Venerdì, 16 aprile 2021
Avvertenza.
La Nota che segue è dedicata al dipinto di Lorenzo Lotto, esposto a Lecco dal 5 dicembre 2020 al 6 giugno 2021 nel quadro della mostra «Lotto. L’inquietudine della realtà. Lo sguardo di Giovanni Frangi».
È strutturata su DUE parti.
La PRIMA è dedicata a evidenziare le problematiche relative alla fisionomia critica del dipinto.
Questo è dato unanimemente come pubblicato per la prima volta da Bernhard Berenson nella sua monografia dedicata a Lotto del 1895: ma in quel suo scritto, in realtà, Berenson descrisse un ALTRO dipinto.
Questa evidenza non implica necessariamente una messa in discussione della autenticità della autografia lottiana del dipinto stesso.
Ne impone però in primo luogo una approfondita analisi strumentale che aiuti ad allontanare ogni possibile dubbio; in secondo luogo una revisione radicale di quanto da oltre un secolo si elabora in sede critica attorno a questa opera.
Nella SECONDA PARTE della Nota (che il dipinto sia autografo di Lotto o meno) entriamo nel merito dei contenuti culturali dell’opera in mostra a Lecco in questi mesi, mostrando la mancanza di basi documentarie delle argomentazioni proposte dagli organizzatori secondo cui in essa sarebbe rappresentata simbolicamente la Passione di Cristo.
Quanto qui trattiamo esula dal quadro della ricerca storica su cui il nostro Centro Studi Abate Stoppani è usualmente impegnato.
Ciononostante, affinché sulle iniziative che vengono poste al centro della vita culturale della città di Lecco rimanga sempre viva l’attenzione critica, abbiamo comunque ritenuto opportuno dare il nostro contributo, dedicandolo in particolare agli oltre 300 studenti delle scuole medie superiori della città di Lecco che offrono la loro assistenza ai visitatori della mostra che si tiene a Palazzo delle Paure.
La Nota si compone di circa 36.000 parole (233.000 battute); è leggibile in poco più di due ore.
Venerdì, 16 aprile 2021
Avvertenza.
La Nota che segue è dedicata al dipinto di Lorenzo Lotto, esposto a Lecco dal 5 dicembre 2020 al 6 giugno 2021 nel quadro della mostra «Lotto. L’inquietudine della realtà. Lo sguardo di Giovanni Frangi».
È strutturata su DUE parti.
La PRIMA è dedicata a evidenziare le problematiche relative alla fisionomia critica del dipinto.
Questo è dato unanimemente come pubblicato per la prima volta da Bernhard Berenson nella sua monografia dedicata a Lotto del 1895: ma in quel suo scritto, in realtà, Berenson descrisse un ALTRO dipinto.
Questa evidenza non implica necessariamente una messa in discussione della autenticità della autografia lottiana del dipinto stesso.
Ne impone però in primo luogo una approfondita analisi strumentale che aiuti ad allontanare ogni possibile dubbio; in secondo luogo una revisione radicale di quanto da oltre un secolo si elabora in sede critica attorno a questa opera.
Nella SECONDA PARTE della Nota (che il dipinto sia autografo di Lotto o meno) entriamo nel merito dei contenuti culturali dell’opera in mostra a Lecco in questi mesi, mostrando la mancanza di basi documentarie delle argomentazioni proposte dagli organizzatori secondo cui in essa sarebbe rappresentata simbolicamente la Passione di Cristo.
Quanto qui trattiamo esce dal quadro della ricerca storica su cui il nostro Centro Studi Abate Stoppani è usualmente impegnato.
Perché sulle iniziative che vengono poste al centro della vita culturale della città di Lecco rimanga sempre viva l’attenzione critica abbiamo comunque ritenuto opportuno dare il nostro contributo, dedicandolo in particolare agli oltre 300 studenti delle scuole medie superiori della città di Lecco che offrono la loro assistenza ai visitatori della mostra che si tiene a Palazzo delle Paure.
La Nota si compone di circa 36.000 parole (233.000 battute); è leggibile in poco più di due ore.
Lorenzo Lotto sguardato da Giovanni Frangi.
Lorenzo
Lotto
sguardato da Giovanni Frangi.
Per Lecco un “capolavoro” tutto da verificare.
A proposito della Mostra d’arte promossa e organizzata dalla Curia di Lecco:
«Capolavoro per Lecco:
Lotto. L’inquietudine della realtà. Lo sguardo di Giovanni Frangi.»
Lecco, Palazzo delle Paure / 5 dicembre 2020 – 6 giugno 2021.
La interessante iniziativa della Curia lecchese si inserisce meritoriamente (seppure con le peculiarità che evidenzieremo) nel preoccupante vuoto della programmazione culturale di qualità per la città di Lecco.
Ben venga quindi questa mostra su Lorenzo Lotto.
La quale, al contempo, impone però alcune riflessioni.
A proposito della Mostra d’arte promossa e organizzata dalla Curia di Lecco:
«Capolavoro per Lecco:
Lotto.
