già detto come ciò fosse dall’Abate considerato utile per creare un elemento di riferimento al progetto del Monumento a Manzoni in Lecco.
Nonostante ciò, sul piano storico avremmo tutti certo voluto che l’Abate andasse un poco più a fondo nella ricerca e collocasse meglio la famiglia Manzoni nella realtà lecchese: i contributi in proposito di Angelo Borghi e di Francesco D’Alessio hanno infatti spostato indietro di un secolo (dal 1714 indicato da Stoppani al 1614) il trasferimento della famiglia Manzoni da Barzio al Caleotto di Lecco.
Avremmo anche voluto che nel narrarci del distacco di Manzoni da Lecco l’Abate lasciasse da parte una sua evidente reticenza e ce ne dicesse le vere cause.
La storia del procuratore disonesto che aveva mandato in malora le proprietà lecchesi suona decisamente inadeguata, come ha accennato Borghi nel suo “Lecco, città manzoniana” (Lecco, 1994) definendole in attivo “almeno nel 1809”.
È certo comunque che una qualche ricerca seria in quella direzione andrebbe fatta con lo studio del materiale notarile dell’epoca — se c’era un procuratore disonesto (di cui l’Abate diede le iniziali A… G…) ci dovrebbe essere anche una procura redatta e registrata da qualcuno (ci sono in Lecco due storici di talento per questo tipo di ricerche. Al nuovo Sindaco Gattinoni suggeriamo di trovare un po’ di quattrini e finanziare un’indagine seria in quella direzione — i due storici lecchesi sono facilmente individuabili: sono quelli che non vengono mai ringraziati nella scarna documentazione del Museo Manzoniano).
Il libro di Stoppani contiene un errore di data, già rilevato negli anni da commentatori e citato opportunamente da Bonfanti nella sua intelligente “Introduzione” alla ristampa che del libro si fece in Milano nel 1986 (Cap. XII, all’inizio: “Vincenzo Monti cessò di vivere il 9 aprile 1826”. Paolo Bellezza rettificò: “… il 13 ottobre 1828”).
C’è però in entrambi i testi di cui abbiamo parlato (l’articolo per “Le Prime Letture” del dicembre 1873; il libro sui primi anni di Manzoni del 1874) un altro vistoso errore.
Che non sposta di una virgola il senso di quanto fin qui detto, ma che ci sembra opportuno segnalare sia perché anomalo per Stoppani, generalmente molto preciso in tutta la sua vasta produzione scientifico-letteraria, sia perché in 147 anni non è stato segnalato praticamente da nessuno.
Una curiosa svista divenuta cecità collettiva.
Nell’articolo del dicembre 1873 su “Le Prime Letture”, parlando delle punizioni corporali ampiamente presenti nelle esperienze scolastiche del giovanissimo Manzoni, l’Abate fa una battuta molto discorsiva sulle punizioni in generale e si riferisce all’opera più conosciuta di Cesare Beccaria.
In nota alla pagina, Stoppani cita correttamente sia il titolo (“Dei delitti e delle pene”) sia la data della sua prima edizione (1764). Nell’indicare il legame tra l’autore e il giovane Manzoni inciampa però malamente e definisce Cesare Beccaria “zio” di Manzoni, quando era a tutti perfettamente noto — e ovviamente anche a Stoppani — esserne invece il “nonno” (p. 411, evidenziazioni nostre):
«Qual meraviglia? Quanti anni eran corsi dacché l’illustre zio di Lisandrino aveva pubblicato il celeberrimo libro “Dei delitti e delle pene”? 27 anni o giù di lì.»
Troviamo il medesimo errore (e con le identiche modalità testuali) anche nel libro “I primi anni di A. Manzoni” uscito qualche mese dopo, nel primo semestre 1874.
Ma nel libro l’errore viene raddoppiato e Cesare Beccaria viene definito “zio” di Manzoni anche in un altro contesto (evidenziazioni nostre):
«[…] non posso salvarmi dal sospettare che l’episodio di Geltrude, uscito dalla penna di Alessandro Manzoni, non abbia esercitato contro la monacazione forzata quell’influenza che il libretto di suo zio esercitò contro la tortura.»
Come si diceva, e quantomeno a che ci risulta, in 147 anni solo Bonfanti ha ritenuto opportuno evidenziare questo strafalcione da matita blu, dandone una interpretazione che di primo acchito potrebbe apparire abbia un qualche fondamento.
Secondo Bonfanti l’errore di Stoppani può infatti essere visto come un vero lapsus, rivelatore forse di come nell’ambiente ristretto dei “manzoniani” circolasse l’ipotesi di una paternità naturale di Alessandro da parte di Giovanni, il più giovane dei fratelli Verri.
Siccome è noto che l’opera “Dei delitti e delle pene” è stata scritta almeno a quattro mani (Cesare Beccaria insieme a Pietro Verri), secondo la suggestione di Bonfanti, l’Abate avrebbe creato inconsciamente una sovrapposizione di ruoli, assegnando al Verri (uno degli autori reali dell’opera e insieme fratello del possibile padre naturale di Alessandro) il ruolo di “zio”.
Bonfanti non ci calca la mano e lascia “agli esperti” delle questioni manzoniane lo scioglimento del problema.
Sicuramente anche Bonfanti, come persona di buon senso, avrà ritenuto non valesse la pena di trasformare in montagna un mucchietto di sabbia, dal momento che una cosiddetta “questione” della paternità di Manzoni cominciò a porsi solo 30 anni dopo la morte dello scrittore, senza che per tutta la sua lunga vita nessuno ne dicesse pubblicamente alcunché o che una tale questione sia mai emersa in qualche modo nella vita e nelle opere dello scrittore.
Era infatti pacifico che “padre naturale e di diritto” di Alessandro fosse Pietro Manzoni. Il quale infatti lo trattò sempre come un figlio, facendosi carico anche del ruolo di “madre”, data la latitanza della propria moglie Giulia, impegnata in altri legami sentimentali, vissuti ben lontano da Milano o Lecco.
Su questa questione abbiamo già scritto qualche anno fa una Nota (vedi QUI) che per il momento ci sembra dia alle chiacchiere sulla paternità naturale di Giovanni Verri il quasi nullo valore che loro compete e quindi non ne diciamo altro.
Rileviamo comunque con soddisfazione che alcune nostre osservazioni sul tema sono considerate con attenzione almeno dalle persone serie (vedi per esempio, quanto scrivono Scotti e D’Alessio nella scheda I.7, p. 120, del Catalogo “Manzoni nel cuore”).
Quanto agli “esperti” (su cui forse Bonfanti si faceva troppe illusioni), quelli di Milano, interessati a che il Manzoni sia un brand solo milanese (mei bastard ma milanes), per il momento si sono fermati ai “si sapeva” di Jone Riva e alle sue considerazioni sui ritratti donati, purtroppo senza alcuna base documentaria e di pura fantasia.
I vari Direttori del Museo di Lecco, da veri valvassini della ricca metropoli, come al solito incerti tra il nulla e il grottesco, in modo irresponsabile sono giunti a scrivere nel pannello “Il giovane Alessandro e il suo rapporto con Lecco” della Sala 2 del Museo:
«È molto probabile che il padre naturale di Alessandro fosse in realtà Giovanni Verri, con cui Giulia Beccaria aveva intrecciato una relazione intorno al 1780, proseguendola anche dopo il matrimonio.»
Siccome “molto probabile” non segnala semplicemente l’esistenza di diverse ipotesi ma è una precisa scelta di campo; e siccome nessun vivente può escludere a priori di non discendere da un padre “naturale” diverso da quello “ufficiale”, ai milanesi detentori della borsa e ai loro valvassini lecchesi proponiamo di fare un bel Convegno (con la “C” maiuscola) sul tema.
Ma un Convegno serio, scientifico, da storici — non da chiacchieroni o da angeliche comari. In modo che poi anche su questo tema, in sé irrilevante, si possano condividere idee serie e non baggianate di mediocrissima convenienza o di codarda insipienza — attendiamo nuove dagli appena citati.
Ma torniamo a noi.
La suggestione di Bonfanti, a prima vista intrigante, a ben considerare, si dimostra però parecchio debole.
Bonfanti infatti si basa esclusivamente sul libro “I primi anni di Manzoni” del 1874, ignorando il precedente dell’articolo della fine del 1873.
Il libro sui primi anni di Manzoni, uscito nel 1874, è firmato dal solo Stoppani; il quale può avere preso tutte le cantonate del mondo, suggestionato da chissà quali “verità”, dette a mezza voce proprio dai fedelissimi di Manzoni.
Ma il vero problema è che quell’errore — lo ripetiamo — era stato reso pubblico già nel primo articolo del dicembre 1873 de “Le Prime Letture”, una rivista molto letta da un pubblico selezionato.
Della rivista Stoppani era un apprezzato collaboratore fisso (ci ha anticipato quasi il 70% de “Il Bel Paese”) ma il quindicinale era gestito da una redazione composta da diversi intellettuali di primo piano come Camillo Boito, Ulisse Poggi, Rinaldo Ferrini, Giovanni Rizzi, Stefano Palma, Giovanni Pennacchi, Policarpo Petrocchi, Giulio Tarra, Luigi Vitali, ovviamente Antonio Stoppani.
E, soprattutto, era condotto dal già citato direttore/editore/proprietario Luigi Sailer: un pignolo di prima categoria che verificava di persona e parola per parola l’intera rivista.
Anzi era generalmente proprio Sailer a compilare le note “scolastiche” a piè di pagina dei contributi dei vari collaboratori: è quindi assolutamente probabile che sia stato proprio lui a compilare quella relativa al “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria — senza accorgersi di quel maledetto “zio”.
Senza contare che l’articolo di Stoppani (lo abbiamo visto sopra) era preceduto da una presentazione dello stesso Sailer che rievocava la propria confidenza con Manzoni: si trattava quindi di un “pezzo” considerato di grande importanza per la rivista e la sua fisionomia.
E come è possibile che tutti questi intellettuali, abituati anche per mestiere a leggere e studiare, non si siano accorti di quella macroscopica svista di Stoppani?
Da considerare inoltre che “Le Prime Letture”, stampata pensiamo in 3-4.000 copie, aveva un pubblico di destinazione super qualificato, composto da insegnanti di vario livello tra cui docenti universitari, signore colte della buona società, avvocati, sacerdoti, ecc. ecc. tutte persone abituate a leggere, e a leggere con attenzione.
Nel caso in questione, poi, l’articolo di Stoppani su Manzoni sarà stato compulsato con estrema attenzione da amici e nemici: come è possibile che nessuno se ne sia accorto segnalandolo a Stoppani o alla redazione, a evitare di ripetere l’errore, come poi si verificò con il libro?
Oppure che nessuno lo abbia usato come corpo contendente contro Stoppani (abbiamo già visto quali reazioni rabbiose suscitò questa sua rievocazione di Manzoni!)?
E la famiglia Manzoni? Vittorina Brambilla, la nipote prediletta di Alessandro, che consentì all’Abate di consultare i manoscritti degli Inni Sacri, da cui Stoppani trasse i ben noti inediti, quell’articolo lo avrà letto o no?
E Giorgini, il noto e stimato intellettuale genero di Manzoni? E Giulio Carcano, Ruggero Bonghi e Cesare Cantù? E, prima di tutti, Natale Ceroli, la fonte primaria di Stoppani su Manzoni? Lo avranno pur letto questo articolo!
E a Lecco? di certo se lo saranno letto tutti i membri di Giunta e i magnifici sette del Comitato, con il Sindaco Resinelli in testa — era o non era il “manifesto” per la campagna del Monumento a Manzoni?
Insomma potremmo fare una lista ben lunga di lettori eccellenti di quell’articolo. Ma nessuno si accorse della svista — o della castronata, diciamolo pure, con tutto il rispetto per l’Abate.
Eppure andò così. Cose curiose della repubblica delle lettere!
Alla luce di questo dato, diremmo di potere escludere l’ipotesi abbozzata da Bonfanti di un lapsus legato alla questione genitoriale di Manzoni: saremmo costretti a pensare a un mega lapsus collettivo in cui erano precipitati in quel finire del 1873 e i primi del 1874 centinaia di intellettuali, molto legati alla figura di Manzoni. Difficile pensarlo.
D’altra parte, di questa cecità collettiva francamente non sappiamo cosa potere dire se non trovare una conferma della assoluta necessità di essere attenti, attentissimi quando si maneggiano idee e parole. E della assoluta necessità che ognuno dia il suo contributo. E che certe teste di legno, anziché risentirsi delle osservazioni che svolgiamo nelle nostre Note, le accolgano col sorriso e ce ne rendano grazie!
Per quanto riguarda la svista originaria dell’Abate, ci siamo fatti invece un’altra idea.
In realtà Manzoni aveva un Beccaria che gli era del tutto legittimamente “zio”.
Non era ovviamente Cesare Beccaria. Era suo figlio Giulio, fratello minore di Giulia, madre di Alessandro.
Quindi, a tutti gli effetti, ZIO di Alessandro Manzoni.
Dei due marchesi Beccaria, strettamente legati a Manzoni, lo zio ha fagocitato il nonno.
È noto che, in seconde nozze, da Anna Barnaba Barbò, Cesare Beccaria ebbe nel 1774 un figlio maschio, di nome Giulio, che ne ereditò il titolo di “marchese”.
Come fratello di Giulia, madre di Alessandro Manzoni, il marchese Giulio Beccaria fu quindi, a tutti gli effetti, “ZIO” dello scrittore.
Anche per la piccola differenza di età (Giulio aveva solo 11 anni più di Alessandro), dopo una prima fase di dissapori con la sorella Giulia (legati all’eredità del padre Cesare), tra il marchese Giulio Beccaria e il nipote Alessandro Manzoni i rapporti furono sempre ottimi, troncati solo dalla morte del marchese nel 1856.
Giulio Beccaria, forse non un talento intellettualmente ma persona seria e onesta, fu sempre cordialissimo con il nipote Alessandro che lo corrispose sempre con amicizia e affetto, chiamandolo nella corrispondenza di famiglia “carissimo zio” (Giulio si occupava anche di aspetti dell’amministrazione dei Manzoni).
Così come “carissima zietta” fu sempre per tutta la famiglia Manzoni la moglie di Giulio, Antonietta Curioni, di 10 anni più giovane del nipote.
Non è improbabile che l’Abate Stoppani, nel compulsare (grazie a Natale Ceroli) il carteggio dell’appena defunto Manzoni, si sia spesso imbattuto in quei “carissimo zio” destinati al “marchese Beccaria”; e in quei tanti “carissima zietta” indirizzati alla di lui moglie “marchesa Beccaria”. E che questi appellativi gli siano rimasti in testa, inducendolo a definire “zio” il “nonno”.
Non è un granché come spiegazione, ma ha un minimo di valore oggettivo — che naturalmente in nulla può comunque giustificare lo svarione dell’Abate.
Naturalmente tutto ciò pone comunque il problema — problema serio — del perché nessuno dei tanti che hanno utilizzato in lungo e in largo quel libro nel corso di oltre un secolo (Bonfanti scriveva nel 1986) si siano accorti di quell’errore — o abbiano ritenuto di doverlo segnalare o correggerlo quando si poteva.
Fino all’ultima curata da Bonfanti (Milano, 1986) nella quale l’errore è segnalato (anche se solo nelle note del curatore e non a piè di pagina — quindi non in modo particolarmente visibile), nelle 10 tra ristampe e riedizioni che si sono succedute dalla prima edizione del 1874 (Cogliati 1894, 1910, 1923 / Bartolozzi, 1955 / Edizioni Paoline 1961, 1962, 1963, 1964, 1966 / Bartolozzi, 1981) compare infatti sempre quel benedetto “zio” Beccaria a surrogare il “nonno” Beccaria, senza uno straccio di nota a chiarire la cosa (grazie ai cortesi e attivissimi funzionari della Biblioteca Pozzoli di Lecco e della Biblioteca Federiciana di Fano, per la collaborazione rapida e fattiva nella verifica di questo particolare nelle diverse edizioni dell’opera dell’Abate).
Alla prossima edizione (vedremo di farla noi, in occasione del bicentenario dalla nascita dell’Abate, 2024) daremo un taglio a questa stupida svista (con tanto di nota filologica, naturalmente) e daremo finalmente a Cesare quel che è di Cesare: era “nonno” di Alessandro? e così sia ricordato.
In questa prima parte della nostra ricostruzione, dedicata alla storia del Monumento in Lecco, abbiamo detto almeno l’essenziale sul taglio culturale e politico che l’Abate intese dare fin dalle prime battute alla sua opera di comunicazione e promozione a favore del progetto.
Passiamo ora a tratteggiare rapidamente le fasi successive dell’iniziativa, rinviando anche alla nostra Nota del 6 ottobre 2016 (“125º anniversario del Monumento a Manzoni in Lecco”).
Passeremo poi a illustrare in dettaglio quanto avvenne domenica 11 ottobre 1891, giornata nella quale venne inaugurato il Monumento a Manzoni e che vide anche la presenza di Carducci — ma con un peso e con modalità del tutto diverse da ciò che viene dato dalla vulgata dominante e dalla Direzione scientifica del Museo Manzoniano di Lecco.
4. L’Abate Stoppani, mente, braccio e guida per il Monumento a Manzoni in Lecco.
Il “memento” de “La Cronaca” di Lecco del 10 ottobre 1891 sembra scritto apposta per la Direzione scientifica del Museo Manzoniano.
Allora era ben chiaro a tutti che il ruolo dell’Abate Stoppani non era stato quella di un vago “ispiratore del Comitato Promotore”, come detto nel pannello della Sala 9, con una significativa falsificazione del dato storico.
Vi era la consapevolezza che quell’opera raffigurante Manzoni era il monumento a un’idea di società e di collettività nella quale la grande maggioranza dei lecchesi si riconosceva e che era stata per 17 anni proposta in una lunga teoria di azioni e di momenti di chiarimento proprio da quell’Abate Stoppani che oggi si vuole cancellare dalla vicenda di Manzoni.
Dopo la Delibera comunale del 24 maggio 1873, sotto l’impulso del gruppo dei 7 designati dal Comune, si cominciarono a raccogliere fondi.
Per non sovrapporsi all’analoga iniziativa lanciata dal Comune di Milano per una statua al Manzoni nella città meneghina, il progetto lecchese venne sospeso; i fondi raccolti congelati in banca.
Eretto con grande ritardo (1883) il monumento di Milano, si ripartì con il progetto di Lecco.
Lo si interruppe di nuovo per la morte di Garibaldi (2 giugno 1882): i suoi simpatizzanti di Lecco, in pieno accordo con l’Abate Stoppani e il Comitato promotore, lanciarono la sottoscrizione per un monumento al condottiero; fatto il monumento a Garibaldi (16 novembre 1884) il Comitato per il monumento a Manzoni riprese l’attività.
Su impulso e direzione dell’Abate venne lanciata una campagna nazionale di raccolta fondi per un monumento allo scrittore che fosse eccezionalmente visibile e di grande qualità artistica.