L’inquietudine della realtà.
Lo sguardo di Giovanni Frangi.»
Lecco, Palazzo delle Paure
5 dicembre 2020
6 giugno 2021.
La interessante iniziativa della Curia lecchese si inserisce meritoriamente (seppure con le peculiarità che evidenzieremo) nel preoccupante vuoto della programmazione culturale di qualità per la città di Lecco.
Ben venga quindi questa mostra su Lorenzo Lotto.
La quale, al contempo, impone però alcune riflessioni.
LA PRIMA, relativa al patrimonio culturale della città.
È opportuno riflettere sul come il Comune di Lecco abbia scelto di genuflettersi passivamente a questa iniziativa e di ritenersi così libero da ogni proprio impegno nei confronti dell’esperienza storica della città in campo culturale.
Accodandosi alla iniziativa della Curia, e senza proprie proposte autonome, la nuova Amministrazione mette di fatto la sordina a quel filone esperienziale (esemplificato dalle figure di Alessandro Manzoni e dell’Abate Stoppani) che costituisce da oltre un secolo la specificità culturale di Lecco nel nostro Paese e che proprio ora dovrebbe costituire un elemento forte di riferimento per la comunità.
In questa fase critica per la collettività, il Comune di Lecco, espressione di tutti i cittadini, avrebbe infatti potuto / dovuto attingere al formidabile patrimonio di idee e di riflessioni lasciatoci da Manzoni e Stoppani sui due temi da oltre un anno di maggiore attualità a livello mondiale:
— La crisi pandemica e la risposta della società.
La analizzò sul piano letterario Manzoni in modo ancora insuperato nella nostra epoca (nell’antichità il grande narratore ne fu Tucidide).
— La incontrollata e suicida antropizzazione del pianeta.
L’Abate Stoppani la evidenziò già 150 anni fa (fu il primo, a livello mondiale, a darne una precisa definizione) come la grande questione della nostra epoca, caratterizzata dalla cieca violenza sulla natura da parte dell’uomo.
Puntando su questi due straordinari figli della nuova Italia risorgimentale, a un tempo maestri di pensiero ed entrambi organicamente legati a Lecco, l’Amministrazione cittadina avrebbe potuto / dovuto conseguire il doppio risultato di evidenziare idee di grande attualità e insieme di mantenerne accesa la memoria, fondante per l’identità della città e dell’intera collettività lariana.
La miopia e l’impotenza progettuale della nuova Amministrazione hanno reso purtroppo finanche improponibile un progetto del genere.
LA SECONDA, sulla qualità della proposta incentrata su Lotto.
Quando la Curia di Lecco, per voce del Prevosto Milani, ha proposto l’iniziativa “Lotto: capolavoro per Lecco 2020”, è stato spontaneo pensare: e va bene! a fronte del nulla della Amministrazione concentriamoci pure su questa alternativa espositiva, nonostante la sua oggettiva scarsa incisività nel momento attuale!
Ma ci siamo anche detti: che questa alternativa sia però di alto livello!
Ossia che, almeno nel metodo, la proposta culturale centrata su Lotto fosse nel solco della qualità di Manzoni e Stoppani, campioni (ognuno nel proprio campo) di serietà e di onesta fedeltà al vero.
Abbiamo quindi ritenuto nostro dovere verificare quale fosse la “qualità” della proposta “Lorenzo Lotto a Lecco”.
In questa ottica ci siamo resi conto di una serie di criticità che il dipinto di Lotto esposto a Palazzo delle Paure presenta sotto almeno due profili:
— è tutta da riscrivere la sua storia proprietaria e critica;
— è solo frutto di fantasia l’interpretazione che se ne è voluto dare, in dispregio di qualsiasi base documentale.
Due negatività di cui non è necessariamente responsabile la Curia ma sulle quali la stessa potrebbe spendersi per contribuire a una più matura consapevolezza collettiva.
La Nota che segue è incentrata su questi due elementi critici, dando al lettore, in via preliminare, l’opportuno inquadramento sulla mostra.
1. In breve sulla mostra di Lecco.
La mostra è denominata «Capolavoro per Lecco: “Lotto. L’inquietudine della realtà. Lo sguardo di Giovanni Frangi”».
È stata inaugurata il 5 dicembre 2020 in Lecco, a Palazzo delle Paure (solo virtualmente, causa l’emergenza sanitaria); è stata aperta al pubblico il 6 febbraio 2021; era prevista durare fino al 6 aprile 2021 ma è stata recentemente prorogata fino al 6 giugno.
La mostra presenta affiancati un dipinto attribuito al pittore rinascimentale Lorenzo Lotto (1480-1557) e sette opere grafiche del pittore contemporaneo Giovanni Frangi (1959), realizzate come “esercizi di lettura” (l’espressione è di Frangi) del dipinto di Lotto.
L’esposizione è articolata su tre ambienti in cui il visitatore (non solo per ragioni legate alla situazione sanitaria ma per scelta culturale) è previsto sosti per un non brevissimo tempo predefinito, potendo godere dell’assistenza critica di studenti delle medie superiori del territorio di Lecco, istruiti (sono circa 300) al ruolo di “ciceroni” attraverso un apposito corso tenuto a cura della Curia di Lecco nel quadro delle proposte per l’alternanza scuola-lavoro.
Abbiamo chiesto agli organizzatori se per la formazione di questi studenti è stato predisposto uno specifico strumento conoscitivo: ci è stato risposto che i giovani si sono rifatti ai contenuti proposti anche nel sito Web dedicato alla mostra e nel Catalogo.
1.1 / Cosa è esposto e come è visionabile.
Prima di potere visitare di persona la mostra, avevamo trovato interessante la presentazione che ne ha fatto il 15 dicembre 2020 Laura Polo D’Ambrosio (“responsabile progetto”) agli operatori della stampa e dell’informazione.
La proponiamo al lettore per la chiarezza con cui D’Ambrosio ha esposto le finalità della mostra e i criteri della sua fruibilità, riuscendo a evidenziarne gli elementi più significativi.
SALA 1 — 15 minuti di presentazione del criterio informatore della mostra: al visitatore il dipinto di Lotto è mostrato alla fine di un percorso attraverso cui lo si vorrebbe collocare nella nostra contemporaneità.
A tracciare questo percorso è Frangi che con i suoi “esercizi di lettura” ci dovrebbe portare a cogliere nel dipinto di Lotto particolari che — indagati in profondità — consentirebbero una lettura nuova della realtà; per “conoscere Lotto” Frangi ha individuato nello scoiattolo un “particolare” stimolante.
SALA 2 — 15 minuti, 8 dei quali dedicati alla visione di un docu-film di Francesco Invernizzi sul come Giovanni Frangi è arrivato a realizzare le sette opere che egli espone a fianco di quella di Lotto.
Attraverso interviste a Frangi e generose carrellate sulle sue composizioni, il regista Invernizzi ci mostra passo passo come un artista del nostro tempo può dialogare con un collega di cinque secoli fa.
Tra i tanti possibili piani di sintonia con Lotto, Frangi ha scelto il colore.
SALA 3 — 15 minuti dedicati alla visione (sempre con il commento degli studenti-cicerone):
• delle 7 opere realizzate da Giovanni Frangi; con tecniche diverse; con formati anche grandi, per una superficie di 10,5 mq (venti volte la tela di Lotto); disposte su tre lati della Sala;
.
• del dipinto di Lorenzo Lotto; del 1522; su tela e a olio; qui denominato “Madonna con il Bambino tra i Santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria”; f.to cm 76×68 (0,5 metri quadri); posizionato sul lato di uscita della Sala.
Qui sotto presentiamo le 8 opere esposte nei loro reali rapporti dimensionali.
Secondo le aspettative prospettate da D’Ambrosio, al termine dei 45 minuti di permanenza in mostra lo spettatore dovrebbe avere maturato un proprio modo di “vedere” e “sentire” Lotto.
A dire il vero, visto il rapporto di 20 a 1 a favore di Frangi non solo nei metri quadri esposti ma anche nel minutaggio della mostra (quasi interamente occupato da Frangi e dal suo percorso artistico) ci pare che il visitatore sarà forse più facilitato ad avere qualche idea su Frangi piuttosto che su Lotto — ma questa è solo una nostra impressione.
1.2 / Chi promuove, organizza e detta la linea culturale.
La mostra è promossa e organizzata sostanzialmente dalla Curia lecchese con un robusto contributo finanziario di Fondazione Cariplo, pari a 50.000 Euro, a integrazione dei 50.000 raccolti attraverso donazioni (per la composizione delle donazioni vedi Appendice 1, doppio click) e la ancillare collaborazione del Comune di Lecco che:
— ha fornito gratuitamente gli spazi espositivi (e relativi servizi di biglietteria) di Palazzo delle Paure, per un valore stimato di Euro 14.000;
— ha ospitato sui media Web del Municipio gli annunci promozionali della mostra;
— ha dato un contributo diretto di Euro 20.000, 15.000 dei quali indicati dall’organizzatore come remunerazione a Giovanni Frangi per il suo sguardo a Lotto.
(Per la documentazione sul rapporto tra la Curia e il Comune di Lecco vedi Appendice 2, doppio click);
— nulla ha invece detto sul contenuto culturale della iniziativa, lasciato alla esclusiva discrezione e gestione della Curia.
Va da sé che questo ultimo aspetto non è marginale.
Tra gli elementi della molto citata “inquietudine” di Lorenzo Lotto, la documentazione predisposta per la mostra ignora infatti:
— la scoperta del continente americano con il conseguente sconvolgimento degli assetti economici e sociali europei che ne è seguito a partire dai primi decenni del medesimo secolo;
— la progressiva affermazione della concezione eliocentrica copernicana, resa pubblica nel 1543, undici anni prima che Lotto si facesse Oblato della Santa Casa di Loreto.