Il “memento” de “La Cronaca” di Lecco del 10 ottobre 1891 sembra fatto apposta per la Direzione scientifica del Museo Manzoniano.
Allora era ben chiaro a tutti che il ruolo dell’Abate Stoppani non era stato quella di un vago “ispiratore” del Comitato promotore, come detto nel pannello della Sala 9, con una significativa falsificazione del dato storico.
Vi era la consapevolezza che quell’opera raffigurante Manzoni era il monumento a un’idea di società e di collettività nella quale la grande maggioranza dei lecchesi si riconosceva e che era stata per 17 anni proposta in una lunga teoria di azioni e di momenti di chiarimento proprio da quell’Abate Stoppani che oggi si vuole cancellare dalla vicenda di Manzoni.
4.1 / Pochi quattrini dalle Istituzioni; numerosi i contributi dei singoli cittadini di ogni ceto ed età.
Facendo leva anche sul centenario della nascita di Manzoni (7 marzo 1885) si cominciarono a raccogliere sottoscrizioni da tutta Italia: vi fu un discreto contributo da parte di singole personalità (per esempio l’Imperatore del Brasile don Pedro de Alcantara); della nostra Casa reale (che contribuì con oggetti di valore da porre all’asta), di famiglie di alta condizione sociale simpatizzanti di Manzoni e di Rosmini.
Il grosso dei fondi venne però da singoli cittadini di ogni condizione sociale: per esempio ben trecento bambini delle elementari di Lecco diedero il loro piccolo contributo; molto attivi furono i sacerdoti del lariano, simpatizzanti per le idee rosminiane di Manzoni e di Stoppani.
Gli artigiani e i commercianti della zona si attivarono, così come le associazioni popolari di mutuo soccorso.
In tutto vennero fatte 2.885 sottoscrizioni (le abbiamo tutte registrate: chi, dove, quando, quanto).
Con grande dispiacere dell’Abate Stoppani, le Istituzioni furono invece pressoché assenti, a parte un tardivo e modesto contributo del Ministero dell’Istruzione (500 lire); venne qualcosina da singoli professori dalle università di Messina (su impulso di don Carlo, fratello dell’Abate, insegnante di storia naturale al liceo di Modica) e dall’Università di Pavia (vi insegnava don Buccellati, fervente manzoniano e amico fraterno dell’Abate); non molti intellettuali parteciparono all’iniziativa.
Tra questi è però da ricordare il lecchese Antonio Ghislanzoni.
4.2 / Musicisti e cantanti si mobilitano guidati da Antonio Ghislanzoni, grande ammiratore di Manzoni e già da vent’anni suo efficacissimo promotore in Lecco.
Teresa Brambilla Ponchielli
Appena riprese le attività del Comitato Ghislanzoni scrisse al cugino Stoppani.
La lettera è interessante non solo per le notizie sugli anni passati ma anche perché in poche parole Ghislanzoni definì con precisione uno degli aspetti di questo monumento:
«Il genio è ciò che vi ha di più eminentemente democratico, qualora la sua gran luce si espanda su tutti. Tutti gli operai del territorio dovrebbero dare una pallanca ad onore di chi ha creato quel bel tipo di onesto ribelle che era Renzo Tramaglino.»
Se Giosuè nel 1891 non fosse stato l’ormai spento Senatore Carducci, avrebbe potuto bene ispirarsi a questa bella frase del Ghislanzoni per tracciare anche con le poche parole di un brindisi uno degli aspetti caratteristici del monumento a Manzoni.
«Caprino Bergamasco, 4 dicembre 1884
.
Pregiatissimo Sig. Stoppani,
Buonissima l’idea di far risorgere il progetto di un monumento al Manzoni. È ad augurarsi che questa volta i nostri concittadini di ogni classe rispondano al nobile appello; un secondo insuccesso sarebbe indecoroso. Nell’anno 1873 io non raccolsi che firme; e su queste, dopo tanto tempo trascorso, non mi è lecito di fare assegnamento. Molti dei firmatari sono morti, altri sono andati non so dove, in fine, per tutti è un debito prescritto. A quell’epoca, il Municipio di Lecco, votò, se ben ricordo, l’erogazione di Lire 3000 a favore del monumento; qualche membro del Comitato versò nella cassa del Comune le somme raccolte.
Se quel denaro fu versato, come allora si disse, alla Cassa di Risparmio, oggi, cogli interessi decorsi, si avrebbe già un fondo di circa L. 7000. Converrà dunque raccoglierne altrettante, o poco giova; e mi pare che adoprandosi tutti di buona volontà, l’intervento possa ora bene essere raggiunto. Io farò quanto potrò; il mio illustre amico Don Antonio potrà più di me, quindi moltissimo. Sarebbe utile che il Comitato si componesse di molti membri, eletti ora in ogni classe.
.
Il genio è ciò che vi ha di più eminentemente democratico, qualora la sua gran luce si espanda su tutti.
Tutti gli operai del territorio dovrebbero dare una pallanca ad onore di chi ha creato quel bel tipo di onesto ribelle che era Renzo Tramaglino.Vedo che Ella è animato di buon volere, e spero che questo sarà appoggiato dal sentimento cittadino. La ringrazio di aver serbato memoria di me, e la prego di contare, ora quanto valgo, sulla mia cooperazione al nobilissimo intento.
.
Con stima salutandola
Di Lei Devotissimo
Antonio Ghislanzoni»
Oltre a Ghislanzoni, tra gli altri musicisti, si mobilitarono Verdi (con un generoso contributo, sollecitato e raccolto personalmente da Stoppani) e la cantante Brambilla Ponchielli (che tenne una mattinata musicale a favore dell’iniziativa).
Sul fronte degli intellettuali di penna, il giornalista e Senatore Romualdo Bonfadini che tenne in Lecco l’8 marzo 1885, centenario della nascita di Manzoni, una apprezzatissima conferenza il cui testo fu poi ampiamente venduto in tutta Italia a pro’ del monumento.
Molto attivo fu il Senatore Gaetano Negri, positivista e darwiniano come orientamento filosofico e scientifico; sindaco di Milano dal 1884 al 1889; già co-autore con Stoppani e Mercalli nell’opera “L’Italia geologica” edita da Vallardi, di entrambi amico sincero ma soprattutto persona di buon senso e intellettualmente onesta.
Il giovane Mario Cermenati (la foto lo ritrae ovviamente molto più maturo) tenne invece una bella e affollata conferenza (“I Nostri monti”) al Teatro Sociale di Lecco il 16 marzo 1890 i cui ricavati andarono tutti al monumento.
Così come Gaetano Negri, il giovane Cermenati aveva accettato di buon grado di collaborare sia per il genuino amore che lo legava a Lecco sia per l’ammirazione che fin da adolescente ebbe per l’Abate Stoppani.
Il quale di lui ragazzino diceva: su certe cose ne sa molto più di me, non dico per celia.
4.3 / Da Bologna assente l’Università e Carducci.
Da Lecco assenti gli Scola.
Non versò un soldo l’Università di Bologna (dove Carducci insegnava dal 1860) né nulla fece per la sua promozione. Da notare che in quell’Università insegnava (e ne fu Rettore in due riprese) il geologo Giovanni Cappellini, grande amico anche personale di Carducci; da lui il poeta/professore sapeva certo tutto della vita e delle attività dell’Abate Stoppani.
Dal 1861 Cappellini e Stoppani erano infatti in strettissimo contatto collaborando con ruoli di responsabilità in diverse iniziative geologiche promosse dal Governo, con un rapporto di amicizia-rivalità che durò fino alla morte dell’Abate (sulle problematiche petrolifere Capellini aveva imparato tutto da Stoppani, il quale, a metà scherzoso, a metà no, a fine anni ’70 scriveva a un amico “Anche oggi Capellini è venuto a ficcare il naso nel mio pozzo”).
Non versarono un soldo né nulla fecero per il monumento gli Scola di Lecco, che proprio allora cominciavano a considerare l’opportunità di presentarsi come custodi dei quattro arredi superstiti di quella che era stata la casa dei Manzoni.
Per non sbagliarsi stavano però dalla parte del clero intransigente, ossia contro Alessandro Manzoni, e si appoggiavano alla torva figura di Cesare Cantù, già nel 1840 respinto da Manzoni e, da vecchio, decisamente reazionario.
Non solo gli Scola non versarono un soldo ma remarono anche contro le iniziative del Comitato cittadino per il Monumento diretto dall’Abate.
Nel marzo 1885, per i 100 anni dalla nascita di Manzoni, il Comitato lecchese aveva organizzato una brillantissima conferenza di Romualdo Bonfadini, il cui testo fu poi stampato e venduto a pro’ del Monumento in migliaia di copie.
Gli Scola — contemporaneamente e in concorrenza — organizzarono al Caleotto una “Ricreazione Letteraria-Musicale”, gestita dal professor Giuseppe Rizzini, pensata e realizzata in aperto contrasto con l’attività di tutta la comunità di cui erano parte.
Tanto per non essere fraintesi, il discorso che Rizzini tenne a Palazzo Scola al Caleotto si intitolava: «Il Caleotto, degno e naturale monumento alla gloriosa memoria del Manzoni», sottintendendo che l’iniziativa per il Monumento a Manzoni in Lecco gestita dall’Abate Stoppani era superflua e inutile.
E bravi gli Scola!
Il comico Rizzini.
C’è un risvolto per cui sorridere di questa iniziativa.
Come già anticipato, l’intellettuale di riferimento della “Ricreazione Letteraria-Musicale” organizzata dagli Scola era il prof. Rizzini.
Il quale, già contattato in gennaio dal Comitato Promotore per il Monumento, aveva rifiutato di aderirvi con una motivazione abbastanza da commedia dell’arte (ma di quella bassina) con il testo che qui proponiamo (evidenziazioni nostre):
«Lecco, il 21 genn.º 1885
Onorevolissº Sig. Sindaco della Città di Lecco.
Per la prima volta che sono chiamato a far parte di una commissione, per ragioni di amor proprio, mi dispiace di non potere accettare; imperocchè, nella lista delle persone scelte a comporre il Comitato per l’erezione d’un monumento al Manzoni, trovo il mio nome segnato per l’ultimo, il che prova che per l’ultimo è venuto nella mente dei Sig.ri della Giunta, incaricati di compilarla, e che vi è stato messo solo per il bisogno di coprire il numero trenta.
M’è caro l’incontro di protestarle la mia profondissima stima e dichiararmi
Della S.V. Onor.ª Devotissº. Servitore
Prof. Gius. Rizzini.»
Ma ancor più comica è la risposta all’invito pervenutogli dal Comitato di ritirare queste strampalate dimissioni:
«Lecco, 1 febbraio 1885
Esimio Sig. Vice Presidente,
Ho ricevuto il pregiato suo foglio, il data del 27 dello scorso mese [gennaio 1885], e la ringrazio dell’invito che mi rivolge di ritirare le mie dimissioni all’incarico di membro del Comitato pel Monumento al Manzoni, ma con rincrescimento le rispondo che non mi sento disposto ad assecondare il desiderio suo e del Comitato Esecutivo; perché le mie dimissioni sono già state anteriormente accettate. Infatti, nella prima adunanza del Comitato Generale, si diede lettura della mia rinuncia, e l’adunanza ne prese atto, e da parte di alcuni membri in un modo anche troppo significativo; e da nessuno venne fatta la proposta d’invitarmi a ritirarla. […]
In realtà, a parte gli aspetti caricaturali del prof. Rizzini, che evidentemente avevano suscitato ilarità in alcuni membri del Comitato Promotore, vi era una questione di fondo già chiara da quasi un mese.
Mentre il Comitato per il Monumento a Manzoni si dava una solida struttura operativa e cominciava a organizzarsi per la raccolta fondi, in Lecco si attivava un “Comitato per il Pio legato Alessandro Manzoni e Lapide Commemorativa” avente come Presidente Onorario il Sac. D. Pietro Galli, Pro. Parr. Vicario Foraneo di Lecco e come Vice-Presidente Pio Scatti.
Questo Comitato il 10 gennaio 1885 emanava uno stampato che così cominciava:
«Ill.mo Signore,
Sarà venuto a cognizione della S.V. Ill. come in seguito alla deliberazione presa dal Consiglio Comunale di Lecco in seduta del 5 corr. Gennaio circa l’erezione di un monumento ad Alessandro Manzoni, essendo d’essa ispirato ad idee politiche ed antireligiose, si è costituito un Comitato allo scopo di rendere onore al sommo Ietterato, prescindendo da ogni idea politica. Fu stabilita a questo fine la fondazione d’un Pio Legato in favore dei cronici della Città e Pieve di Lecco, sotto il nome di Pio Legato Alessandro Manzoni e l’apposizione di una lapide commemorativa. […]»
Come si vede, nel posizionarsi come “conservatori della memoria di Manzoni” gli Scola, avevano opportunamente scelto i referenti più reazionari e maliziosi.
Solo per inciso: dal Museo Manzoniano è stato sistematicamente cancellato l’Abate Stoppani, l’unica personalità che alla morte di Manzoni seppe proporre e consolidare nella coscienza collettiva nazionale il legame tra lo scrittore e Lecco.
Ma agli Scola è stata dedicata l’intera Sala 4, pretendendo addirittura di equiparare a quella di Manzoni questa famiglia, (degnissima si intende) non solo senza nessunissimo ruolo in generale nella vicenda manzoniana ma addirittura schierati nel 1885 contro chi lavorava per il Monumento a Manzoni (ma di tutto questo e in dettaglio in altra Nota).
Alla fine di tre anni di intensa attività promozionale, grazie alla costante pressione dell’Abate Stoppani, che mise in campo tutta la propria influenza e le tante conoscenze, e alla tenacia del Comitato cittadino formato da un ampio arco di tendenze politiche (con la sola esclusione del clero conservatore), si raccolsero i fondi sufficienti per realizzare un grande monumento — si disse poi “degno di una grande città” — in quella che l’Abate definì la “minima tra le città d’Italia” (Lecco aveva allora circa 20.000 abitanti).
Al rendiconto del 29 luglio 1892, risultavano raccolte Lire 41.373,42; uscite Lire 41.163,3 (di queste 31.000 per il monumento vero e proprio). Il residuo attivo di Lire 201,12 venne accantonato per il futuro monumento all’Abate Stoppani.
Per avere una idea del valore “sociale” (non tecnico monetario, attenzione) possiamo dire che le entrate furono equivalenti ai nostri 2 milioni di euro (fatto Lire 450 e Euro 23.000 il salario medio annuale del 1891 e del 2019).
Sotto la direzione sempre ferma e vigilante dell’Abate Stoppani, dopo una gara senza risultato, venne individuato l’artista Confalonieri (che aveva già realizzato in Lecco il monumento a Garibaldi) e decisa la collocazione e configurazione della statua: Manzoni seduto come compete a un uomo di pensiero, con alle spalle il Resegone nel punto di incrocio delle strade di accesso alla città; alla base tre altorilievi raffiguranti momenti del romanzo in forme schiettamente pedagogiche: il ratto di Lucia (sul ruolo salvifico della donna); l’incontro al Lazzaretto di Renzo con Don Rodrigo (il perdono come soluzione dei conflitti); il matrimonio di Renzo e Lucia (la vittoria degli umili).
Vi furono varie traversie tecnico-artistiche (la raffigurazione da seduto presentava problemi di fusione) che ritardarono l’esecuzione, inizialmente prevista per l’agosto 1890.
Il 1 gennaio 1891 l’Abate Stoppani moriva prematuramente a 66 anni senza vedere compiuta l’opera.
Il Comitato proseguì la sua attività anche se attenuando le posizioni dell’Abate, cui non garbavano certe assenze ingiustificate nel cooperare al monumento.
Se guardate l’altorilievo posto sul retro del monumento, potete leggere questa scritta: «I Cittadini di Lecco / nel volere e nell’opera / con tutta Italia concordi / qui / dove, ecc.».
Ma il 6 giugno 1890, su proposta dell’Abate, il Comitato aveva approvato un’altra dicitura, un po’ puntualizzante: «I Cittadini di Lecco / concordi nel volere e nell’opera / coi loro connazionali / qui dove, ecc.».
Nella versione ‘Stoppani’ risultava chiaro che non “tutta Italia” ma “i connazionali”, si erano dati da fare, che è cosa ben diversa — per esempio l’Università di Bologna mancava all’appello.
Nei capitoletti appena riportati e qui sopra, abbiamo ripreso alcuni dei documenti, anche intriganti su piano estetico, relativi alla realizzazione del Monumento a Manzoni in Lecco presenti nell’Archivio Storico del Comune di Lecco e perfettamente ignorati dalla Direzione scientifica del Museo.
È un piccolo deposito tutto e unicamente lecchese di cultura manzoniana che potrebbe costituire un elemento insieme di conoscenza per giovani e vecchi e anche di godimento estetico.
Quante sinergie se ne potrebbero ricavare da questi materiali unici e irripetibili! Non è vero museal/museografi del lariano?
5. La giornata inaugurale dell’11 ottobre 1891: il vero protagonista è l’Abate Stoppani.
5.1 / Invito al Cav. Carducci per la giornata inaugurale del Monumento: nel “Programma” non è previsto alcun suo intervento.
Per l’inaugurazione dell’11 ottobre 1891 vennero invitate tutte le Istituzioni: la Casa Reale espresse il suo benvolere; diedero la conferma alcuni deputati e senatori.
Di conseguenza, la Camera dei Deputati chiese ai membri del collegio di Como-Lecco di costituirsi in Commissione per rappresentarla a quella cerimonia.
Presidente della Commissione venne nominato Giuseppe Merzario, decano del parlamento, già amicissimo e dal 1860 stretto sodale di Stoppani (allora Merzario era redattore de “Il Conciliatore”, il giornale dei sacerdoti progressisti milanesi, della cui redazione faceva parte anche l’Abate — bisogna segnalare che Merzario era un commentatore politico di ottimo livello).
Tra i Senatori, presente anche il neo-nominato (gennaio 1891) Giosuè Carducci, invitato né come rappresentante dell’Università di Bologna né come Senatore ma come scrittore e poeta.
Questo l’invito che venne mandato all’Illustrissimo Cavaliere Giosuè Carducci (si ringrazia per la cortesia e la larga collaborazione “Casa Carducci” di Bologna).
Comitato per l’erezione di un Monumento ad Alessandro Manzoni in Lecco
Lecco, 28 settembre 1891
Ill.mo Sig.
Carducci Cav. Giusuè
Bologna
La S.V. Ill. è pregata di onorare di sua presenza l’inaugurazione del Monumento ad Alessandro Manzoni che avrà luogo il giorno 11 Ottobre prossimo come al programma qui a tergo.
Il Vice Presidente / Chierici Ing. Prof. Pierfrancesco.
*****
Il presente da accesso al teatro per la conferenza Negri, al palco inaugurale ed al Circolo Sociale di Lecco.