Non essendovi traccia di questi argomenti né sul sito Web dedicato alla mostra, né sul Catalogo ufficiale dell’iniziativa, si deve presumere che la formazione dei 300 studenti / cicerone non ne abbia tenuto conto.
Non è affatto scontato che una iniziativa culturale finanziata e, seppure nominalmente, partecipata in toto dal Comune, ignori nella sua documentazione pubblica (lo abbiamo visto, la medesima con cui sono stati formati i 300 studenti delle medie superiori del territorio) eventi di portata epocale, importantissimi per la nascita della moderna civiltà europea.
APPENDICE n. 1
Contributi e donazioni.
Sul piano economico la mostra di Lecco ha potuto contare su entrate complessive non trascurabili, pari a Euro 144.925.
1 — Il Comune di Lecco ha approvato a favore dell’organizzatore “Associazione Madonna del Rosario” (il Presidente è il Prevosto di Lecco, don Davide Milani) un contributo diretto di € 20.000; indiretto di € 14.000.
2 — Attraverso la piattaforma di INTESA SANPAOLO (dal 12 ottobre e nei 90 giorni prefissati) l’iniziativa ha potuto inoltre raccogliere € 60.925 di donazioni cui si è aggiunto un contributo di € 50.000 da parte di Fondazione Cariplo.
Può essere interessante indicare la composizione dei 60.925 Euro raccolti attraverso le donazioni, che possono dare una idea del grado di partecipazione della collettività.
Chi ha donato e quanto.
Dal sito della piattaforma www.forfunding.intesasanpaolo.com abbiamo registrato 103 donazioni per un totale di € 60.925.
Le 103 donazioni sono divisibili in 4 categorie (le esponiamo per importi decrescenti):
a. Imprese.
Registrate 7 donazioni per € 32.100, pari al 52,7% del totale.
Due imprese (20.000 + 5.000) hanno donato € 25.000 (il 77,9% del proprio comparto).
b. Anonimi.
Registrate 43 donazioni per € 13.400, pari al 22% del totale.
€ 9.500 (il 70,9% del proprio comparto) sono stati donati da 5 anonimi.
c. Associazioni.
Registrate 6 donazioni per € 8.350, pari al 13,7% del totale.
€ 6.500 (il 77,8% del proprio comparto) sono stati donati da 2 Associazioni.
d. Persone fisiche.
Registrate 47 donazioni per € 7.075, pari al 11,6% del totale.
€ 5.000 (il 70,7% del proprio comparto) sono stati versati da 2 persone, una delle quali — Giorgio Cortella — direttamente coinvolta quanto meno nella realizzazione degli strumenti di comunicazione dell’iniziativa.
Da segnalare che:
— 13 dei 103 donatori hanno raccolto € 46.000, pari al 75,5% del totale.
— la donazione complessiva ha potuto superare i 50.000 Euro (necessari per fare scattare l’integrazione del contributo di 50.000 Euro di Fondazione Cariplo) grazie alla donazione dell’impresa che ha erogato 20.000 Euro a pochi giorni dal termine del 31 dicembre 2020.
Appendice n. 2.
1.1 / DOMANDA DI CONTRIBUTO (9 novembre 2020) avanzata dalla «Associazione Culturale Madonna del Rosario ODV ONLUS» (Presidente Davide Milani), per la mostra «Capolavoro per Lecco 2020: “Lotto. L’inquietudine della realtà. Lo sguardo di Giovanni Frangi.”»
Questo il “bilancio preventivo” dell’iniziativa:
Prestito opera Lotto: € 5.000
Compenso Giovanni Frangi per opere: € 15.000
Allestimenti interni: € 12.000
Trasporto opera Lotto: € 2.600
Stendardi grafiche pannelli e totem: € 3.500
Assicurazioni: € 2.500
Da segnalare che il “prestito” dell’opera è stato presentato da Valagussa come “generoso”, certo involontariamente ingenerando nell’ascoltatore l’idea che fosse a titolo gratuito, il che non è: i “prestatori” saranno compensati almeno con € 5.000.
Da segnalare che il “prestito” delle opere a una esposizione pubblica genera sempre un loro aumento di valore monetario, oltre che una pubblicità del tutto gratuita, anch’essa propedeutica al medesimo incremento.
_______
1.2 / DELIBERAZIONE DI GIUNTA COMUNALE — CONCESSIONE DI CONTRIBUTO.
Numero 207, 19 novembre 2020.
Oggetto: Approvazione della mostra “Capolavoro per Lecco 2020 – Lotto. L’inquietudine della realta’. Lo sguardo di Giovanni Frangi” e collaborazione con l’Associazione Culturale Madonna del Rosario di Lecco.
2 / Utili informazioni preliminari.
Prima di entrare nel merito della storia proprietaria del dipinto e della sua vicenda critica è opportuno ricordarne alcuni elementi di una certa significanza, non detti o solo accennati dagli organizzatori della mostra di Lecco.
2.1 / Dipinto uno e trino.
È di proprietà privata; è parte della Collezione Palma Camozzi-Vertova ed è custodito presso il Castello Camozzi di Costa di Mezzate, a sei chilometri da Bergamo (da qui in poi, per comodità espositiva, lo chiameremo quindi “Costa-Mezzate”).
Il dipinto ha inoltre la caratteristica di essere stato proposto da Lotto in un’altra versione, sdoppiata in due esemplari quasi uguali.
Del dipinto in mostra a Lecco abbiamo quindi tre repliche: oltre al Costa-Mezzate, ve ne è un’altra a Boston, presso il Museum of Fine Arts; e un’altra ancora a Londra, presso la National Gallery.
Questi ultimi due “cugini” del nostro dipinto Costa-Mezzate, sono tra loro “gemelli” ma — ci sia consentita la libertà — “eterozigoti”: all’interno di una generale somiglianza presentano infatti rilevanti differenze anche strutturali.
Il Catalogo della mostra di Lecco fa opportuna menzione di questi “cugini” e ne mostra le immagini; non sviluppa però alcun confronto né tra di loro né con il nostro dipinto Costa-Mezzate (dei “cugini“ non riporta neppure le misure).
In occasione del Webinar del 23 febbraio 2021 (ne parleremo più avanti) Antonio Mazzotta (l’altro critico d’arte che si affianca a Valagussa a sostegno della mostra di Lecco) si è limitato a definirli “quasi identici” e a rilevarne una differenza nel pigmento usato per il mantello della Madonna (in Boston è il lapislazzulo, in Londra l’azzurrite) — torneremo noi, più sotto, a un più puntuale nostro raffronto tra i due dipinti.
Il mancato confronto tra i due “cugini” da parte di Valagussa e Mazzotta è un peccato: anche la individuazione del “significato” del dipinto non potrebbe infatti che avvantaggiarsi della conoscenza delle repliche che sul medesimo tema Lotto formulò attorno al 1520.
Comunque sia, per il momento invitiamo il lettore a memorizzare le tre repliche così come sono nei loro effettivi rapporti dimensionali (Costa-Mezzate, cm h 74×68 / Boston, cm h 94,03×77,8 / Londra, cm h 89,5×74,3) e a memorizzare che i tre dipinti hanno di decisamente simile:
— il nucleo centrale costituito da “Madonna + Bambino + cassapanca + cassetta di legno + cuscino”;
.— l’appariscente manica rossa della Madonna, una “trovata” pittorica attorno a cui Lotto in quegli anni realizzerà altre composizioni, raffiguranti Vergini, Sante o comuni mortali.
2.2 / Le mostre in cui è stato esposto.
Nei suoi 500 anni di vita, prima della mostra di Lecco, il dipinto è stato esposto al pubblico solo in tre mostre, tutte monografiche:
— «Mostra di Lorenzo Lotto», organizzata da Pietro Zampetti (Venezia, Palazzo Ducale, 14-06 / 18-10 1953);
— «Lorenzo Lotto. Il genio inquieto del Rinascimento», organizzata dalla National Gallery di Washington, in collaborazione con l’Accademia Carrara di Bergamo e itinerante tra Washington (2 nov. 1997 / 1 mar. 1998) – Bergamo (2 apr. / 28 giug. 1998) – Parigi (12 ott.1998 / 11 nov. 1999);
— «Lorenzo Lotto», Roma, Scuderie del Quirinale (2-03 / 12-06 2011), promossa da Roma Capitale.
Il dipinto fu inoltre presentato a Bergamo nel giugno 2016 in una brevissima apparizione “speciale” che ci sembra abbia lasciato tracce solo giornalistiche.
3 / L’identità del dipinto, la sua vicenda proprietaria.
Sulla base della documentazione disponibile al pubblico, il dipinto, attribuito a Lorenzo Lotto ed esposto dal 5 dicembre 2020 a Lecco, ha una storia proprietaria e critica decisamente opaca.
Tale comunque da sollevare più che legittimi interrogativi in chiunque desideri che su prodotti della cultura, proposti al pubblico anche a spese delle Istituzioni pubbliche, vi sia la massima trasparenza.
3.1 / Reticenza sulla proprietà.
Nonostante sia divenuto in questi mesi una delle icone maggiormente impiegate dalla Curia di Lecco in molti dei suoi messaggi ai fedeli, al pubblico è stato comunicato veramente poco sul dove il dipinto di Lotto sia conservato, su chi ne siano gli attuali proprietari e sulla sua storia critica.
Nel Catalogo della mostra di Lecco (p. 22) Mazzotta si è limitato a dire che
— «è probabile che già nel 1797 fosse parte delle raccolte di Giovan Battista Vertova nel castello di Costa di Mezzate»; che
— «ancora oggi l’opera è conservata nelle collezioni dei suoi discendenti»; che
— «Il primo a discutere criticamente il dipinto è Bernard Berenson nella sua celebre monografia lottesca del 1895.»
Ma quali sono queste “collezioni” e chi sono questi “discendenti”?
Naturalmente la legge (molto lacunosa in questa materia) non impone che questi elementi appaiono nei cataloghi delle mostre pubbliche: spesso infatti per i dipinti di privati la proprietà è tenuta anonima.