Programma
Mattino — Ricevimento delle Rappresentanze nel Teatro della Società;
Ore 1 pom. — Commemorazione di Alessandro MANZONI, nel Teatro della Società, tenuta dal Comm. GAETANO NEGRI, Senatore del Regno;
Ore 2 pom. — Formazione del corteo, giro per la Città e scoprimento della Lapide sulla casa ove nacque ANTONIO STOPPANI ;
Ore 3 pom. — INAUGURAZIONE del Monumento (opera dello scultore Prof. Francesco Confalonieri di Milano);
Ore 5 pom. — Banchetto Sociale all’Albergo Croce di Malta;
Sera — Luminaria della Città e Largo Manzoni;
Ore 9 pom. — Serata di gala in Teatro.
*****
Avvertenza — Coloro che desiderano prender parte al Banchetto dovranno inscriversi presso il Comitato, o presso l’Albergatore signor Albertini, entro il giorno 8 Ottobre.
“L’Inaugurazione del Monumento ad Alessandro Manzoni in Lecco”.
Il fascicolo di grande formato, stampato a cura del Comitato organizzatore lecchese, di cui per anni era stato Presidente l’Abate Stoppani, l’11 ottobre 1891 venne venduto in migliaia di copie.
Reca al suo interno il discorso che l’Abate Stoppani aveva programmato di pronunciare per l’inaugurazione, prevista inizialmente per l’agosto del 1890 e poi rinviata per un difetto di fusione della statua in bronzo — ma l’Abate morì il 1 gennaio 1891.
Di questo fascicolo, un documento importante per la storia del Monumento e per i rapporti tra l’Abate Stoppani e la figura di Manzoni, nell’intera documentazione del Museo nulla si dice, essendogli stato preferita la convocazione-fantasma del Consiglio Comunale di Bologna del 30 maggio 1890.
Si noti che il Banchetto organizzato all’Albergo Croce di Malta a cerimonie concluse non aveva carattere di ufficialità ed era aperto a chiunque fosse disponibile a pagare Lire 8 (più o meno 120 Euro).
Nel Manifesto del Comitato Promotore, riportato dal CorSera di giovedì 9 ottobre, non si fa più menzione del Banchetto, segno che probabilmente era già stato raggiunto il tetto massimo dei commensali consentito dalla struttura.
Per quella serata non dobbiamo pensare a uno di quei banchetti in cui sono essi stessi la manifestazione e in cui quindi gli interventi sono veri e propri discorsi.
In quell’11 ottobre 1891, all’Albergo Croce di Malta di Lecco si tenne invece una affollata cena con 80-100 coperti dove trovarono posto organizzatori, autorità e i paganti.
Presumiamo che una o due tavolate contigue fossero occupate dagli organizzatori dell’evento e da alcune personalità (autorità, membri del Parlamento); tra queste, Carducci.
I brindisi vennero pronunciati quindi in una grande sala affollata da commensali eterogenei che si comportavano come tutti i commensali in qualsiasi grande ristorante: mangiavano, bevevano, parlavano fra di loro, con diecine di camerieri indaffarati, ecc. A ognuno di noi sarà capitato di trovarsi in una di queste occasioni in cui si fatica a comprendere cosa dice il commensale al nostro fianco.
I dieci brindisi che vennero fatti dai tavoli degli organizzatori vennero quindi sentiti con la necessaria chiarezza solo da quelle 30-40 persone che si trovavano a distanza breve da chi si alzava a parlare, sicuramente con il bicchiere in mano.
Infatti la cronaca de Il Resegone (del 16 ottobre 1891) scrive:
«— Dei brindisi poco si può ricavare, Carducci parlò confusamente e sicché da pochissimi fu inteso. Il suo brindisi aveva per scopo di mostrare la sua conversione al culto del Manzoni. Sarà o non sarà, egli se lo peschi: voleva salvar capra e cavoli, il suo discorso fu un enigma, un rebus.»
Il commento è mediocre e da citare solo per l’osservazione che i brindisi erano poco intelligibili a causa del rumore. Sicuramente era così per il redattore del giornale del clero conservatore della città (sempre ostile al monumento a Manzoni) che di certo non sarà stato ammesso al gruppo ristretto degli organizzatori e delle personalità.
Ma parlando parlando, ci siamo portati alla fine della giornata; torniamo alla cronaca della inaugurazione.
Per tutta la mattina vi furono gli arrivi delle numerosissime delegazioni, accolte o alla stazione ferroviaria o al porto dalle varie bande musicali mobilitate per l’occasione.
Le cronache parlano di oltre 20.000 persone. Si può immaginare quindi la ressa lungo le vie principali della cittadina.
Ai passanti veniva venduto un fascicolo piuttosto corposo, che andò a ruba, titolato “L’Inaugurazione del Monumento ad Alessandro Manzoni”.
Sicuramente Carducci se lo sarà letto con attenzione.
Perché invece rimanga ignoto ai visitatori del Museo Manzoniano, la sua Direzione scientifica lo ha nascosto — il termine è perfettamente calzante — in un’altra sala e in uno dei cassettoni in cui sono collocati decine di documenti eterogenei. Quelli che possiamo definire le uniche “postazioni interattive” del Museo.
Sono i cassettoni posti nella cosiddetta Sala Manzoni Pop (anche questa denominazione meriterebbe un discorso a parte) che il visitatore può aprire e chiudere da sé, proprio come fa ogni mattino quando cerca interattivamente mutande e calzette nel comò di casa propria.
Scusi il lettore questa divagazione ma la balla sembra divenuta l’unica cifra della comunicazione di questa gestione museale.
E questa favola delle inesistenti postazioni “multimediali e interattive” al Museo Manzoniano viene ripetuta anche in documenti ufficiali del Comune, come il “Bilancio Sociale di Mandato, 2015-2020” — ci diamo un taglio con queste miserabili menzogne? Grazie!
5.2 / Il nessun ruolo di Carducci alla inaugurazione del monumento.
Per l’inaugurazione del Monumento, come chiaramente indicato nel Programma, per Carducci non era previsto alcun ruolo e il Programma venne scrupolosamente seguito.
L’unico commento relativo a Carducci al mattino dell’11, prima dell’avvio delle cerimonie, lo troviamo su “Il Lario” di mercoledì 14 ottobre, settimanale democratico e filo-garibaldino, che rifà la cronaca della giornata dell’inaugurazione.
Qui, a firma di “Io Lario”, il Vate d’Italia viene un poco strapazzato — l’articolista (per altro non bene informato sulla storia del monumento) si sente tradito dal Carducci:
«Alla Croce di Malta — assediato da una quantità di deputati e senatori — si affacciò al balcone il cesareo poeta che una volta — vero Enotrio romano — cantò Satana.
Oh quanto mutato rividi il fiero cantore dei Giambi ed Epodi, il democratico forte e convinto, l’atleta del pensiero che fra le macerie della vecchia letteratura scavò le perle d’un classicismo che non sarà più nostro!
Alla borghese giacca sostituì un eterno stifelius — ed il democratico cappello a cencio, trovò il rimpiazzo in una interminabile tuba.
L’abituale incolto onor del volto esciva allora appena dai tagli abili del parrucchiere, e sul naso del poeta brillavano gli occhiali d’oro coi quali trastullavasi come donnina amabile, levandoli e mettendoli frequentissimamente — mentre sorride con compiacenza a chi lo guarda.
Ora posa, ecco tutto. Troppo presto la Gloria — in questi tempi di nullità vanitose, s’assise vicino al Carducci. Da allora gli scritti buoni non vennero più!
A meno che si voglian tener buoni gli opuscoletti — abuso d’artificio in lotta coll’ispirazione — che, a conto della passata fama, vende a un franco per quinterno.
Ma ormai è senatore, e quella del Senato la dicono la Camera degli invalidi.
Se non fosse vero, quanto trionfo ancora per l’arte!»
Esposizioni al balcone da prima donna di Carducci a parte, come stabilito dal Comitato per il monumento, il discorso inaugurale della cerimonia fu tenuto alle 13,00 al Teatro Sociale di Piazza Garibaldi dal Senatore Gaetano Negri; il discorso, iniziato con il ricordo dello scomparso Abate Stoppani, durò circa 90 minuti; un gran numero di persone dovette stare fuori e vi fu anche qualche spintone tra gli aspiranti all’ingresso.
5.3 / Il vero protagonista ricordato in modo anche surreale: “La partecipazione dell’Abate Stoppani”.
Per dare un’idea del clima manzonian-stoppaniano che si doveva respirare in quel teatro l’11 ottobre 1891, riportiamo l’incipit della cronaca che ne fece il giorno successivo lunedì 12 ottobre il “Corriere della Sera” di Milano.
Da “Il Corriere della Sera”, 12 ottobre 1891.
_________
«L’inaugurazione
del monumento ad Alessandro Manzoni in Lecco.
La partecipazione dell’Abate Stoppani.
.
“Se è vero che i monumenti, i quali s’innalzano agli uomini veramente grandi, onorino quelli che li erigono più di quelli a cui vengono eretti, ciò si verifica in oggi, in cui questa minima tra le città d’Italia, inaugurando il suo monumento ad Alessandro Manzoni, mostra d’aver saputo levarsi ai più grandi, ai più nobili, ai più puri ideali, a cui un popolo abbia mai saputo innalzarsi.”
Così esordiva l’abate Stoppani nel suo discorso con cui intendeva consegnare il monumento al sindaco di Lecco, fin dall’agosto del 1890, credendosi alla vigilia del compimento della statua. E quando seppe che il primo tentativo di fusione era andato fallito, espresse il timore di non poter riuscire a veder l’opera tanto sospirata… Egli moriva pur troppo il primo giorno di quest’anno in cui il monumento doveva essere compiuto.
E quelle parole dello Stoppani abbiamo voluto citare poiché anticipavano il dovuto omaggio alla sua città nativa, la quale, nel pensiero dell’illustre geologo compenetrando, associava oggi alla commemorazione dell’altissimo poeta un tributo di memore affetto a colui che più efficacemente aveva contribuito ad erigere il monumento.»
_________
Ma torniamo al teatro (qui di seguito sintetizziamo la cronaca della giornata come ricavata dai testi di “CorSera”, “La Perseveranza”, “Il Resegone”, “Il Corriere di Lecco”, “Il Lario”).
Il discorso di Negri è ricavato dal CorSera; la cronaca de “La Perseveranza” rinviava il lettore al supplemento in diffusione gratuita con il giornale del 12 ottobre dove era riportato il discorso preparato da Negri qualche giorno prima della inaugurazione; in realtà Negri, pur mantenendosi fedele alla sua traccia, ne tagliò qua e là l’esposizione — anche così il discorso si sviluppò per quasi 90 minuti, sempre seguito con partecipazione (Negri era noto per le doti oratorie).
Nel corso del discorso Negri esaltò Manzoni come poeta, come romanziere ma soprattutto come politico patriota, ispiratore di tanti patrioti nel corso dei duri decenni della oppressione austriaca; un esempio di fermezza contro lo straniero reazionario; ne evidenziò il legame tra l’ispirazione politica e la fede cattolico-cristiana nella contiguità filosofica e dogmatica a Rosmini; la ferma scelta unitaria e conciliatorista, in aperta opposizione con il Vaticano più retrivo.
Alle prime battute del discorso, Negri salutò in Carducci (presente sul palco con altri Senatori e Deputati) il maggiore poeta vivente d’Italia.
Carducci si commosse e alla fine del discorso fu tra i più entusiasti nel felicitarsi con Negri il quale per 90 minuti aveva praticamente fatto a pezzi tutti gli argomenti critici e polemici da lui sfornati negli anni contro Manzoni; forse il poeta-professore di Bologna voleva ingraziarsi Negri perché gli consentisse un intervento alla cerimonia di scoprimento del monumento in piazza.
Dal Teatro si forma un folto corteo di migliaia di persone (la cronaca parla di circa 20.000 presenze) diretto al Largo Manzoni con 9 bande musicali e oltre 60 bandiere di associazioni di ogni tipo; lungo il percorso viene scoperta una lapide a Stoppani sulla sua casa natale a rimarcare i legami ideali tra l’Abate e Manzoni (a lato il discorso del Sindaco Ghislanzoni).
In piazza (secondo il programma steso dagli organizzatori con un dettaglio da stato maggiore prussiano) davanti alla statua parla brevemente Chierici, vice-presidente del Comitato organizzatore. L’oratore ricorda soprattutto l’Abate Stoppani; viene scoperta la statua; due bande intonano la marcia reale; parla brevemente il Sindaco di Lecco Ghislanzoni.
5.4 / Il tentativo di Senatori e Deputati di inserirsi nei discorsi subito bloccato dal Comitato promotore.
Tra i Deputati e i Senatori, rappresentanti il Parlamento e seduti sul palco, si comincia a discutere se uno di loro debba parlare — ma il Comitato (conoscendo i suoi polli) vigila.
Il deputato Giuseppe Merzario, in forza della funzione di Presidente della Commissione parlamentare istituita per l’occasione, interviene e risolve il dubbio col citare precedenti: le Commissioni che rappresentano Camera o Parlamento a pubbliche cerimonie non usano delegare dei loro membri a fare pubblici discorsi: qui parla solo chi è stato indicato dal Comitato promotore.
L’episodio, messo in evidenza dal CorSera, deve essere stato ben visibile a quanti erano attorno al palco delle autorità e di non brevissimo svolgimento (è probabile che Merzario abbia usato il tono che non ammette repliche).
Comunque sia, bruscamente messi in riga Senatori e Deputati, parla quindi Cipolla, Provveditore agli studi di Como con un discorso confuso e da pochi ascoltato.
La cerimonia viene conclusa verso le 16. Tutti a casa o alle bancarelle, in attesa delle feste notturne con fuochi d’artificio e cotillon.
Nel corso della inaugurazione, sia al teatro, dove fu svolta da Negri la relazione ufficiale, sia in piazza dove fu scoperto il monumento, Carducci non disse quindi una parola: da nessuno era infatti stato previsto che dicesse alcunché, al pari dei tanti presenti in rappresentanza (reale o meno) di questa o quella Istituzione.
L’episodio, messo in evidenza dal CorSera, deve essere stato ben visibile a quanti erano attorno al palco delle autorità e di non brevissimo svolgimento (forse Merzario avrà usato il tono della non-replica).
Comunque sia, bruscamente messi in riga Senatori e Deputati, parla il Provveditore agli studi di Como Cipolla, con un discorso mediocre e da pochi ascoltato.
La cerimonia viene conclusa verso le 16. Tutti a casa o alle bancarelle, in attesa delle feste notturne con fuochi d’artificio e cotillon.
Nel corso della inaugurazione, sia al teatro, dove fu svolta da Negri la relazione ufficiale, sia in piazza dove fu scoperto il monumento, Carducci non disse quindi una parola: da nessuno era infatti stato previsto che dicesse alcunché, al pari dei tanti presenti in rappresentanza (reale o meno) di questa o quella Istituzione.
5.5 / La inevitabile frustrazione di Carducci.
È possibile (post factum, diremmo “altamente probabile”) che Carducci pensasse di potere parlare pubblicamente in un qualche momento della cerimonia ufficiale.
Ne sono un indizio:
– le esagerate smancerie per Negri che gli aveva praticamente dato dei ceffoni oratori per 90 minuti (il cronista aveva messo debitamente in luce la cosa);
– la discussione tra Deputati e Senatori perché in piazza parlasse anche uno di loro: e chi meglio avrebbe potuto parlare del grande poeta defunto se non il grande poeta vivente, Senatore dal gennaio?
Come già detto, il Comitato dei lecchesi manzoniani però vigilava e l’intervento deciso di Merzario aveva bloccato tra gli onorevoli ogni tentativo di infiltrazione non richiesta in passerella — ci fossero anche oggi i Merzario!
Tutto fa pensare che già a monte qualcuno avesse ventilato un intervento di Carducci e che il Comitato, ovviamente per nulla disponibile a farsi usare da chi nulla aveva fatto per il monumento e anzi si era sempre mostrato avverso a Manzoni, si fosse mosso per tempo, facendo assegnare al fedelissimo Merzario l’autorità anche formale per dettare la linea ai colleghi del Parlamento riuniti a Lecco in quell’11 ottobre.
Carducci riuscì a parlare solo alla cena organizzata per le 18.00 all’Albergo Croce di Malta (ingresso libero, costo lire 8 — 120 Euro), e per pochi minuti, non con un Discorso (con la maiuscola, come poi contrabbandato) ma con un più modesto “brindisi”, uno tra i dieci che vennero pronunciati.
Le poche parole pronunciate da Carducci a cena già avviata, data la sua notorietà, furono variamente riprese dalla stampa.
Su “La Perseveranza” di Milano di lunedì 12 viene dedicato all’inaugurazione un lungo articolo di cronaca di cui riprendiamo la coda per la parte dedicata al fine cena e quindi anche a Carducci.
Del suo brindisi il quotidiano riporta solo qualche concetto — il giornale era piuttosto antipatizzante con il poeta/professore: proprio dalle sue colonne nel 1884 era stata lanciata l’accusa di collusione con il Ministro Coppino per il lancio dell’antologia “Letture italiane” di Carducci.
“Il professore Chierici aprì la serie dei brindisi”
«(Nostro telegramma particolare)
Lecco, 11 ottobre (ore 8,20 p.).
IL BANCHETTO E L’ILLUMINAZIONE.
Il banchetto all’Albergo della Croce di Malta, di cento coperti, è riescito ottimamente.
Il professore Chierici aprì la serie dei brindisi, chiamando il Negri il generalissimo della festa, ringraziando le Autorità intervenute, presenti e assenti, e congratulandosi collo scultore Confalonieri e col fonditore Barzaghi.
Il Carducci ringraziò per la cortesia lombarda, che rifulge nel paese dei Promessi Sposi. Si congratulò collo scultore Confalonieri, e col Negri, il quale illuminò il gran Genio italiano. Si meravigliò d’esser ritenuto da taluni nemico di Manzoni, e con abile parola fece una confessione generale manzoniana. « La Curia romana, disse il Carducci, ripudiò il Manzoni, il Rosmini e il Gioberti. Io applaudo, con voi, al Manzoni. »
Negri brindò stupendamente a Lecco, suscitando entusiasmo.
Parlò poi l’onor. Merzario.
Il prof. Ferrieri disse parole applauditissime.
Il Sindaco di Lecco ringraziò, commosso.
Brindarono poi Gattinoni sindaco di Cassano e il cancelliere Venegoni.
Cornelio brindò alla salute del Signorelli, segretario del Comitato, chiamato da Stoppani segretario generale.
Chiuse i brindisi, con elegante parola, il deputato Prinetti.
La città è stupendamente illuminata, con onore del cav. Sormani.
Lecco può scrivere con lettere d’oro la storia di questa giornata.»
Sul CorSera di Milano, sempre del 12-10, di quanto detto da Carducci troviamo invece un riassunto un poco più sviluppato, di tono decisamente rispettoso nei confronti del maggior poeta italiano, salvo una lievissima puntatina ironica nel titolo “Il banchetto — Carducci si ricrede”.