Ciò può essere entro certi limiti comprensibile — ma là dove è solida e bene accertata la genuinità dell’opera e la sua autografia.
3.2 / Debolezze e ambiguità della critica.
Là dove cioè la critica d’arte indipendente ha verificato in modo plausibile, trasparente e condivisibile che quella tale opera è effettivamente di quel tale artista e non — per esempio — una copia o coeva all’artista cui è attribuita o a lui successiva, magari anche di secoli.
Per dirlo in chiaro: non quando gli elementi conoscitivi sono trasmessi da expertise di comodo, spesso basate solo sulla notorietà del critico firmatario e sul fumo, come prassi di alcuni proprietari.
Siamo certi che questo non sia il caso del Costa-Mezzate: non sarebbe male, proprio sulla base di questa certezza, che proprietà e/o organizzatori rendessero pubblica, tra l’altro, l’expertise del dipinto in mostra a Lecco, certamente esistente.
Crediamo che il lettore abbia abbastanza esperienza e fantasia per potere benissimo considerare l’ipotesi — astratta si intende ma non così inverosimile — che sul dipinto esposto a Lecco come di autografia lottiana abbiano messo le mani altri artisti collegati o meno a Lotto oppure sia copia di una sua opera, il cui originale si è perso o riposa in qualche collezione in qualche parte del mondo, in attesa che maturi come investimento.
Sono anche recenti casi clamorosi di dipinti spacciati come di artisti molto quotati — e quindi anch’essi molto quotati da un punto di vista economico — che sono poi risultati di altri artisti meno noti, precipitando di valore.
La cosa non è secondaria dal momento che anche nel nostro tempo — e ancor più che per il passato — le opere d’arte hanno un mercato strettamente contiguo a quello finanziario, collocandosi in assoluto ai primi posti tra gli investimenti di maggiore redditività: se acquisto su una bancarella per 300 Euro un dipinto che sembra una crosta ma che risulta poi essere di Picasso, posso rivenderlo magari a 50 milioni di Euro, con un tasso di profitto inimmaginabile per qualunque attività produttiva o professionale.
Come il lettore potrà comprendere da quanto andremo a dire nel prosieguo di questa Nota, le domande che abbiamo posto
— chi sono i proprietari?;
— quanto è solida la testimonianza della critica?
non ubbidiscono semplicemente a una generica richiesta di trasparenza.
Sono al contrario elementi indispensabili per avere chiarezza su un’opera d’arte che nel suo mezzo millennio di vita non ha mai avuto un momento di pubblicità ed è emersa dalle ombre del passato solo a partire dal 1953 — ma anche allora con il lasciapassare di un apparato critico decisamente inconsistente.
In modo del tutto incomprensibile, gli organizzatori della mostra di Lecco, pur avendo messo più volte in rilievo la eccezionalità dell’occasione per visionare dal vivo questo dipinto di Lotto, ci sembra abbiano al contempo fatto tutto tranne che favorirne la reale conoscenza collettiva.
Anzi ci sembra si siano adoperati per velare quel poco che le precedenti esposizioni al pubblico avevano bene o male messo in luce.
Gli organizzatori e i loro critici di riferimento (per esempio) non hanno parlato MAI e IN NESSUNA OCCASIONE delle tre mostre che più sopra abbiamo richiamato e in cui il dipinto in questione è stato esposto al pubblico a partire dal 1953.
Con riguardo alla proprietà del dipinto (è un altro esempio) gli organizzatori sono decisamente silenti.
Il curatore artistico della mostra, Giovanni Valagussa, è anzi giunto al punto di affermare pubblicamente (Webinar del 23 febbraio 2021) che della identità dei proprietari del dipinto “è preferibile non dire nulla” mentre il moderatore del medesimo Webinar, Giorgio Cortella gli ha fatto eco parlando di una “promessa di riservatezza” fatta ai proprietari.
È curioso come questa mostra di Lecco abbia fatto emergere evidenti distonie su questioni rilevanti.
La identità della proprietà del dipinto è infatti resa perfettamente pubblica dalla Accademia Carrara di Bergamo in una pagina del suo sito Web (vedi qui), dedicata al dipinto ora esposto a Lecco:
«Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria è il primo capolavoro ospite proveniente da una straordinaria collezione privata, Palma Camozzi Vertova, che vuole così inaugurare un percorso di prestiti volto a rendere accessibile opere d’arte raramente visibili al pubblico.»
La mostra di Lecco ha quindi messo in luce un vero e proprio corto circuito informativo: il critico d’arte Valagussa, che chiede la riservatezza sulla proprietà del dipinto, è infatti Conservatore presso la medesima Accademia Carrara che ne dà invece aperta pubblicità: che succede? perché questa distonia tra il Conservatore Valagussa e la sua struttura di riferimento?
Da parte degli organizzatori della mostra di Lecco è comunque una presa di posizione piuttosto curiosa: dovrebbe essere infatti scontata per tutti la consapevolezza che la conoscenza della storia proprietaria di un dipinto è uno degli elementi chiave per comprenderne anche il significato culturale, tanto più a fronte di una storia critica decisamente lacunosa e densa di ambiguità, come poco più sotto mostreremo.
3.3 / Nel sito capolavoroperlecco.it solo un vago accenno alla critica di Berenson 1895.
Il 2 dicembre 2020 è stato reso disponibile al pubblico il sito Web dedicato alla mostra.
In questo importante strumento di comunicazione, al dipinto sono dedicate 419 parole che riprendono quanto già tracciato da Valagussa in interventi orali, condotti su uno schema dallo stesso enunciato già nel 2016 per la breve esposizione del dipinto a Bergamo: predizione del dramma della crocifissione; presenza insolita ma particolarmente significativa dello scoiattolo; irrequietezza; ansia; turbamento; inquietudine (la parola multiuso di questa mostra).
Rispetto alla storia critica del dipinto, seppure debolmente, nel sito Web sono accennati due elementi integrativi.
Il primo è finalmente un accenno alla storia critica del dipinto, attraverso un richiamo a Berenson (evidenziazioni nostre):
«È un’opera ancora oggi poco nota a causa della sua localizzazione in una collezione privata, benché Bernard Berenson la pubblicò nella sua monografia dedicata a Lorenzo Lotto già nel 1895.»
Come già anticipato, questo riferimento a Berenson 1895 poggia su basi del tutto inconsistenti: il dipinto che Berenson descrisse nel suo “Lorenzo Lotto” del 1895 non ha infatti nulla a che vedere con quello esposto in questi mesi a Lecco (lo dimostriamo poco più avanti).
3.4 / Nel Catalogo qualche notizia in più.
Ma con incomprensibili omissioni.
«La prima notizia sull’opera risale al 1720 circa, quando forse era già in casa Pezzoli a Bergamo, dove invece si trova sicuramente nel 1793, anno delle Vite di Francesco Maria Tassi che la definisce “pregiatissima […] e tanto ben conservata, che non pare dipinta sin dall’anno 1522 ma sembra che ora uscita sia dal pennello”. Poco dopo forse passa di proprietà, perché è probabile che già nel 1797 fosse parte delle raccolte di Giovan Battista Vertova nel castello di Costa di Mezzate. L’unica erede di Giovan Battista, Elisabetta, sposa intorno al 1806 Andrea Camozzi de Gherardi: tra i loro figli emerge la figura di Giovanni Battista Camozzi Vertova, primo sindaco di Bergamo: ancora oggi l’opera è conservata nelle collezioni dei suoi discendenti.
.
Il primo a discutere criticamente il dipinto è Bernard Berenson nella sua celebre monografia lottesca del 1895. Lo studioso americano di origine lituana ha inoltre il merito di collegarlo a una simile composizione allora nelle raccolte londinesi di Martin Colnaghi, e oggi alla National Gallery di Londra.»
Più sotto analizzeremo in dettaglio queste brevi note di Mazzotta; per il momento segnaliamo la cautela di quel “forse” e di quel “probabile“, onesta ammissione di come sulla storia del dipinto non si sappia praticamente nulla.
Meno decifrabili invece i riferimenti alla più recente vicenda critica del dipinto.
Mazzotta nulla dice — per esempio — delle mostre monografiche su Lotto in cui il dipinto è stato esposto, in questo perfettamente in linea con Valagussa e il sito Web.
O meglio, ne accenna qualche cosa ma solo nei riferimenti bibliografici, in modo incompleto e purtroppo incomprensibile al normale pubblico che non è tenuto a saper decifrare i segnali di fumo (Catalogo, p. 32):
«M. Lucco, in “Lorenzo Lotto. Il genio inquieto del Rinascimento”, catalogo della mostra, a cura di D.A. Brown, P. Humfrey, M. Lucco, Milano 1998, pp. 125-127. 145-147, nn. 18,24».
.
«F. Fracassi, in “Lorenzo Lotto”, catalogo della mostra, a cura di G.C.F. Villa, Cinisello Balsamo 2011, pp. 176-177, n. 26».
Sfidiamo chiunque a ricavarne dove e quando si siano svolte queste mostre (a Milano? a Cinisello Balsamo?) — francamente questo di Mazzotta non è un gran contributo alla conoscenza partecipata.
Di più: sulla prima mostra dedicata in Italia interamente a Lotto, la capostipite della rivalutazione di Lotto nel secolo scorso (Venezia, 1953) da parte di Mazzotta — invece — silenzio tombale.
Così come silenzio tombale troviamo in questo Catalogo di Lecco 2020 sulla testimonianza (1867) di Pasino Locatelli e di Giovanni Battista Cavalcaselle (1870) su un dipinto che parrebbe proprio quello esposto a Lecco — ma di questo per esteso poco più sotto.
4. Ignorati Locatelli e Cavalcaselle.
Fatta questa doverosa segnalazione di elementi da avere presenti in via preliminare, pensiamo che il lettore possa seguirci nello sviluppo delle nostre considerazioni, che sintetizziamo subito per comodità:
È corretto il riferimento a Berenson 1895 come primo assertore dell’autografia lottiana del dipinto Costa-Mezzate in mostra a Lecco?