Una estrema sintesi del brindisi del poeta era stata immediatamente predisposta. Il giorno successivo, lunedì 12, il quotidiano milanese riportò questa sintesi mettendola in coda e senza firma alla lunga cronaca dell’evento.
“Parlò primo il prof. Clerici, brindando a Confalonieri, a Negri, a Carducci”
«Il banchetto — Carducci si ricrede.
Ci telegrafano poi da Lecco, 11, sera:
Il banchetto è riuscito benissimo. Erano 80 i presenti.
Parlò primo il prof. Chierici, brindando a Confalonieri, a Negri, a Carducci. Applausi vivissimi.
Il deputato Merzario pure disse qualche parola.
Poi il Carducci, richiesto, parlò splendidamente.
— Sarei accorso come uomo e scrittore: venni volentieri a rappresentare Bologna e la Romagna e a smentire la leggenda dell’avversione mia e di Romagna a Manzoni. A dieci anni sapevo a memoria gli Inni. Lessi molte volte i Promessi sposi. Letture che mi insegnarono il sentimento dell’arte. Nel triste decennio avanti il sessanta, ebbi il torto di confondere l’odio contro i tristi uccelli che impossessaronsi della grande arte manzoniana per farsene un’arma, coll’avversione a Manzoni, torto giovanile cui riparo. In Manzoni più che la dogmatica cattolica direbbesi risplendano i tre principi della rivoluzione: libertà, eguaglianza, fratellanza; sentiti da un uomo retto colla temperanza dell’arte italiana. Ammiro il Manzoni; mi dolgo che nella potenza massima del suo ingegno siasi ristato. Aveva più potenza dell’arte che Victor Hugo e Goethe, e non li invidiò: si fermò invece dopo l’Adelchi.
Teniamo però conto delle condizioni politiche. Manzoni rivolgendosi alla prosa fece gran vendetta di signorie straniere e di politica dispotica. Fu grazie a tale argomento che la Curia romana non si impossessò di Manzoni poeta che in Don Abbondio fece una creazione artistica, ma ridicola del clero. Mi ricredo. Riconosco in Manzoni il personificatore della letteratura lombarda nel secolo passato preparatorio di movimenti politici: con Parini rappresentante la moralità, con Porta rappresentante la realtà artistica, con Manzoni nella sua verità li compendia (applausi, entusiastici).
Negri parla brillantissimo applauditissimo. Poi altri pure applauditi.
L’illuminazione delle pubbliche vie è riuscita benissimo.»
5.6 / Frustrazione raddoppiata per Carducci.
Forse l’italico più grande poeta vivente — notoriamente molto sensibile ai complimenti e in quel periodo particolarmente alla caccia di conferme pubbliche — avrebbe voluto che la giornata andasse in modo diverso.
Durante il suo lungo discorso ufficiale Negri gli aveva demolito l’intero impianto delle critiche svolte negli anni a Manzoni.
Alla sera, nell’unico piccolo spazio che il Comitato organizzatore gli aveva accortamente lasciato — quello dei brindisi all’Albergo Croce di Malta — circondato da diecine di quelli che in momenti non lontani aveva definito “oche” e “bestie” manzoniane, Carducci si era sentito spinto a confermare quasi tutto il senso del Discorso di Negri (questo sì ufficiale, con la “D” maiuscola).
Per cercare di distinguersi, Carducci aveva però calcato la mano (era nota anche la sua tendenza a farsi facilmente influenzare da ciò che gli accadeva intorno) e si era lasciato andare molto in là dando del “rivoluzionario” democratico ed egualitario a quel Manzoni che egli stesso aveva definito complice della reazione europea nel lungo decennio post-48.
Per soprammercato, aveva riconosciuto a Manzoni un ruolo di guida spirituale per tutto il movimento risorgimentale che invece negli anni precedenti gli aveva sempre apertamente negato.
Per questo suo imprevisto “ripensamento”, forse Carducci si era aspettato dalla stampa un trattamento diverso.
“Bononia ridet” settimanale satirico di Bologna pochi giorni dopo lo definì “rivoltatura di gilet” e gli fece in accompagnamento alla vignetta che abbiamo già riportato integralmente a inizio articolo.
Ma alle battute di “Bononia ridet” Carducci era abituato. Più seccante era da parte del CorSera quel metterlo solo a fine cronaca.
Come seccante era il titolo “Il banchetto — Carducci si ricrede” a due rebbi un po’ fastidiosi:
– “Il banchetto”, che collocava con precisione il suo intervento al di fuori della cerimonia ufficiale (e ai contemporanei non poteva non ricordare il piacere del poeta del “Ça ira” per il buon vino);
.
– e quel “Carducci si ricrede”, che fu lo spunto per lo sviluppo successivo.
D’altra parte bisogna dire (il lettore se ne renderà conto poco più avanti) che il cronista del CorSera aveva riportato con fedeltà l’essenza culturale e politica del brindisi di Carducci, senza evidenziarne affatto le pur evidenti contraddizioni.
Ma, cronache giornalistiche più o meno deferenti a parte, rimaneva il fatto che Carducci aveva mancato l’occasione di assumere un ruolo di rilievo nella giornata, come certamente era nei suoi programmi.
Vista la mala parata, il poeta/professore pensò quindi a come mettere in piedi un diversivo per cercare di riprendersi la scena.
Avendo già in mente chi gli poteva fare efficacemente da spalla, appena letto il CorSera del 12 aveva trovato immediatamente il punto di appoggio per muovere la sua leva.
6. Una risposta sgangherata targata “Il Resto del Carlino”.
Le 284 parole di telegrafica sintesi sul brindisi, riportate lunedì 12 ottobre dal CorSera e il titolino “Carducci si ricrede” vengono prontamente sventolati come casus belli da Giulio Padovani, 41 anni, già uno dei fondatori del quotidiano “Il Resto del Carlino”; poi per più lustri suo redattore fisso; amico e sodale di Carducci (il quale si autodefiniva “nume protettore” del quotidiano bolognese).
6.1 / MARTEDÌ 13 OTTOBRE.
IL CARLINO DI BOLOGNA AL SOCCORSO DI CARDUCCI.
Il giorno successivo, martedì 13 ottobre, alla breve nota del CorSera Padovani risponde in prima pagina con 1.245 parole su una colonna e mezza titolando: “Il Carducci non si ricrede”.
Dell’articolo di Padovani qui sotto diamo una nostra sintesi ma suggeriamo di leggere anche l’articolo integrale che riportiamo a lato (grazie a Casa Carducci di Bologna per la cortese collaborazione).
Sgangherato come è questo articolo, viene difficile pensare che a tenere la penna di Padovani ci fosse Carducci. È però inevitabile ritenere che così fosse, almeno nelle linee generali.
Dal momento che a Lecco non era presente nessun inviato de “Il Resto del Carlino”, quel “Carducci non si ricrede”, sparato in prima pagina, poteva infatti essere sostenuto e venire solo da Carducci stesso.
È quindi del tutto probabile che il poeta/professore abbia dato a Padovani il titolo e la chiusa “Carducci non si ricrede ma si ripete” nonché una linea generale su cui poi il direttore del Carlino ha forse lavorato di suo, con risultati però quasi comici.
È comunque da ritenere altamente improbabile che Carducci non abbia visto o sentito il testo di Padovani prima della messa in stampa.
E infatti, nella sua lettera del giorno successivo, mercoledì 13, con la quale, sulla base di “ricordi”, Carducci dava il testo per lui più opportuno di quanto detto a Lecco, per Padovani egli ha solo parole di elogio, esprimendo quindi una piena condivisione per il suo intervento — per questo, quando diciamo “Padovani” si deve intendere sempre “Padovani / Carducci”.
6.3 / I 10 punti di una risposta non proprio brillante.
Queste comunque le argomentazioni espresse da Padovani [tra parentesi quadre le nostre osservazioni]:
primo Carducci già 18 anni fa [1873, alla morte di Manzoni] aveva chiarito il suo pensiero in una monografia «A proposito di alcuni giudizii su Alessandro Manzoni». Già allora aveva spiegato che il suo anti-manzonismo non era né per questioni personali né per scarsa stima della capacità poetica del Manzoni [NdR — in realtà la “monografia” venne stampata nel 1876, accorpando articoli usciti tra giugno e luglio 1873 sul quotidiano bolognese “La Voce del Popolo”];
secondo era una reazione al padre che, a mo’ di castigo, gli consentiva la lettura di soli tre libri, uno dei quali era “La morale cattolica”; da qui la sua avversione alla religione in generale;
terzo era una reazione alle sentenze assiomatiche, alla opinione dominante — Carducci non voleva essere irreggimentato in convenzionali ammirazioni;
quarto era un effetto della voluttà delle menti superiori di esprimere posizioni autonome;
quinto era un prodotto del suo trovarsi male nelle maggioranze;
sesto inoltre egli aveva malvisto Manzoni per odio verso “i tristi uccelli” che si erano appropriati del suo pensiero nel decennio 1850-1860, svuotandolo di ogni impulso progressista [NdR — i “tristi uccelli” — lo aveva scritto nel 1873 Carducci — erano da identificarsi con i padri Scolopi presso cui egli era andato a suo tempo a scuola e che lo avevano disgustato con i continui riferimenti rozzamente scolastici all’autore degli Inni e dei Promessi];
settimo certo, in alcune conferenze giovanili Carducci avrà forse pronunciato qualche parola forte contro Manzoni, ma guardiamo a ciò che è scritto: Carducci ha lodato gli “Inni”, da cui traspare dolcezza e verecondia per gli affetti e i segreti matrimoniali [NdR — il lettore si tenga a mente questi elementi di approvazione];
ottavo del resto già allora Carducci aveva lodato la grande arte di Manzoni; lo ammirava e [come riportato dal CorSera] si dolse che “nella potenza massima del suo ingegno, siasi restato. Aveva più potenza dell’arte che Victor Hugo e Goethe e non li invidiò: si fermò invece dopo l’Adelchi”; e ancora: “Quando il Manzoni è perfetto, anche quelli che onoransi di provenire dalla scuola del Foscolo e del Leopardi lo inchinano”;
nono così come ne aveva sempre riconosciuto il carisma come guida morale. Certo Manzoni non era uno d’assalto; e del resto non si può chiedere a un letterato di motivare tutte le ragioni politiche di ciò che crea; ciò che conta non è il perché si scrivono certe cose ma l’arte con cui si scrivono [NdR — questa ultima era tutta pro domo Carducci, tallonato dai suoi ex ammiratori per i recenti imbarazzanti elogi alla monarchia];
decimo e quindi, nel suo “discorso di Lecco” [NdR — ecco la prima comparsa del termine “discorso”] “Carducci non si ricrede”, semmai “si ripete”.
Crediamo che il lettore non abbia bisogno di grandi commenti per comprendere che Padovani, partendo da uno spunto eristicamente inesistente (il non avere eventualmente Carducci mai ricorso al verbo “ricredersi”) nell’intento di fare da sponda all’amico poeta/professore (oltre che al proprio giornale, incrementando le vendite con un articolino un po’ sopra le righe) si era poi spiaggiato da solo con un cumulo di baggianate.
Padovani respinge l’accusa di un attuale anti-manzonismo di Carducci ma dandogli praticamente del cretino affetto da seri problemi psicologici: sì è vero, fino al 1873 Carducci gli era stato molto ostile ma dal 1873 riconosceva in Manzoni il grande artista.
E da cosa era dipesa l’ostilità fino al 1873?
Da due ordini di problemi:
— da un lato: da una sofferenza adolescenziale contro il proprio padre; dalla reazione per le idee dominanti; dal sentirsi consapevole della propria superiorità; dal non potere sopportare neppure l’idea di maggioranze;
— dall’altro: dall’avere preso un abbaglio accostando Manzoni ai “tristi uccelli” [i preti] che si sarebbero impossessati del suo pensiero.
6.4 / Urge un nostro richiamo alla realtà dei fatti.
A fronte di questo “contrattacco” è difficile non mettersi a ridere e le tante righe di piombo del Carlino gettano una luce preoccupante sulla perspicacia non tanto di Padovani quanto di Carducci che le condivise.
Inevitabile per il lettore di allora pensare che il Carducci cinquantenne fosse una specie di catorcio sul piano psicologico, vittima di ubbie adolescenziali e incapace di intendere alcunché — come poteva un simile uomo essere professore nell’Università di Bologna?
Nel 1873, quando (a dire di Padovani / Carducci) cessò dal suo anti-manzonismo, Carducci aveva infatti 38 anni.
Ne erano quindi passati almeno 22-23 da quando aveva sublimato un supposto livore adolescenziale verso il padre prendendo a malvolere Manzoni.
E di anni ne erano trascorsi 20 da quando aveva subito il manzonismo asfittico degli “uccelli neri” che gli avevano insegnato la grammatichetta e la retorica.
E in un caso e nell’altro non gli era ancora passata! Povero Carducci!!
Ammesso che nel 1873 Carducci avesse fatto pace con se stesso nei confronti di Manzoni (il che era palesemente non vero, basta leggersi il citato «A proposito di alcuni giudizii su Alessandro Manzoni»), Padovani taceva però sul fatto che Carducci — lo vedremo più avanti nel dettaglio — aveva continuato a dare addosso a Manzoni per tutti gli anni successivi al 1873 con scritti a larga diffusione, insaporiti anche da insulti gratuiti contro Manzoni e i suoi sostenitori.
Proprio pochi anni prima (settembre 1883) aveva poi commesso quello che era stato definito “manzonicidio” ed era un vero attacco ideologico: Carducci, membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (e nella possibilità di concedere o meno cattedre di insegnamento), aveva contribuito ad approvare per i ginnasi di tutta Italia la propria antologia “Letture Italiane”, scritta a quattro mani con il professore Ugo Brilli (già suo vecchio allievo), da cui era completamente escluso Manzoni.
Di fronte alla reazione dei manzoniani (il primo ad esprimersi pubblicamente fu quel d’Ovidio, già ricordato sopra, amico di Sailer de “Le Prime Letture”), il Carducci, sentendosi le spalle ben coperte, aveva avuto l’impudenza di aggiungere all’azione censoria anche una beffa da bullo impunito: nella terza edizione della sua antologia (ottobre 1884) aveva infatti inserito un testo di Manzoni.
Ma non era un testo né degli “Inni” né delle tragedie né del romanzo o di una delle ben conosciute lettere di Manzoni di impostazione di rilevanti problemi letterari.
Era un bigliettino operativo inviato da Manzoni a un ospite perché non avesse scrupolo a utilizzare la carrozza che Manzoni gli mandava per recarsi a Brusuglio:
«A Niccolo Tommaseo a Milano.
Caro signor Tommaseo,
Brusuglio, martedì (1825).Il giorno più scomodo per riveder Lei (e fa egli bisogno di dirglielo?) è il più lontano. Se non Le dispiace servirsi d’un legno alla buona, che vien costà colla presente, Ella può dar tosto questa consolazione, troppo più desiderata che aspettata. E, di grazia, non venga con l’intenzione di ripartir oggi.
Maman l’aspetta a braccia aperte; ed io ho più voglia di dirmele, che di scrivermele, suoA. Manzoni.»
Dell’articolo di Padovani qui sotto diamo una nostra sintesi ma suggeriamo di leggere anche l’articolo integrale che riportiamo a lato (grazie a Casa Carducci di Bologna per la cortese collaborazione).
Sgangherato come è questo articolo, viene difficile pensare che a tenere la penna di Padovani ci fosse Carducci. È però inevitabile ritenere che così fosse, almeno nelle linee generali.
Dal momento che a Lecco non era presente nessun inviato de “Il Resto del Carlino”, quel “Carducci non si ricrede”, sparato in prima pagina, poteva infatti essere sostenuto e venire solo da Carducci stesso.
È quindi del tutto probabile che il poeta/professore abbia dato a Padovani il titolo e la chiusa “Carducci non si ricrede ma si ripete” nonché una linea generale su cui poi il direttore del Carlino ha forse lavorato di suo, con risultati però quasi comici.
È comunque da ritenere altamente improbabile che Carducci non abbia visto o sentito il testo di Padovani prima della messa in stampa.
E infatti, nella sua lettera del giorno successivo, mercoledì 13, con la quale, sulla base di “ricordi”, Carducci dava il testo per lui più opportuno di quanto detto a Lecco, per Padovani egli ha solo parole di elogio, esprimendo quindi una piena condivisione per il suo intervento — per questo, quando diciamo “Padovani” si deve intendere sempre “Padovani / Carducci”.
6.3 / I 10 punti di una risposta non proprio brillante.
Queste comunque le argomentazioni espresse da Padovani [tra parentesi quadre le nostre osservazioni]:
primo Carducci già 18 anni fa [1873, alla morte di Manzoni] aveva chiarito il suo pensiero in una monografia «A proposito di alcuni giudizii su Alessandro Manzoni». Già allora aveva spiegato che il suo anti-manzonismo non era né per questioni personali né per scarsa stima della capacità poetica del Manzoni [NdR — in realtà la “monografia” venne stampata nel 1876, accorpando articoli usciti tra giugno e luglio 1873 sul quotidiano bolognese “La Voce del Popolo”];
secondo era una reazione al padre che, a mo’ di castigo, gli consentiva la lettura di soli tre libri, uno dei quali era “La morale cattolica”; da qui la sua avversione alla religione in generale;
terzo era una reazione alle sentenze assiomatiche, alla opinione dominante — Carducci non voleva essere irreggimentato in convenzionali ammirazioni;
quarto era un effetto della voluttà delle menti superiori di esprimere posizioni autonome;
quinto era un prodotto del suo trovarsi male nelle maggioranze;
sesto inoltre egli aveva malvisto Manzoni per odio verso “i tristi uccelli” che si erano appropriati del suo pensiero nel decennio 1850-1860, svuotandolo di ogni impulso progressista [NdR — i “tristi uccelli” — lo aveva scritto nel 1873 Carducci — erano da identificarsi con i padri Scolopi presso cui egli era andato a suo tempo a scuola e che lo avevano disgustato con i continui riferimenti rozzamente scolastici all’autore degli Inni e dei Promessi];
settimo certo, in alcune conferenze giovanili Carducci avrà forse pronunciato qualche parola forte contro Manzoni, ma guardiamo a ciò che è scritto: Carducci ha lodato gli “Inni”, da cui traspare dolcezza e verecondia per gli affetti e i segreti matrimoniali [NdR — il lettore si tenga a mente questi elementi di approvazione];
ottavo del resto, già allora Carducci aveva lodato la grande arte di Manzoni; lo ammirava e [come riportato dal CorSera] si dolse che “nella potenza massima del suo ingegno, siasi restato. Aveva più potenza dell’arte che Victor Hugo e Goethe e non li invidiò: si fermò invece dopo l’Adelchi”; e ancora: “Quando il Manzoni è perfetto, anche quelli che onoransi di provenire dalla scuola del Foscolo e del Leopardi lo inchinano”;
nono così come ne aveva sempre riconosciuto il carisma come guida morale. Certo Manzoni non era uno d’assalto; e del resto non si può chiedere a un letterato di motivare tutte le ragioni politiche di ciò che crea; ciò che conta non è il perché si scrivono certe cose ma l’arte con cui si scrivono [NdR — questa ultima era tutta pro domo Carducci, tallonato dai suoi ex ammiratori per i recenti imbarazzanti elogi alla monarchia];
decimo e quindi, nel suo “discorso di Lecco” [NdR — ecco la prima comparsa del termine “discorso”] “Carducci non si ricrede”, semmai “si ripete”.
Crediamo che il lettore non abbia bisogno di grandi commenti per comprendere che Padovani, partendo da uno spunto eristicamente inesistente (il non avere eventualmente Carducci mai ricorso al verbo “ricredersi”) nell’intento di fare da sponda all’amico poeta/professore (oltre che al proprio giornale, incrementando le vendite con un articolino un po’ sopra le righe) si era poi spiaggiato da solo con un cumulo di baggianate.
Padovani respinge l’accusa di un attuale anti-manzonismo di Carducci ma dandogli praticamente del cretino affetto da seri problemi psicologici: sì è vero, fino al 1873 Carducci gli era stato molto ostile ma dal 1873 riconosceva in Manzoni il grande artista.
E da cosa era dipesa l’ostilità fino al 1873?
Da due ordini di problemi:
— da un lato: da una sofferenza adolescenziale contro il proprio padre; dalla reazione per le idee dominanti; dal sentirsi consapevole della propria superiorità; dal non potere sopportare neppure l’idea di maggioranze;
— dall’altro: dall’avere preso un abbaglio accostando Manzoni ai “tristi uccelli” [i preti] che si sarebbero impossessati del suo pensiero.
6.4 / Urge un nostro richiamo alla realtà dei fatti.
A fronte di questo “contrattacco” è difficile non mettersi a ridere e le tante righe di piombo del Carlino gettano una luce preoccupante sulla perspicacia non tanto di Padovani quanto di Carducci che le condivise.
Inevitabile per il lettore di allora pensare che il Carducci cinquantenne fosse una specie di catorcio sul piano psicologico, vittima di ubbie adolescenziali e incapace di intendere alcunché — come poteva un simile uomo essere professore nell’Università di Bologna?
Nel 1873, quando (a dire di Padovani / Carducci) cessò dal suo anti-manzonismo, Carducci aveva infatti 38 anni.
Ne erano quindi passati almeno 22-23 da quando aveva sublimato un supposto livore adolescenziale verso il padre prendendo a malvolere Manzoni.
E di anni ne erano trascorsi 20 da quando aveva subito il manzonismo asfittico degli “uccelli neri” che gli avevano insegnato la grammatichetta e la retorica.
E in un caso e nell’altro non gli era ancora passata! Povero Carducci!!
Ammesso che nel 1873 Carducci avesse fatto pace con se stesso nei confronti di Manzoni (il che era palesemente non vero, basta leggersi il citato «A proposito di alcuni giudizii su Alessandro Manzoni»), Padovani taceva però sul fatto che Carducci — lo vedremo più avanti nel dettaglio — aveva continuato a dare addosso a Manzoni per tutti gli anni successivi al 1873 con scritti a larga diffusione, insaporiti anche da insulti gratuiti contro Manzoni e i suoi sostenitori.
Proprio pochi anni prima (settembre 1883) aveva poi commesso quello che era stato definito “manzonicidio” ed era un vero attacco ideologico: Carducci, membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (e nella possibilità di concedere o meno cattedre di insegnamento), aveva contribuito ad approvare per i ginnasi di tutta Italia la propria antologia “Letture Italiane”, scritta a quattro mani con il professore Ugo Brilli (già suo vecchio allievo), da cui era completamente escluso Manzoni.
Di fronte alla reazione dei manzoniani (il primo ad esprimersi pubblicamente fu quel d’Ovidio, già ricordato sopra, amico di Sailer de “Le Prime Letture”), il Carducci, sentendosi le spalle ben coperte, aveva avuto l’impudenza di aggiungere all’azione censoria anche una beffa da bullo impunito: nella terza edizione della sua antologia (ottobre 1884) aveva infatti inserito un testo di Manzoni.
Ma non era un testo né degli “Inni” né delle tragedie né del romanzo o di una delle ben conosciute lettere di Manzoni di impostazione di rilevanti problemi letterari.
Era un bigliettino operativo inviato da Manzoni a un ospite perché non avesse scrupolo a utilizzare la carrozza che Manzoni gli mandava per recarsi a Brusuglio:
«A Niccolo Tommaseo a Milano.
Caro signor Tommaseo,
Brusuglio, martedì (1825).Il giorno più scomodo per riveder Lei (e fa egli bisogno di dirglielo?) è il più lontano. Se non Le dispiace servirsi d’un legno alla buona, che vien costà colla presente, Ella può dar tosto questa consolazione, troppo più desiderata che aspettata. E, di grazia, non venga con l’intenzione di ripartir oggi.
Maman l’aspetta a braccia aperte; ed io ho più voglia di dirmele, che di scrivermele, suoA. Manzoni.»
Non contenti, in nota al “brano manzoniano” il duo comico Carducci/Brilli aveva postillato:
«Maman: nell’ultimo scorcio del passato secolo nella civile ed elegante società italiana invalse la moda, che continuò per tutto il primo quarto del sec. nostro, di spappagallare un povero francese o un barbaro gergo italo franco: moda che qualche scrittore pur mediocre volle deridere, ma che nessuno, né men de’ grandi, potè disprezzar sicuramente».
L’inserimento di Manzoni, nella terza edizione della antologia e relativa nota, erano quindi una voluta e offensiva presa per i fondelli: volete Manzoni? eccolo! tenetevelo, con la sua maman del cavolo!
Una vera goliardata da parte del professor Carducci!
Cesare Angelini (Variazioni manzoniane, Milano, 1974):
«Il centenario manzoniano ci permette di ricordare alcuni illustri «pentimenti» […] Quello, per esempio, del Carducci col famoso Discorso di Lecco del 1891 nel quale, accennato a una leggenda (ma non tutta leggenda) d’una sua avversione al Manzoni, nella tenerezza d’un mattino lombardo applaude senza riserve all’arte del poeta. «Applaudo alla grande arte lombarda che in tre tappe rinnovò la coscienza letteraria e civile di nostra gente: la “moralità” col Parini, la “realtà” col Porta, la “verità” col Manzoni. E come la verità intuita in tutti i suoi aspetti da un grande e sereno intelletto, da un animo alto e puro, diviene per se stessa “idealità”, io applaudo alla interezza dell’arte in Alessandro Manzoni». La confessione è così schietta da parere entusiastica.»
6.5 / Da Padovani del “Carlino” solo paradossi e sfacciate balle.
Dolendoci per la mancanza di energia e di perspicacia dei manzoniani di allora, torniamo allo scambio giornalistico.
L’elemento portante del discorso Padovani / Carducci, nel suo evidente carattere mistificante, a prima vista doveva apparire anche allora paradossale:
• è una pura leggenda che Carducci sia mai stato anti-manzoniano;
.
• i suoi attacchi anti-manzoniani sono stati solo verbali intemperanze giovanili;
.
• egli ha sempre amato e stimato Manzoni.
A chi avesse allora almeno un poco di rettitudine intellettuale, un discorso del genere non poteva certo piacere.
La difesa di Padovani, agli occhi di chi conosceva un pochino le cose, avrebbe quindi potuto essere un vero disastro per Carducci.
6.5 / Da Padovani del “Carlino” solo paradossi e balle incatenate.
L’elemento portante del discorso Padovani / Carducci, nel suo evidente carattere mistificante, doveva apparire paradossale allora ancor più di oggi:
• è una pura leggenda che Carducci sia mai stato anti-manzoniano;
.
• i suoi attacchi anti-manzoniani sono stati solo verbali intemperanze giovanili;
.
• egli ha sempre amato e stimato Manzoni.
A chi avesse almeno un poco di rettitudine intellettuale, un discorso del genere non poteva certo piacere.
La difesa di Padovani, agli occhi di chi conosceva un pochino le cose, avrebbe quindi potuto essere un vero disastro per Carducci.
Fu proprio un peccato che allora qualcuno, non diciamo manzoniano di ferro ma di semplice buon gusto, non si prendesse la briga di fare un po’ di pelo e contropelo al poeta/professore e al suo sodale giornalista — c’erano tutti gli elementi per bloccare sul nascere il mito del “Discorso di Lecco”, diventato “inaugurale”, ieri grazie ai malandrini dell’informazione, oggi per i buoni uffici della Direzione scientifica del Museo Manzoniano di Lecco (e di altri sconsiderati).
Bisogna dire che questa sparata assurda con qualcuno funzionò allora, negli anni successivi e anche oggi: nell’ingenuo Angelini ne abbiamo un impietoso esempio.
Cesare Angelini (Variazioni manzoniane, Milano, 1974):
«Il centenario manzoniano ci permette di ricordare alcuni illustri «pentimenti» […] Quello, per esempio, del Carducci col famoso Discorso di Lecco del 1891 nel quale, accennato a una leggenda (ma non tutta leggenda) d’una sua avversione al Manzoni, nella tenerezza d’un mattino lombardo applaude senza riserve all’arte del poeta. «Applaudo alla grande arte lombarda che in tre tappe rinnovò la coscienza letteraria e civile di nostra gente: la “moralità” col Parini, la “realtà” col Porta, la “verità” col Manzoni. E come la verità intuita in tutti i suoi aspetti da un grande e sereno intelletto, da un animo alto e puro, diviene per se stessa “idealità”, io applaudo alla interezza dell’arte in Alessandro Manzoni». La confessione è così schietta da parere entusiastica.»
L’autore di “Variazioni manzoniane” e di altri testi non spregevoli è uno di quelli che c’è cascato in pieno — inutile ogni commento se non il rilevare che le parole di Carducci vengono da lui date per pronunciate “nella tenerezza di un mattino lombardo” e non — come avvenne nella realtà e come ci hanno ben raccontato i cronisti di allora — tra un bicchiere e l’altro nel salone “splendidamente illuminato dalla luce elettrica” dell’Albergo Croce di Malta di Lecco.
Cesare Angelini (Variazioni manzoniane, Milano, 1974):
«Il centenario manzoniano ci permette di ricordare alcuni illustri «pentimenti» […] Quello, per esempio, del Carducci col famoso Discorso di Lecco del 1891 nel quale, accennato a una leggenda (ma non tutta leggenda) d’una sua avversione al Manzoni, nella tenerezza d’un mattino lombardo applaude senza riserve all’arte del poeta. «Applaudo alla grande arte lombarda che in tre tappe rinnovò la coscienza letteraria e civile di nostra gente: la “moralità” col Parini, la “realtà” col Porta, la “verità” col Manzoni. E come la verità intuita in tutti i suoi aspetti da un grande e sereno intelletto, da un animo alto e puro, diviene per se stessa “idealità”, io applaudo alla interezza dell’arte in Alessandro Manzoni». La confessione è così schietta da parere entusiastica.»
6.6 / MERCOLEDÌ 13 OTTOBRE.
“Il Secolo” di Milano non si lascia incantare e rinnova l’attacco a Carducci.
6.6 / MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE.
“Il Secolo” di Milano non si lascia incantare e rinnova l’attacco a Carducci.
A fronte dell’articolo di Padovani sul Carlino di mercoledì 13, “Il Secolo” di Milano, non si lascia sviare dalla sua linea di crtica a Carducci e, anzi, inasprisce i toni.
Il quotidiano milanese riprende brani del discorso che l’Abate aveva scritto per l’inaugurazione (ma ovviamente non pronunciato), proprio nei punti nei quali Stoppani aveva più esplicitamente evidenziato il messaggio progressista e popolare che aveva voluto dare col Monumento.
Chiude l’articolo una stroncatura indiretta ma efficace dell’intervento di Padovani sul Carlino e viene ribadita la aspra critica a Carducci sulla questione della “Antologia” escludente Manzoni; con la ripresa quindi del tema con cui il quotidiano aveva accolto sabato 10 il poeta/professore, mentre si stava recando a Lecco.
Dell’articolo riportiamo due brani dal discorso di Stoppani e la parte relativa al brindisi serale di Carducci.
«Qui Alessandro Manzoni, nato da famiglia per largo censo ed antica prosapia appartenente a questa regione, e da oltre un secolo cittadina di questo antico Castello, nelle storie famoso; qui, so questi colli dell’estrema Brianza, indorati dai primi raggi del sole nascente, che fanno cornice a quest’incantevole bacino, bevve, col primo latte, le prime luci e le prime aure di vita. Cosi sposossi all’anima sua, fin dal prime sbocciare d’una sì poetica intelligenza, questa bella natura, col suo sublime panorama di aspri monti, di colli fioriti, di rumorosi torrenti, di piani ubertosi e di laghi di zaffiro, teatro destinato a popolarsi di quei simpatici e sublimi ideali, in cui doveva incarnarsi e mostrarsi viva una letteratura novella.»
«Qui, tra i franchi abitatori di questa vallata, non umiliati dal servaggio della gleba, né infiacchiti dal lusso della corrotta metropoli, ma fin da secoli emancipati e nobilitati dal genio fecondatore delle industrie serica e siderurgica, sentì nascersi nell’animo i primi nobili sdegni contro i prepotenti piccoli e grandi, le prime aspirazioni alla rivendicazione dei diritti conculcati dalla codarda tirannìa dei ricchi e dei potenti oppressori. Qui insomma egli passò la parte più bella e feconda della sua vita …»
***
«Al banchetto siedette anche il senatore Giosuè Carducci, il quale fece un brindisi per scolparsi dall’essere stato ritenuto avverso a Manzoni. Disse che si ricredeva: e accettiamo la ritrattazione fatta.
Infatti nelle opere di Carducci noi abbiamo letto molte pagine nelle quali non appare neanche la simpatia per Manzoni; nelle quali si legge ad esempio questo giudizio:
«Dei Promessi Sposi la morale più chiara e più deducibile non è ella questa? che a pigliar parte alle sommosse l’uomo risica di essere impiccato; e torna meglio badare in pace alle cose sue facendo quel po’ di bene che si può, secondo la direzione, i consigli e gli esempi degli uomini di Dio.»
Non si poteva usare peggiori parole, nè dare più astioso e più falso giudizio.
In quello scritto faceva professione di fede anti-manzoniana, scrivendo: «Io, nato di padre manzoniano, non sono manzoniano. Avvenne egli per ribellione mia personale o per ribellione dei tempi nuovi a quell’ideale? Altri il vegga.»
Noi comprendevamo benissimo questa avversione di Carducci per Manzoni. Il grande scrittore milanese è tanto limpido, sereno, perspicuo, quanto il Carducci è iroso, oscuro, confuso.
Pare che a Lecco vi sia qualche strada di Damasco, perchè domenica Carducci si è convertito. Peccato che abbia aspettato sì tardi! E speriamo che la conversione non si fermerà tra i fumi del banchetto, ma i suoi effetti gli faranno rinnegare l’Antologia scolastica nella quale Manzoni non ha il posto che gli è dovuto.»
6.7 / MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE.
La controbattuta del Corriere che raddoppia.
Ma casca nel gioco di Padovani/Carducci.
In risposta di fatto all’articolo del Carlino di martedì 13 (ma senza una parola di riferimento al quotidiano bolognese), il CorSera di mercoledì 14 ripropone il “brindisi” carducciano dell’Albergo di Lecco ma mettendone il testo per esteso, evidentemente sulla base di una annotazione di dettaglio (forse addirittura uno stenografico, come suggerito nel Vol. XX delle Edizioni Nazionali di G. Carducci, 1937) fatta da uno dei presenti, se non proprio all’inizio, dopo una diecina di secondi.
Il resoconto appare infatti come se uno degli astanti avesse compreso che il brindisi di Carducci poteva essere interessante da annotare solo dopo le prime battute, precisamente là dove dice “Sono venuto a sfatare una leggenda che c’è su un mio presunto essere antimanzoniano”.
Diciamo questo perché nelle primissime battute il testo del CorSera è carente: non riferisce per esempio dei riferimenti di Carducci a Negri e a Confalonieri, che sono invece ripresi dalla pur stringatissima cronaca della Perseveranza (la abbiamo vista poco sopra).
A parte questo dettaglio, comunque irrilevante per la sostanza della cosa, il testo proposto dal CorSera è il perfetto e coerente sviluppo di quanto sintetizzato l’11 ottobre: il CorSera aveva quindi immediatamente avuto lo “stenografico” di quanto detto da Carducci, che era stato felicemente sintetizzato dal redattore.
Il brindisi di Carducci riportato dal Corriere della Sera suona bene; è simpatico, facile da seguire; sembra spontaneo, come si conveniva a un intervento fatto a braccio in un ambiente che imponeva una certa levità.
Proprio all’opposto del testo che invece proporrà due giorni dopo Carducci (poi stampato dal Carlino di Bologna) — assolutamente ingessato.
Dalla lettura dello “stenografico” del CorSera il lettore comprenderà che, a fronte del millantato costante filo-manzonismo di Carducci (per lo meno dal 1873) sostenuto sfrontatamente dal Carlino, il CorSera, anziché sparare a zero su una balla da chiunque riconoscibile, decide di seguire un’altra strada.
Con abbondanti blandizie sul carattere equilibrato delle posizioni di Carducci su Manzoni (cosa che ovviamente faceva ridere chiunque conoscesse un poco le cose) decide di pubblicare l’intero brindisi di Carducci pensando forse di impiccarlo con le sue stesse parole: al brindisi ti sei lasciato andare a grandi lodi per Manzoni? il giornale del tuo amico Padovani sostiene anch’esso che sei stato sempre filo-manzoniano? bene adesso riportiamo parola per parola tutto ciò che hai detto: avrai così un bel da fare a ritornare sui tuoi passi; d’ora in avanti sarai considerato anche tu come un manzoniano di ferro! vogliamo vedere come ti tratteranno i tuoi sodali in anti-manzonismo.
Ecco il testo, pubblicato mercoledì 14 ottobre, da “Il Corriere della Sera”.
Carducci per Manzoni
Un telegramma nostro riferì ieri, in riassunto, le parole dette da Giosuè Carducci per Manzoni al banchetto di novanta coperti che ebbe luogo domenica sera alla Croce di Malta in Lecco. Ma siccome le parole del Carducci hanno, indubbiamente, importanza storica e letteraria; e siccome moltissimi — specialmente in Lombardia — hanno creduto e credono il Carducci non solo estimatore fiacco del Manzoni letterato, ma avversario reciso dell’uomo e del cittadino; così la pubblicazione delle parole del Carducci torna opportuna, a sgannare molti ed a segnare, per molti, un aspetto nuovo di questo spirito eminente di letterato e di critico.
Chi ha letto — il che è il meno — e chi ha capito — il che è il più — tutto quanto Carducci ha scritto nel corso di un trentennio su Manzoni, sa che questi, pochi critici ha avuto più obbiettivi, più alti, più veramente giusti del Carducci, senza nè la scalmana panegiristica, nè la posa dell’antimanzonianismo arrabbiato, ed ogni pagina del Carducci — per chi la sa intendere — attesta l’ammirazione dell’artista e dell’uomo.
Ad ogni modo il brindisi pronunziato da Carducci in Lecco — pei lombardi specialmente — ha un significato, e per questo noi lo diamo qui intero, raccolto alla tavola della Croce di Malta da un amico, che ha interpretato fedelmente il pensiero e la parola del grande poeta italiano.
***
Il Carducci ha detto presso a poco così [686 parole]:
« Ho accettato di gran cuore l’invito cortese del Comitato delle feste manzoniane per venire qui in mezzo a questi monti di bellezza naturale e di gloria letteraria radiosi, a portare il saluto della più antica e illustre Università italiana, e unirmi a voi nell’omaggio alla memoria di Alessandro Manzoni, in cui la grandezza dello scrittore è pari all’eccellenza dell’uomo.
« Ed è questa per me una felice occasione di distruggere una specie di leggenda formatasi sul mio nome in relazione al gran lombardo.
Mi si è creduto e mi si crede ancora da molti un avversario del Manzoni. Niente di più falso. Avversario del Manzoni, io, che ebbi a padre un suo entusiasta, io che, giovinotto, educai primamente la memoria e l’ingegno nelle poesie manzoniane, io, che appresi ad amare quasi fanciullo la patria e il bene nei cori del Carmagnola e dell’Adelchi, io, che nella mia adolescenza ho riletto cinque volte e con piacere sempre crescente i Promessi Sposi, io che ho scritto pagine di schietta ammirazione per Io scrittore perfetto, per l’uomo di vita intemerata, di carattere integro, di patriottismo non mai smentito? Ci fu un momento nella storia odierna d’Italia, e fu quel tristo decennio in cui i malvagi uccelli danteschi parvero risvolazzar sinistramente sul suolo italiano e minacciar le sorti della patria con una recrudescenza di pietismo e di cattolicesimo curiale. In questo momento e gesuiti e stranieri fecero le finte di amoreggiar coll’opera letteraria di Alessandro Manzoni… Fu allora che io, nel mio ardor giovanile, ebbi il torto di confondere il liberalesimo sereno e forte del Manzoni col quietismo apatico; la sua religiosità operosa, democratica, razionale, evangelica, in cui splendono i tre grandi principii della rivoluzione, libertà, eguaglianza, fratellanza, colla devozione ipocrita, coll’untuosità reazionaria dei malvagi uccelli. E allora mi uscirono dalla penna alcune cosette giovanili che poterono farmi credere un antimanzoniano. Fu un errore che con gran cuore riconosco.
« Io ammiro nel Manzoni la perfezione dello scrittore, la compostezza e forte temperanza dell’arte italiana, la vita immacolata dell’uomo, il carattere intero, il patriottismo non mai smentito.
« Mi dolse e mi dolgo, che giunto alla maturità piena dell’ingegno, ristasse : colpa certo più delle condizioni politiche che di genio esausto : poiché nel Manzoni c’era più potenza d’arte che non fosse in Goethe o in Victor Hugo, e per questo non li invidiò. Dalla poesia egli si volse alla prosa, e forse intese meglio la propria virtù geniale, e la sua prosa fe’ la gran vendetta delle signorie straniere e del dispotismo politico. Don Abbondio è una grande creazione artistica, ma è anche una rappresentazione ridicola del clero. Il Vaticano e l’Austria lo capirono ; e quando la Curia romana rinnegò ferocemente il Manzoni, il Gioberti, il Rosmini, quando lo straniero s’adombrò della virtù rinnovatrice dell’opera manzoniana anche nel senso italiano, e Manzoni e manzoniani buoni concorsero efficacemente co’ fatti al risorgimento, l’equivoco non era più possibile e restrizioni sulla grandezza anche civile del Manzoni non era più lecito farne.
« Onore pertanto all’illustre artista Confalonieri, che con verità e maestria ha scolpito la imagine del gran Lombardo; onore a Lecco, che dopo aver dato al romanziere le più fresche ispirazioni, gli ha innalzato oggi un monumento degno di lui. Con voi oggi consente, con voi è il cuore dell’Italia tutta.
« E non solo a lui, ma a tutta questa buona, questa grande letteratura lombarda degli ultimi cento e più anni, io sono affezionato e devoto, perchè essa ha avuto parte cospicua nel rinnovamento morale e politico del paese. Quattro tappe (consentitemi la barbara espressione) essa ha percorso: — quella della moralità col Parini, dipintore sovrano del costume, satirico geniale, tutto compenetrato di un alto e profondo senso morale; — quella della realtà col Porta, incomparabile nel suo verismo paesano, nella bontà dell’animo, nel temperamento felice dell’ingegno osservatore; — quella della verità col Manzoni, poeta e prosatore sempre fine e sincero, vero sempre nel suo senso storico e umano; — e quella della idealità, che scaturisce dal vero, quando sia interpretato da una gran mente e da un gran cuore, come era l’autore del coro dell’Adelchi e dei Promessi Sposi.»
Al Beato Giovanni della Pace
[…]
Viva pur Sandro Manzoni!
Quant’è mai che s’arrabatta
Co’ filosofi nebbioni
E gli storici a ciabatta!
Acqua santa a piena mano,
Tutto il secolo è cristiano
Libertà, indipendenza,
Paganissima utopia,
Offendevan la decenza
De la santa teoria,
Ora stabile e fondata
Su l’Europa incatenata.
[…]
Cristo par sia riportato
Fra’ bagagli di Radeschi,
Su l’altare appuntellato
Da le picche de’ Tedeschi.
Convertí la baionetta
Questa terra maledetta.
[…]
Che volete? Il cristianesimo
È un romanzo che fa chiasso.
Ci scordammo del battesimo.
Ma cantiamo co ’l compasso
Com’ un’aria di Lucia
Paternostro e avemmaria.
[…]
E le belle penitenti
Mentre cantan litania
Affittar nuovi serventi
Per l’entrata in sagrestia,
Invocando la Madonna
Quando s’alzano la gonna.
Come vedremo immediatamente più sotto, il CorSera non aveva ben chiaro quanto potesse essere “elastico” Carducci e quanto poco gli costasse, dopo aver fatto dichiarazioni di appassionato manzonismo, rimangiarsi con grandissima faccia di tolla buona parte del detto.
6.8 / MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE.
Letto il CorSera Carducci prende carta e penna e “ricorda” ciò che gli fa comodo.
Mercoledì 14, appena Carducci poté leggere l’articolo del Corsera, si sarà sfregato le mani.
Si sarà poi dato una ripassata alla composizione “Al beato Giovanni della Pace” (che aveva scritto a 20 anni, ma pubblicato solo in piccola parte, e ripubblicato, integralmente, nel 1886, quando di anni ne aveva 51) nella quale accusava Manzoni di aver favorito la reazione europea nel decennio post-48.
Al Beato Giovanni della Pace
[…]
Viva pur Sandro Manzoni!
Quant’è mai che s’arrabatta
Co’ filosofi nebbioni
E gli storici a ciabatta!
Acqua santa a piena mano,
Tutto il secolo è cristiano
Libertà, indipendenza,
Paganissima utopia,
Offendevan la decenza
De la santa teoria,
Ora stabile e fondata
Su l’Europa incatenata.
[…]
Cristo par sia riportato
Fra’ bagagli di Radeschi,
Su l’altare appuntellato
Da le picche de’ Tedeschi.
Convertí la baionetta
Questa terra maledetta.
[…]
Che volete? Il cristianesimo
È un romanzo che fa chiasso.
Ci scordammo del battesimo.
Ma cantiamo co ’l compasso
Com’ un’aria di Lucia
Paternostro e avemmaria.
[…]
E le belle penitenti
Mentre cantan litania
Affittar nuovi serventi
Per l’entrata in sagrestia,
Invocando la Madonna
Quando s’alzano la gonna.
Avrà poi preso carta, penna e calamaio e scritto “ricordando” ciò che voleva si ricordasse di quanto egli aveva detto la domenica sera 11 ottobre in Lecco riempiendo sei pagine della sua larga calligrafia.
Sono i famosi “manoscritti del Discorso di Lecco”, due fogli dei quali sono esposti nella Sala 9 del Museo Manzoniano di Lecco, e lì presentati come “bozze”.
Il testo “ricordato” era accompagnato da una “lettera al Direttore del Carlino”.
Il quale pubblicò sia il testo “ricordato” sia la lettera di accompagnamento, cucinando una sua introduzione al tutto.
Come già per gli altri documenti, presentiamo l’articolo del Carlino nella sua forma integrale.
Seguirà un nostro confronto tra i due testi: intendiamo dimostrare — documenti alla mano — che Carducci, nel “ricordare”, capovolse il senso di quanto aveva detto al brindisi serale dell’11 ottobre.
Giovedì 15 ottobre 1891
Il Resto del Carlino
Quel che disse Giosuè Carducci.
Giosuè Carducci ci invia e noi assai volontieri pubblichiamo il testo autentico delle parole dette al banchetto di Lecco.
Non sarebbe, non è anzi il caso di premettere alcun preambolo ma ci spingono ad una breve dichiarazione, due lettere giunteci ieri dei soliti assidui congratulantisi per la giusta difesa — dice l’uno — per la difesa della verità — dice l’altro — da noi assunta scrivendo l’articolo: Il Carducci non si ricrede!
Nulla di più inesatto — o almeno di più lontano dalle intenzioni di chi Io scrisse.
Leggendo nel primo riassunto dei fogli milanesi, la frase « mi ricredo » esplicitamente attribuita al Carducci, il titolo ancor più significativo « Il Carducci si ricrede » scritto in testa al discorso, l’articolista — nella persuasione che le cose stessero precisamente a quel modo come apparivano — intese al contrario di censurare una resipiscenza di cui, come oggi il Carducci scrive, non era il caso: nè più efficacemente gli pareva poter dimostrare la sua tesi se non mettendo a raffronto il discorso di Lecco e lo studio manzoniano di venti anni or sono.
Dinanzi alle ultime varianti dei giornali e sopratutto dinanzi al testo autentico, la censura cade di per sè e resta invece inalterato ciò che fu scritto intorno allo spirito e all’indole della opposizione manzoniana, che fu opposizione alle enormità dei discepoli, non al merito dello scrittore lombardo.
Questa dichiarazione ci è piaciuto di fare per la verità e perchè convinti che il ridicolo che ricade su chi si atteggia a difensore di uomini eminenti, è pari soltanto a quello che colpisce chi dice loro villania.
I loro atti si commentano e si spiegano solo cogli atti e gli scritti precedenti: dal confronto dei quali può solo scaturire qualche giudizio concludente. A questa massima noi ci conformammo in altre occasioni, specie quando cercammo di spiegare le origini e l’importanza di episodi che toccarono da vicino il Carducci, e le nostre parole apparvero a taluni poco rispettose: questa massima seguimmo nella presente circostanza in cui siamo riusciti a passare come paladini.
Non avremo avuta la fortuna di esserci fatti intendere : ma la coscienza ci dice che non meritavamo :
ni cet excès d’honneur, ni cette indignité.
E cediamo la parola al prof. Carducci che scrive :
Signor direttore del Carlino
La ringrazio. In fatti il verbo ricredere non fu mai pronunziato. Non era il caso. Del resto, quanto alla leggenda dell’avversione mia al Manzoni, pur l’altro giorno, in viaggio per la festa di Lecco, leggevo nel Secolo, a proposito di libri di testo, essere imposte alle scuole le mie antologie (credo volesser dire le Letture italiane), nelle quali per parzialità letteraria non do saggio alcuno di prosa manzoniana. Ora il vero è che nessuno impone a nessuno le mie Letture, nelle quali non vi è saggio di prosa manzoniana, perché (ed è detto nella prefazione) il testo intero dei Promessi sposi era d’obbligo in tutte quasi le classi delle scuole secondarie.
E giacché parecchi giornali, all’asciutto di notizie, han dato importanza alle parole ch’io dissi in Lecco, mi faccia Ella il piacere di pubblicarle nel giornale suo quali proprio le dissi. Quand’io parlo all’improvviso, come pongo tutta l’intenzione a dire delle frasi, così quello sforzo mi lascia non solo nella memoria il discorso per più giorni. Eccoglielo dunque fresco fresco. Ella sa che io non uso seccare co’ miei discorsi nè Lei nè altri giornalisti. Ma questa volta ho caro di vedermi stampato autentico.
Novelle grazie.
14 ottobre 1891.
dev.mo Giosuè Carducci
P. S. Dimenticavo il meglio. A Lecco non potevo e non dovevo dirlo. Lo dico qui. Delle idee che più volte espressi su la teorica della lingua e della prosa qual è applicala dai manzoniani minori io non ne disdico nè modifico verbo. Nè tutta la lingua è solo nell’uso fiorentino dell’oggi, nè tutta la prosa nei Promessi Sposi.
****
IL DISCORSO DI LECCO
Ringrazio dell’onorifico invito la cortesia lombarda, tanto buona e graziosa nel bel paese dei Promessi Sposi.
Mi rallegro con l’arte lombarda di questa imagine del poeta della verità, tanto bene effigiata dallo scultore Confalonieri.
Sento ancora profondo l’insegnamento e il piacere della vera sana ed alta cultura lombarda nelle eloquenti parole onde il senatore Negri ha illuminato in tutti i suoi aspetti il genio e l’opera di Alessandro Manzoni.
E a questa festa del Manzoni in Lecco, festa non pur nobilmente provinciale ma gloriosamente italiana, io sono onorato di rappresentare la Università di Bologna; ma, anche senza rappresentanza, sarei accorso di gran cuore, come scrittore e come uomo.
Corre una leggenda di avversione mia al Manzoni. Avversario al Manzoni io che prima d’ogni altra poesia seppi a mente il coro del Carmagnola, e ho ancora a mente tutti gli inni sacri e le altre liriche, che a quindici anni avevo letto già, cinque volte, i Promessi Sposi.
Nel triste decennio avanti il sessanta, quando certi malvagi uccelli garrivano con sparnazzamenti delle lor brulle penne sotto il volo dell’aquila lombarda, io ebbi il torto di pigliarmela con l’opera religiosa del Manzoni. Ma ben tosto mi ravvidi, e credei e credo che pur negli inni sacri, così schivi della dogmatica e della formalità cattolica, risplendano quasi i principii stessi della rivoluzione, la fraternità anzi tutto e l’egualità umana, e poi anche la libertà intellettuale e civile, altamente sentiti da uno spirito cristiano con la temperanza della filosofia e dell’arte italiana.
E mi dolsi e mi dolgo con rammarico, io che amo sopra tutto la gran poesia in versi, che il Manzoni, giunto alla maggior potenza della sua facoltà poetica con l’Adelchi e con la Pentecoste, quando mostrava più simpatica caldezza di rappresentazione che non il Goethe, più armonica saviezza d’invenzione che non l’Hugo, mi dolsi e mi dolgo che ristesse.
Colpa le condizioni politiche pur troppo. Ma poiché dalla poesia voltosi alla prosa e nella prosa intesa meglio la propria virtù geniale fece del romanzo la gran vendetta sul dispotismo straniero e sul sacerdozio servile ed ateo, io mi costringo a sentire meno acerbo il rammarico delle grandi opere di poesia ch’egli poteva ancor fare.
Il sacerdozio comprese, e smorzò ben presto l’accensione per gl’inni sacri. Don Abbondio era una comica ammonizione al basso clero, padre Cristoforo e il cardinal Federico erano un tragico rimprovero al clero alto. Certi ammonimenti e certi rimproveri la curia romana non li vuole; e forzò il cattolicesimo a respingere la mano che verso la metà del secolo l’ingegno e la dottrina laica gli porgevano.
La Curia romana respinse l’arte sovrana del Manzoni, l’eloquente dialettica del Gioberti, l’alta filosofia e la virtù incontaminata del Rosmini. Meglio così. Io applaudo ad Alessandro Manzoni.
E applaudo a quella grande arte lombarda, che in tre tappe (perdonatemi il barbaro termine) rinnovò la coscienza letteraria e civile di nostra gente: la moralità col Parini, la realtà col Porta, la verità con Manzoni. E come la verità intuita in tutti i suoi aspetti da un grande e sereno intelletto, da un animo alto e puro, diviene per sé stessa idealità, io applaudo all’interesse dell’arte in Alessandro Manzoni.
Viva l’Italia!»
Siamo finalmente arrivati al dunque!
Come avevamo sopra anticipato, il CorSera si illudeva di avere “incastrato” Carducci con le sue stesse parole.
Ma il “Vate della Terza Italia” ne aveva già viste ben altre ed era capace di recitare parti che i “lombardi” neanche si sognavano potessero essere neppure pensate.
La risposta di Carducci merita essere analizzata con attenzione: è la espressione scoperta e irridente del modo con cui un uomo di talento ritenne di potere uscire da una situazione a lui non favorevole utilizzando modi non proprio encomiabili.
Sul piano psicologico la cosa è abbastanza comprensibile: a Lecco, dietro i sorrisi di facciata dei padroni di casa, Carducci deve essersi sentito trattato come un appestato; non avendo la forza o la possibilità di affrontare i suoi interlocutori sostenendo le sue più che legittime posizioni antimanzoniane; spinto dall’idea di rivoltare un pochino il gilet per ragioni di opportunità tutte sue, si era spinto più in là di quanto non avrebbe mai pensato di dover fare; a cosa passata, ripensandoci, si era pentito e aveva scelto di giocare una partita non proprio limpida.
Non è un giudizio lusinghiero sul poeta ma parliamo a ragion veduta e ora cerchiamo di rendere partecipe il lettore di quello che riteniamo sia il corretto modo di vedere l’intera vicenda.
Sia ben chiaro!
Per quanto ci riguarda, Carducci poteva cambiare idea su Manzoni anche tutti i giorni: fatti suoi di poeta e di politico.
.
A noi come storici interessa semplicemente sia chiaro che ciò che viene spacciato da 129 anni come il “Discorso di Lecco” di Carducci non ha nulla a che vedere con ciò che Carducci realmente disse la sera dell’11 ottobre 1891 ai brindisi serali all’Albergo Croce di Malta.
6.9 / Sconfessarsi, sconfessarsi, sconfessarsi: e chi se ne impippa!
Il lettore che abbia anche solo scorso le due versioni di quanto disse Carducci al brindisi di domenica 11 ottobre 1891, si è reso conto che esse riportano parole diverse ma esprimono soprattutto idee e concetti non solo diversi ma opposti.
Perché ciò possa risultare più facilmente comprensibile a tutti, dei due testi proponiamo al lettore una scelta dei periodi che hanno un più diretto riferimento alle questioni politiche, il vero elemento di contrasto tra Carducci e l’ambiente manzoniano che, sotto la guida dell’Abate Stoppani, aveva realizzato il Monumento a Manzoni in Lecco.
Nella versione riportata dal CorSera mercoledì 14 ne abbiamo individuato dieci che ci paiono significativi.
Immediatamente sotto mostriamo come Carducci nella sua riscrittura dello stesso mercoledì abbia eliminato gli apprezzamenti sul Manzoni politico che egli aveva svolto nel corso del brindisi di domenica 11 sera cambiando o sopprimendo le frasi che aveva effettivamente pronunciato: una vera e propria marcia indietro, colorata anche da una buona dose di poco simpatica malizia.
7. Il reale e la sua riscrittura.
7.1 / Delle due versioni di quanto detto da Carducci al brindisi, ce n’è una decisamente fasulla: quella di Carducci.
Come già visto, delle parole dette da Carducci durante il brindisi di domenica 11 ottobre abbiamo 2 versioni, la seconda delle quali (quella “ricordata” da Carducci) in molti punti non solo discordante ma addirittura inconciliabile con la prima.
Questa seconda versione, venne scritta a mano da Carducci mercoledì 14, ovviamente dopo avere letto sia le cronache (uscite lunedì 12) sia la versione del Corriere della Sera, uscita lo stesso mercoledì 14.
Pur con tutto il rispetto per le argomentazioni della difesa, si può ragionevolmente pensare che quest’ultima versione stesa da Carducci sia da considerare la meno “autentica” rispetto a quanto egli effettivamente disse.
Il poeta/professore ebbe infatti oltre 48 ore per “ricordare” ciò che egli stesso aveva detto, potendo però contare su vari testi stesi da altri per “ricordare” meglio.
Come si sa, una buona parte dell’attività giudiziaria verte sul cercare di stabilire “ciò che realmente accadde in un dato momento per una data questione”, attraverso un contraddittorio in cui ogni attore del fatto espone ciò che ricorda, o che gli fa comodo di ricordare.
A proposito del “brindisi-discorso” di Lecco siamo di fronte a una tipica situazione giudiziaria con versioni diverse — e anche contrastanti — di ciò che realmente avvenne: ma il lettore-giudice in questo caso può facilmente capire dove sta la verità.
7.2 / Il “ricordo” creativo di Carducci: “taglia, copia, incolla” — ma soprattutto “taglia e capovolgi”.
Prima di entrare nell’analisi, può essere utile dire un qualche cosa sul come Carducci “ricordò con autenticità e precisione” come risulta da un ben definito documento.
Nell’unica pagina del manoscritto di Carducci visibile nella vetrinetta della Sala 9 del Museo Manzoniano di Lecco è ben chiaro che nello stendere la propria versione di quanto detto al brindisi, il Vate fece forse ricorso al proprio “ricordo” ma sicuramente si tenne davanti agli occhi il Corriere della Sera.
Nel testo del CorSera di mercoledì 14 il riferimento di Carducci a Confalonieri viene così riportato (evidenziazione nostra):
«Onore pertanto all’illustre artista Confalonieri, che con verità e maestria ha scolpito la imagine del gran Lombardo»
là dove balza all’occhio di chiunque abbia mai visto il Monumento a Manzoni che il termine “scolpito” è del tutto improprio: la statua è in bronzo e il bronzo non si “scolpisce”.
Data la evidenza di questa incongruenza in un testo scritto (nel parlare può anche scappare) c’è da pensare che il redattore del CorSera, nel riportare le parole di Carducci, la abbia volutamente lasciata, forse con un pizzico di malizia.
Sta di fatto che nel primo foglio del manoscritto di Carducci, tracciato sulla base del “ricordo esatto” di quanto da lui detto, a proposito della “imagine del poeta” si legge perfettamente il termine “scolpita”; da Carducci poi cancellato e sostituito con il termine “effigiata”, come verrà poi stampato dal Carlino.
È evidente che Carducci, era così sicuro del suo “ricordo esatto” che nello stenderlo si teneva sotto mano il testo del Corsera copiandone anche un pacchiano errore.
Siamo certi che consultando tutto il manoscritto di Carducci si troverebbero altri indizi di questo tipo (lo faremo quanto prima).
Sta di fatto che nel primo foglio del manoscritto di Carducci, tracciato sulla base del “ricordo esatto” di quanto da lui detto, a proposito della “imagine del poeta” si legge perfettamente il termine “scolpita”; da Carducci poi cancellato e sostituito con il termine “effigiata”, come verrà poi stampato dal Carlino.
È evidente che Carducci, era così sicuro del suo “ricordo esatto” che nello stenderlo si teneva sotto mano il testo del Corsera copiandone anche un pacchiano errore.
Siamo certi che consultando tutto il manoscritto di Carducci si troverebbero altri indizi di questo tipo (lo faremo quanto prima).
7.3 / Il ricordo “sintetico / metamorfico” di Carducci.
CorSera, 13 ottobre [125 parole]:
«Ed è questa per me una felice occasione di distruggere una specie di leggenda formatasi sul mio nome in relazione al gran lombardo.
Mi si è creduto e mi si crede ancora da molti un avversario del Manzoni. Niente di più falso. Avversario del Manzoni, io, che ebbi a padre un suo entusiasta, io che, giovinotto, educai primamente la memoria e l’ingegno nelle poesie manzoniane, io, che appresi ad amare quasi fanciullo la patria e il bene nei cori del Carmagnola e dell’Adelchi, io, che nella mia adolescenza ho riletto cinque volte e con piacere sempre crescente i Promessi Sposi, io che ho scritto pagine di schietta ammirazione per Io scrittore perfetto, per l’uomo di vita intemerata, di carattere integro, di patriottismo non mai smentito?»
Carducci/Carlino, 15 ottobre
[41 parole, ossia il 33% del testo CorSera]:
«Corre una leggenda di avversione mia al Manzoni. Avversario al Manzoni io che prima d’ogni altra poesia seppi a mente il coro del Carmagnola, e ho ancora a mente tutti gli inni sacri e le altre liriche, che a quindici anni avevo letto già, cinque volte, i Promessi Sposi.»
Invitiamo il lettore a seguirci nella analisi di questi due brani.
A parte la notevole differenza quantitativa ciò che il lettore può cogliere a una lettura anche rapida è che il testo proposto da Carducci/Carlino è strutturato su contenuti diametralmente opposti rispetto a quelli proposti dal CorSera.
Procediamo per segmenti testuali.
Prima metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14 (42 parole):
«Ed è questa per me una felice occasione di distruggere una specie di leggenda formatasi sul mio nome in relazione al gran lombardo.
Mi si è creduto e mi si crede ancora da molti un avversario del Manzoni. Niente di più falso.»
«Corre una leggenda di avversione mia al Manzoni.»
Ovviamente il redattore del CorSera non avrebbe mai potuto inventarsi quella frase di 42 parole rispetto a quella di 8 che Carducci sostiene di avere pronunciato: è stato Carducci a tagliare quanto non gli garbava.
E cosa non garbava al poeta/professore di quell’incipit che egli stesso aveva pronunciato la domenica 11 sera e che veniva riportato con precisione dal CorSera?
Tre giorni dopo, mercoledì 14, non gli garbava per nulla il tono assertivo con cui la domenica aveva espresso la ferma volontà di chiarire che egli non era assolutamente contro Manzoni e non lo era stato neppure in passato.
Carducci era stato molto preciso: «è per me una felice occasione di distruggere una leggenda».
Una frase indubbiamente forte cui lo aveva spinto il clima generale di quella giornata e, alla sera, gli umori dei suoi commensali che, da uomo sensibile qual era, certo percepiva perfettamente.
Una volta uscito da quell’atmosfera, sedutosi per “ricordare” e mettere nero su bianco, quell’incipit Carducci decise però di mutarlo radicalmente: non è più lui, il poeta e pensatore Carducci, a volere affermare con forza la propria estraneità alla “leggenda” di una sua ostilità a Manzoni.
Ora egli prende semplicemente atto che “corre una leggenda”: tutto si spersonalizza e si stempera. Non è soltanto un scendere da 42 a 8 parole: è una inversione totale di rotta.
Nel prosieguo dell’analisi vedremo però che con questa prima frase Carducci ha solo voluto avvertirci del suo mutamento e che “ricorderà” ben altro da quanto stampato dal Corriere della Sera.
Seconda metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14 (41 parole), evidenziazioni nostre:
«Avversario del Manzoni, io, che ebbi a padre un suo entusiasta, io che, giovinotto, educai primamente la memoria e l’ingegno nelle poesie manzoniane, io, che appresi ad amare quasi fanciullo la patria e il bene nei cori del Carmagnola e dell’Adelchi,»
«Avversario al Manzoni io che prima d’ogni altra poesia seppi a mente il coro del Carmagnola [?]».
Anche per questo brano Carducci risparmia parole ma soprattutto cancella un concetto chiave: il fatto che da giovane “l’amore per la patria e il bene” gli vennero suscitati dalla lettura dei cori del Carmagnola e dell’Adelchi di Manzoni.
Si limita a ricordare che il coro del Carmagnola fu “la prima poesia che seppe a memoria”.
C’è una bella differenza ovviamente: si può imparare una poesia a memoria con l’intenzione di controbatterla o svilirne i contenuti.
Nel suo “ricordo autentico ed esatto” Carducci elimina quindi il debito verso Manzoni per la propria formazione giovanile patriottica ed etica, che a voce aveva invece manifestato brindando allo scrittore.
Altro che rivoltatura di gilet: in questa seconda metamorfosi abbiamo di Carducci l’abiura in piena regola non solo di Manzoni ma anche di se stesso.
Da notare inoltre la eliminazione dell’Adelchi.
La tragedia venne infatti edita nel 1822, quando, secondo Carducci, Manzoni era ormai perso per la causa nazionale.
Come si vede, in Carducci il “ricordo” era molto più selettivo della sua lingua, ben sciolta dall’ottimo rosso lariano.
Terza metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14:
«io, che nella mia adolescenza ho riletto cinque volte e con piacere sempre crescente i Promessi Sposi, io che ho scritto pagine di schietta ammirazione per Io scrittore perfetto, per l’uomo di vita intemerata, di carattere integro, di patriottismo non mai smentito?»
Carducci / Resto del Carlino, giovedì 15:
«e ho ancora a mente tutti gli inni sacri e le altre liriche, che a quindici anni avevo letto già, cinque volte, i Promessi Sposi.»
Nel suo “ricordo esatto” Carducci cassa completamente la frase:
«io che ho scritto pagine di schietta ammirazione per Io scrittore perfetto, per l’uomo di vita intemerata, di carattere integro, di patriottismo non mai smentito?»
Nel “ricordare”, Carducci decide quindi di eliminare gli apprezzamenti per il Manzoni uomo e politico cui si era lasciato andare di fronte ai manzoniani di Lecco, che evidentemente lo guardavano sorridendo ma con il coltello tra i denti.
Già solo da questo primissimo inizio del ricordo del suo brindisi, appare chiaro a chiunque come, definendolo “esatto”, Carducci si burlasse apertamente del lettore.
E come Padovani, ospitandolo su “Il Resto del Carlino” si facesse amplificatore di una evidente gherminella.
Altro che “Discorso di Lecco”.
Ciò che Carducci spacciò per “ricordo autentico ed esatto” era solo un tartufesco ripensamento, maturato e formalizzato una volta fuori dal tiro dei suoi ospiti lecchesi.
Se però qualcuno pensasse che Carducci mercoledì 14, con carta penna e calamaio, si era limitato a modificare solo le prime battute del suo brindisi, allora possiamo passare alle altre portate.
Quarta metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14:
«Fu allora [in quel tristo decennio] che io, nel mio ardor giovanile, ebbi il torto di confondere il liberalesimo sereno e forte del Manzoni col quietismo apatico»;
in Carducci / Resto del Carlino, giovedì 15 viene cassata la frase:
«ebbi il torto di confondere il liberalesimo sereno e forte del Manzoni col quietismo apatico»
Con questa autocensura, nel suo “ricordo esatto”, Carducci ritenne probabilmente di potere prendere due piccioni con una fava: da un lato scansare l’ammissione di avere avuto torto; dall’altro non offrire neppure il più piccolo appiglio perché altri potessero pensare che Manzoni fosse di un “liberalismo sereno e forte”.
Certo che sul piano eristico l’ammettere un errore è la cosa peggiore: significa suggerire che se ho sbagliato una volta posso sbagliare ancora.
Ma si suppone che la partecipazione alla inaugurazione del Monumento a un uomo come Manzoni (che lo stesso Carducci, in entrambe le versioni, definisce personificazione della “verità”) non debba essere considerata occasione per l’alterazione sistematica di quella stessa verità.
Carducci evidentemente non la pensava così — ciò che gli importava era portare a casa un qualche risultato: per il resto — chiseneimpippa!
L’errore dei suoi interlocutori di allora fu di non avere compreso l’uomo e il suo insopprimibile bisogno di emergere, costi quel che costi.
Quinta metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14:
«la sua [di Manzoni] religiosità operosa, democratica, razionale, evangelica, in cui splendono i tre grandi principii della rivoluzione, libertà, eguaglianza, fratellanza»
Carducci / Resto del Carlino, giovedì 15 diventa più sbrigativamente:
«l’opera religiosa del Manzoni»,
nel senso delle composizioni poetiche denominate “Inni Sacri”; dei quali Carducci dà questo giudizio: «credo che pur negli inni sacri, così schivi della dogmatica e della formalità cattolica, risplendano quasi i principii stessi della rivoluzione».
Nel “ricordo fresco fresco” di Carducci non è più quindi Manzoni a caratterizzarsi per “religiosità operosa, democratica, razionale, evangelica”.
Semmai, si possono cogliere “quasi” i principi della rivoluzione nei suoi “Inni”, l’ultimo dei quali venne pubblicato nel 1817.
Implicitamente, dopo quella data, secondo Carducci, nell’opera di Manzoni non sono quindi rilevabili elementi che possano richiamare i “principi della rivoluzione”.
Carducci conferma così il suo giudizio svalutativo sul romanzo “I Promessi Sposi”, da lui visto come rinuncia quietistica e provvidenzialistica alla lotta.
Da notare che nel 1888 (Opere, IV, pagg. 46-47) Carducci ricordava: «Ragazzo, in campagna, avevo letto sette volte i Promessi Sposi per la gran vaghezza di quel racconto, ma saltando più d’una volta le gride e la peste».
A Carducci del romanzo piaceva solo la “gran vaghezza del racconto”? e per il resto: che noia?
Non male per un uomo considerato uno dei più fini critici letterari del nostro paese!
Del resto è un po’ quello che succede oggi a Lecco: del Manzoni si vuole tenere solo il romanzo; del romanzo solo la “gran vaghezza del racconto”; di questa, solo la storiella dei fidanzati contrastati che si ritrovano e si sposano … nel Salone delle Grisaglie del Museo Manzoniano!
Come lietamente ha fatto l’Assessore alla Cultura di Lecco, che ha così voluto testare la cosa di persona per controllare che tutto funzionasse a dovere (ma le vetrinette della Sala 9 si è dimenticata di guardarle).
A quando i rinfreschi nel giardino di Villa Manzoni? Sappiamo che lo scientifico esperto di vini è già lì, pronto con l’interattivo cavabusción!
D’altra parte, ci pare che MAI Carducci abbia detto parola sulla “Storia della Colonna Infame”, essendosi limitato alla Ventisettana della biblioteca paterna.
È veramente curioso: la “Colonna infame” era un micidiale atto di accusa di Manzoni anche contro la giustizia austriaca che nel 1821-22 aveva esercitato le peggiori tecniche inquisitorie contro i Carbonari, tutti amici stretti di Manzoni — per questo egli non aveva potuto inserirla nella Ventisettana.
Vincendo la noia e riflettendo anche su questa parte conclusiva del “vago racconto” Carducci avrebbe forse potuto imparare qualche cosina sulla storia del nostro Risorgimento (che era anche il suo, ci sembra)!
Sesta metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14:
«[quando il cattolicismo curiale fece finta di apprezzare Manzoni] allora mi uscirono dalla penna alcune cosette giovanili che poterono farmi credere un antimanzoniano. Fu un errore che con gran cuore riconosco.»
in Carducci / Resto del Carlino, giovedì 15: viene eliminata tutta la frase:
«allora mi uscirono dalla penna alcune cosette giovanili che poterono farmi credere un antimanzoniano. Fu un errore che con gran cuore riconosco.»
Anche qui il demone eristico di Carducci si è inserito nell’ “esatto ricordo”: mai ammettere l’errore!
Sull’avere egli condannato un da lui supposto legame organico tra il clericalismo reazionario e Manzoni (semplicemente, una solenne cretinata) Carducci preferì si pensasse che dalla sua penna non era uscito un bel nulla.
Carducci volle così cancellare il dato storico irrefutabile che egli scrisse lungo tutta la vita testi critici sull’opera di Manzoni (il che andava benone, ci mancherebbe altro) ma anche accusatori senza fondamento e stupidamente offensivi contro Manzoni uomo e politico.
Non solo. Carducci volle cancellarne anche l’ammissione fatta da Padovani nell’articolo uscito sul Carlino del 13 ottobre — ricordate: quello in cui Padovani dà al giovane Carducci dello psichicamente labile, affetto da complesso di castrazione a causa del padre (tra l’altro un uomo d’oro e per nulla severo: a fronte delle marachelle del giovane Giosuè, anziché usare lo staffile — purtroppo si usava — per punizione gli dava un paio di giorni di stanza “condannandolo” a leggere; capirai che dramma!).
Le “cosette giovanili” sono in particolare la composizione “Al Beato Giovanni della Pace” nella quale Carducci scarica su Manzoni, Rosmini e il loro ambiente di riferimento l’accusa di complicità con la reazione italiana ed europea nel post-1848.
La composizione, era stata pubblicata dal ventenne Carducci nel 1855 (ma solo in parte); venne invece pubblicata integralmente a opera del suo amico del cuore Giuseppe Chiarini nel 1886, essendo Carducci 51enne, presumibilmente quindi in grado di intendere e volere.
Nel pubblicarla, Chiarini scrisse trattarsi di una composizione per i tempi assolutamente rivoluzionaria; in realtà era solo una mediocre e goliardica filastrocca contro Manzoni e compagni da parte di un giovanotto ignorante la realtà della vita politica italiana svolgentesi al di là della sua quotidianità di studente toscano, tutto sommato serena rispetto al clima tetro e drammatico della Lombardia degli anni ’50.
Ricordiamo che nel 1853, a seguito della fallita insurrezione mazziniana del febbraio, dieci professori del Seminario di Milano (tra questi anche l’Abate Stoppani) erano stati espulsi dall’insegnamento, accusati di cospirazione patriottica antiaustriaca. In realtà, i sacerdoti espulsi cospiravano alla grande — la polizia austriaca la sapeva più lunga del giovane Carducci ma non riusciva a trovarne chiare prove.
Sta di fatto che mentre Carducci si preparava alla lunga e felice carriera di docente, gli amici di Manzoni venivano espulsi dalle scuole e, sotto lo sguardo concupiscente della polizia, dovevano arrabattarsi per campare alla meno peggio (l’Abate aveva una famiglia facoltosa alle spalle ma molti dei suoi compagni fecero per anni la fame).
Tanto per avere le idee chiare: l’Abate Stoppani, su cui Carducci tacque vergognosamente l’11 ottobre 1891, era particolarmente puntato dalla polizia che sulla sua scheda segnaletica segnava essere “molto loquace” — faceva cioè propaganda patriottica attiva.
A evitare tentazioni poliziesche, nell’autunno 1853 Stoppani era stato prelevato dai Porro (lontani parenti) e, per quasi due anni, tenuto al sicuro nel loro palazzo di Como come “istitutore”, in attesa si calmassero le acque.
Settima metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14:
«[quando lo straniero s’adombrò della virtù rinnovatrice dell’opera manzoniana anche nel senso italiano] e Manzoni e manzoniani buoni concorsero efficacemente co’ fatti al risorgimento, l’equivoco non era più possibile e restrizioni sulla grandezza anche civile del Manzoni non era più lecito farne.»
in Carducci / Resto del Carlino, giovedì 15 tutta la frase
e Manzoni e manzoniani buoni concorsero efficacemente co’ fatti al risorgimento, l’equivoco non era più possibile e restrizioni sulla grandezza anche civile del Manzoni non era più lecito farne.
viene eliminata preferendo Carducci rimangiarsi il suo riconoscimento che Manzoni e i “manzoniani buoni” concorsero “efficacemente” e “con i fatti” al Risorgimento italiano.
A distanza di tre giorni dal brindisi, Carducci ritenne quindi che era lecito fare “restrizioni sulla grandezza civile di Manzoni”.
Qui Carducci vola veramente basso: come poteva il poeta/professore fingere di ignorare che a Milano l’orientamento del clero rosminiano (che di quel monumento di Lecco era stato uno degli elementi portanti) per tutto il decennio nero aveva contribuito a tenere viva la prospettiva dell’Italia libera e unita?
Che nel 1860 era stato un elemento non indifferente nel definire l’asse dei rapporti politici complessivi in favore della Corte dei Savoia? E che proprio Manzoni era stato il tramite tra quella Corte e quei sacerdoti, a lui così vicini?
E questo dopo essere stato per una intera giornata gomito a gomito con quegli stessi uomini che erano stati protagonisti di quelle vicende! Che vergogna, professore!
Ottava metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14:
«la sua prosa fe’ la gran vendetta delle signorie straniere e del dispotismo politico»
in Carducci / Resto del Carlino, giovedì 15, diventa:
«nella prosa […] fece del romanzo la gran vendetta sul dispotismo straniero e sul sacerdozio servile ed ateo»
Nona metamorfosi.
Corriere della Sera, mercoledì 14:
«E non solo a lui, ma a tutta questa buona, questa grande letteratura lombarda degli ultimi cento e più anni, io sono affezionato e devoto, perchè essa ha avuto parte cospicua nel rinnovamento morale e politico del paese.»
in Carducci / Resto del Carlino, giovedì 15 diventa:
«E applaudo a quella grande arte lombarda, che in tre tappe […] rinnovò la coscienza letteraria e civile di nostra gente»
L’arte lombarda ha cioè rinnovato la coscienza letteraria e civile degli individui ma NON ha «avuto parte cospicua nel rinnovamento morale e politico del paese».
Comunque sia — tanto per parlare fuori dai denti — nel giro di tre giorni a quel Manzoni e alla “grande letteratura lombarda”, Carducci smise di essere affezionato e devoto — e volle che in proposito non ci fossero dubbi.
7.4 / Il risultato comunque portato a casa da Carducci.
Come si vede da questi esempi, Carducci, scrivendo in base al suo “ricordo esatto” il 14 ottobre decise di stravolgere la valutazione che su Manzoni politico e sul suo ambiente di riferimento aveva espresso la sera dell’11 ottobre 1891.
Di fronte a chi lo aveva accolto alla propria tavola all’Albergo Croce di Malta (negli anni passati quasi tutti elementi di punta dell’ambiente politico di Manzoni — e di Stoppani) Carducci aveva avuto parole di lode e di entusiasmo.
Uscito da sotto i loro sguardi si rimangiò tutto.
Tra la vasta gamma di epiteti che merita questo voltafaccia di Carducci il lettore saprà scegliere quello più adatto alla sua sensibilità.
Dopo il ri-ripensamento carducciano di mercoledì 14, stampato dal Carlino di Bologna giovedì 15, il CorSera lasciò cadere la cosa; i diversi giornali che avevano ripreso il testo del quotidiano milanese ignorarono a loro volta il “ricordo esatto” prodotto dal duo Carducci/Padovani, confermando così la loro posizione critica nei confronti di Carducci.
Solo il milanese “La Perseveranza”, da anni molto puntualizzante verso il poeta-professore, riprese integralmente l’articolo de “Il Carlino” avvertendo però il lettore trattarsi di tutt’altra cosa rispetto a quanto detto da Carducci al brindisi di Lecco.
Il settimanale satirico “Bononia ridet”, nel numero di sabato 17 ottobre oltre alla già vista vignetta della “rivoltatura del gilet” dedicò alla vicenda la colonnina che qui riportiamo: si accenna — ma senza calcare troppo la mano – alla “doppia” “rivoltatura di gilet” da parte di Carducci.
Bononia ridet — 16 ottobre 1891.
L’uomo che si ricrede.
«Enotrio Romano — per quanto in frack e gibus non faccia la più bella delle figure — è e resterà sempre un gran poeta.
Però…. v’ha un però: Egli crede, e poi si ricrede con troppa facilità.
Perchè il sistema è pericoloso, ed una volta ammesso, non si sa a quali risultati possa condurre.
Ecco: Un tempo Enotrio credeva e giurava per la Repubblica; ora invece si ricrede e… spergiura per la Monarchia. Questo per la politica.
Un tempo rivedeva le buccie con molto accanimento a quel povero vecchio di Alessandro Manzoni; ora si ricrede, e si batte il petto per aver potuto confondere l’odio contro i tristi uccelli con l’avversione per Manzoni uccello degno di venerazione ed ammirazione.
Questo per la letteratura.
Ed in materia di religione ?
Nessuno ci vieta di supporre che fra qualche anno — la natura glie ne riservi molti! — il cantore di Satana voglia far solenne ammenda dell’ode sacrilega, con un inno al Padre Eterno.
Non sarebbe che il naturale e logico procedimento per una via già intrapresa con successo.
In tal caso però non l’errante si ricrederebbe, ma l’ex miscredente si farebbe addirittura credente.»
[…]
«Tutto questo sarà possibile se il nostro grande Enotrio non cesserà di ricredersi ad ogni volger di luna.
A meno che, procedendo, non venga il giorno — e lo auguriamo ai suoi discepoli che già cominciano a perdere la bussola — in cui per tornar finalmente e stabilmente a credere in qualche cosa, si ricreda di essersi ricreduto.»
Per Carducci qualche sberleffo quindi; ma il “Vate della Terza Italia” fu contento lo stesso.
Con quel giro di articoli e lettere, grazie alla complicità di Padovani e del Carlino di Bologna, Carducci, tenuto ai margini della cerimonia di inaugurazione del monumento a Manzoni, era riuscito infatti a ritagliarsi — almeno sulla carta, nel senso vero del termine — uno spazio del tutto sproporzionato al suo effettivo ruolo nell’evento.
Era riuscito anche a rimangiarsi (e lasciarlo per iscritto ai posteri) quanto si era lasciato indurre a dire in lode di Manzoni — fosse il buon vino o la sua suggestionabilità o un banale calcolo non importa.
8. Lo strano caso di un “brindisi” che diventa un “Discorso inaugurale”.
8.1 / Il raddoppio fraudolento inventato da Padovani (con l’assenso di Carducci).
Forse contando sulla inevitabile scomparsa di molti dei presenti all’evento — e comunque mentendo sapendo di mentire — parlando di quell’episodio scrisse (p. 211, sottolineatura nostra):
«Il caso risale all’ottobre del 1891, al tempo cioè dei festeggiamenti celebrati a Lecco per l’erezione del monumento ad Alessandro Manzoni, quando, invitato dai festeggiatori, egli pronunziò il discorso inaugurale e colse volentieri e colla solita cavalleresca sincerità l’occasione di chiarire e sbugiardare le vecchie e note accuse di antimanzonismo.»Carducci nel 1901 era vivo e vegeto e certo avrà letto il libro dell’amico e sodale Padovani. Non ci risulta però sia sobbalzato nel leggere quella pacchiana menzogna né che chiedesse a Padovani una qualche smentita. Riteniamo che, al contrario, essendo stato egli stesso ispiratore della bufala dieci anni prima, si sarà nuovamente sfregato le mani — e anche questa è andata: i posteri avranno di che parlare di quell’inaugurazione, ma a modo mio. Infatti, nelle “Opere di Giosue Carducci” edite da Sommaruga nel 1902 (Confessioni e Battaglie / Serie seconda), il “Discorso” e la “Lettera al direttore del Carlino” vengono riportati alle pagine 305-306 sotto il titolo “Discorso di Lecco”. Entrambi i documenti sono presentati al lettore senza alcuna introduzione o contestualizzazione, inducendo il lettore di allora (e di oggi) a recepirlo come il “Discorso inaugurale” e non come uno dei numerosi brindisi serali di quell’11 ottobre 1891, come invece fu.
8.2 / Ci sono anche le persone normalmente serie a questo mondo.
Morto Carducci nel 1907 (avendo portato a casa il Nobel per la letteratura nel 1906, pochi mesi prima) si aprì ovviamente una nuova stagione per la pubblicazione delle sue opere
Nel 1912 uscì la settima edizione della “Antologia Carducciana” curata da Guido Mazzoni e Giuseppe Picciola (Zanichelli editore).
I due curatori (peraltro entusiasticamente carducciani — ma normalmente onesti) indicavano già nelle prime righe del loro commento introduttivo al “Discorso di Lecco” il suo contesto reale (sottolineature nostre), p. 329:
«L’11 ottobre 1891 fu inaugurato in Lecco un monumento ad Alessandro Manzoni. Fe’ degnamente il discorso commemorativo, al teatro, Gaetano Negri (milanese, 1838-1902); e nel banchetto discorse il Carducci, secondo che qui leggeremo.»
Una smentita in piena regola al falso Padovani / Carducci.
8.2 / Truffati collaborativi — alcuni consapevoli, altri solo raggirati.
In quella vera e propria gherminella ideologica di Carducci, trasformata in “falso ideologico” da Padovani nel 1901, in 129 anni ci sono cascati in molti: alcuni volentieri, altri per banale non conoscenza dei fatti e delle figure.
Tra i truffati “collaborativi” pensiamo di potere citare i curatori della Edizione Nazionale delle opere di Carducci degli anni ’30 del secolo passato (Zanichelli editore).
Nel Volume XX “Manzoni e Leopardi”, edito nel 1937, quanto detto da Carducci nel brindisi dell’11 ottobre 1891 viene presentato come “Il Discorso di Lecco”, dando anche qui a intendere si trattasse del discorso ufficiale — ma lasciandosi aperte le porte per una eventuale ritirata.
I curatori, infatti, facevano un mezzo passo avanti rispetto all’edizione del 1902 curata da Carducci stesso (la abbiamo vista sopra): oltre al testo di Carducci, i curatori inserivano infatti anche il testo stampato dal Corriere della Sera il 13 ottobre.
In nota citavano inoltre la “Antologia Carducciana” curata da Mazzoni e Picciola di cui abbiamo già detto poche righe sopra.
Dicevamo “mezzo passo avanti”: in entrambi i casi infatti i curatori rimanevano a metà strada: citando il CorSera non ne riportavano la introduzione redazionale (opportuna per una comprensione della vicenda); citando la “Antologia” non ne riportavano la chiarissima e onesta indicazione di chi aveva svolto il vero discorso inaugurale — ossia il già più volte richiamato Gaetano Negri.
Va da sé che nel 1937, scomparsi tutti i protagonisti, compito dei curatori sarebbe stato di rappresentare fedelmente i dati di fatto perché il lettore potesse farsi una idea corretta della vicenda — ma i curatori dell’edizione nazionale tacquero, lasciando che il lettore traesse da sé le conseguenze erronee della loro reticenza.
Tra i truffati in buona fede pensiamo invece di potere indicare la Fondazione Provincia di Lecco guidata dal sempre fattivo Mario Romano Negri.
Nel 2014 la Fondazione spese 3 o 4.000 Euro per gli autografi di un testo già perfettamente noto, stampato in ogni dove da 123 anni, frutto di un consapevole raggiro ai danni di chi il monumento a Manzoni lo aveva voluto e realizzato e il cui unico eventuale valore storico potrebbe consistere — semmai — nel mostrare gli “originali” di una contraffazione ideologica.
Dal canto loro i museal / museografi di Lecco — cui spetterebbe il compito di tutelare il patrimonio storico e non di tener bordone ai taroccatori ideologici di oggi e di ieri — hanno inghiottito esca, amo, canna e mulinello, cercando di indurre il visitatore del Museo a fare lo stesso.
Invitiamo comunque il Museo Manzoniano e Fondazione Provincia di Lecco a rendere di pubblico dominio i manoscritti di Carducci relativi a quella vicenda. Potrebbero risultare utili agli studiosi che dalle correzioni apportate da Carducci sul suo stesso scritto potrebbero ricavare indicazioni su ciò che passava per la testa del Vate della Terza Italia in quell’11 ottobre 1891.
8.3 / Un gesto da vero amico: il silenzio di Chiarini.
Per chiudere questa lunga digressione sul contraffatto “Discorso di Lecco” di Carducci, ci pare che il meglio sia di ricordare come Chiarini ritenne opportuno considerare la cosa.
Nel suo ricco di aneddoti e molto preciso libro «Memorie della vita di Giosue Carducci (1835-1907) raccolte da un amico» (Firenze, 1907), Giuseppe Chiarini, dagli anni dell’Università fino alla morte suo intimo e affettuoso amico, su due momenti della vita di Carducci preferì non scrivere neppure una parola: la vicenda amorosa con la giovane e rampante Annie Vivanti e il “Discorso di Lecco” — un silenzio da vero amico.
9. Riassumendo e concludendo.
9.1 / Prioritario il chiarimento sul ruolo dell’Abate Stoppani nella vicenda del Monumento a Manzoni in Lecco.
Colpiti dalla grave deformazione che sulla storia manzoniana della città di Lecco viene proposta al visitatore del Museo, nello stendere questa Nota ci eravamo proposti di dare il nostro contributo perché si affermi una sempre maggiore consapevolezza sul ruolo fondamentale (e innovativo) giuocato dall’Abate Stoppani nella lunga vicenda della realizzazione del Monumento a Manzoni in Lecco.
Nella narrazione del Museo la sua lunga e anche clamorosa azione viene liquidata con un inciso di quattro parole nel pannello descrittivo della Sala 9: «Queste polemiche ebbero riflessi locali il giorno dell’inaugurazione del monumento dedicato allo scrittore, l’11 ottobre 1891, che era stato promosso da un Comitato ispirato da Antonio Stoppani e sostenuto dai progressisti.»
Una vera e propria censura non solo contro l’Abate Stoppani ma anche contro la gran parte della cittadinanza lecchese che, sotto la sua guida, si impegnò per anni a fare di Lecco la “città di Manzoni”: un riconoscimento da nessuno mai contestato a livello nazionale e cancellato in modo sciagurato solo nel 2014 (dopo 123 anni da quel 1891) e proprio da una amministrazione lecchese (la prima del Sindaco Brivio), sulla base della geniale strategia suicidaria del creativo Assessore Tavola che volle fare di Lecco la “città dei Promessi Sposi”, in una ottusa imitazione dello sfruttamento da parte di Verona di Romeo e Giulietta.
Su questo primo tema ci sembra di avere proposto alcuni degli elementi portanti, quanto meno sotto il profilo della cronaca e dei fatti realmente avvenuti. Molto resta da dire per l’inquadramento della vicenda nella più generale lotta del rosminiano Abate Stoppani contro l’ala reazionaria del Vaticano di Leone XIII — ma questo è un tema che svilupperemo in altra sede.
9.2 / La verità, purtroppo non esaltante per la figura di Carducci, sull’adulterato “Discorso di Lecco”.
Nell’analizzare il ruolo dell’Abate Stoppani nella vicenda del Monumento a Manzoni in Lecco ci siamo imbattuti in quegli strafalcioni psico-organizzativi relativi al Carducci — etichette in libertà; documenti messi a caso (come la convocazione del Consiglio comunale di Bologna del 30 maggio 1890 che nulla ha a che vedere con Manzoni e neppure con Carducci) — che abbiamo ampiamente evidenziato.
In prima battuta quel misto di mediocrità e di incuria menefreghista ci aveva solo suscitato un già conosciuto misto di stupore e vergogna.
Analizzando però le cose con la dovuta attenzione un paio di frasi lasciate cadere sbadatamente dalla Direzione scientifica nel pannello di presentazione della Sala 9, ci siamo accorti che dietro quella sciatteria tutto sommato innocua (a risolverla è sufficiente un minimo di attenzione da parte della catena di controllo e il superamento della doppia tanatosi di Sindaco e Assessore alla Cultura — vediamo se la nuova Amministrazione soffrirà o meno della medesima patologia) si nascondeva un problema più rilevante relativo a un dato storico, nella fattispecie relativo a quel testo che da 129 anni viene chiamato “Discorso di Lecco” del Carducci ma che in realtà mai Carducci pronunciò in quelle forme che vengono tramandate (attenzione! in certi ambiti la forma è immediatamente sostanza).
L’analisi che ne abbiamo fatto ci sembra abbia evidenziato l’essenza della cosa: Carducci in quell’occasione si comportò in modo intellettualmente poco onesto e ciò ci sembra difficilmente smentibile.
È una piccola cosa nel quadro delle tematiche manzoniane ma è pur sempre un dato acquisito, importante soprattutto nel suggerire di modificare radicalmente le modalità con cui la vicenda del Monumento a Manzoni in Lecco viene presentata.
Il nuovo Sindaco, se vorrà, potrà fare molto in quella direzione.
Se vorrà!!!
Giorni fa abbiamo infatti letto il primo “discorso” che il nuovo Sindaco di Lecco, Mauro Gattinoni, ha voluto rivolgere alla cittadinanza.
Non si pretendeva certo che facesse i nomi di “Stoppani” o di “Manzoni” (troppa grazia!) ma ci si aspettava che in questo primo contatto con la città, il neo-Sindaco Gattinoni inserisse nel suo testo — almeno una volta — la parola “cultura”.
E invece il neo-Sindaco Gattinoni quella parolina se l’è proprio scordata.
Non ci vorrà molto per capire se si è trattato di una distrazione da stress o il segnale per un “nuovo passo” nella direzione sbagliata.