Detto in altri termini: Berenson nel 1895 scrisse effettivamente di quel dipinto o questa è una fantasia trasformata in realtà da generazioni di critici d’arte con il tardivo ma esplicito e deviante consenso dello stesso Berenson?
Per rispondere può essere utile riprendere il percorso espositivo di Mazzotta (lo abbiamo più sopra riportato per esteso) integrandolo nelle zone da lui lasciate in ombra e completandolo con altri dati documentari da lui perfettamente ignorati.
4.1 / «La prima notizia dell’opera risale al 1720»
Da Mazzotta il riferimento al 1720 è dato senza fonte o contesto — facciamo quindi noi da supplenti.
Si tratta di:
G.B. Angelini, “Descrizione di Bergamo in terza rima (Bergamo descritto nel 1720)”; manoscritto autografo (pubblicazione a stampa: Bergamo, Edizioni dell’Ateneo, 2002).
In questo suo testo in terza rima lo storico e letterato Giovanni Battista Angelini (1679-1767) parlando delle opere d’arte di proprietà di facoltose famiglie bergamasche, così verseggia (p. 38 dell’edizione a stampa 2002):
«Casa Pezzoli pur ne tien due pezzi,
Un di Lorenzo Lotti, uno di Titiano».
Tutto qui.
Attenzione: Angelini non ci dice — in rima o meno — “cosa” fosse raffigurato nel dipinto indicato come in Casa Pezzoli: possiamo solo presumere che lo storico bergamasco si riferisse al dipinto ora in mostra a Lecco.
In proposito può però essere utile ricordare che artisti di livello come era Lorenzo Lotto negli anni della sua permanenza a Bergamo (1513-1526), oltre ai lavori di ampia concezione (rappresentati generalmente da commesse di strutture pubbliche o della Chiesa) era normale svolgessero anche attività di minore impegno per la committenza privata (ritratti, per ricordare matrimoni, ecc. – i cosiddetti “lavori da cavalletto”).
È documentato che un pittore esperto come Lotto potesse agevolmente ogni anno produrre anche diecine di dipinti di quel tipo.
È quindi del tutto verosimile supporre che nei tredici anni passati nel bergamasco egli abbia prodotto alcune centinaia di lavori “minori”, come è, per esempio, il Costa-Mezzate su cui stiamo ragionando.
Nulla di strano, quindi, che in una medesima dimora patrizia o alto borghese della zona potessero all’epoca sua e nei secoli successivi essere ospitati più di un suo dipinto.
Il riferimento ad Angelini è quindi da annotare ma francamente poco significativo.
4.2 / «In casa Pezzoli a Bergamo …».
Non comprendiamo perché Mazzotta abbia purgato il testo di Tassi proprio sul più bello, dove questi descrive il dipinto.
Comunque, anche qui facciamo da supplenti e riportiamo il Tassi per esteso, prendendolo dall’originale (“Vite de’ Pittori, Scultori e Architetti Bergamaschi” — Bergamo, 1797, p. 125, evidenziazione nostra):
«In casa Pezzoli sul mercato delle scarpe vedesi una pregiatissima opera, e tanto ben conservata, che non pare dipinta sin dall’anno 1522, ma sembra che ora uscita sia dal pennello; in questa è espressa la Vergine col Bambino in seno tra Santa Cattarina, e San Giambattista [ecc.]».
Come si vede, Tassi è più dettagliato di Angelini nel descrivere le sacre figure rappresentate nel dipinto: pur non dicendoci il contesto che le unisce, potremmo comunque ragionevolmente pensare che il Tassi abbia descritto proprio il dipinto Costa-Mezzate di nostro interesse.
È però da rilevare che Tassi non nomina lo scoiattolo, una presenza certo non frequentissima nella pittura dell’epoca, soprattutto con quella invadenza da Lotto ben rimarcata nel dipinto esposto a Lecco, anche se non così rara come più volte accennato da Valagussa nei suoi interventi orali.
4.3 / Bibliografia censurata: ignorato Pasino Locatelli e il suo “scojatto”.
Come anticipato, Mazzotta (così come Valagussa e il sito Web della mostra di Lecco) tace su un noto studioso bergamasco, insegnante, pubblicista, storico dell’arte e critico, che in un suo testo pubblicato nel 1867 (quindi trent’anni prima di Berenson) descrisse in modo molto dettagliato (pp. 91-92) un dipinto che è certo il Costa-Mezzate in questi mesi esposto a Lecco:
«La tela quadrangolare di casa Camozzi, con mezze figure un terzo al vero, se pure si può bene rilevare l’ultimo numero dell’anno, che v’è segnato, dovrebbe essere del 1522.
.
Novità e bizzarria spiccano in questo quadro. La Madonna tiene il figlio in piedi sopra un cofano di legno con manico d’acciajo: a destra ha S. Giovanni, a sinistra S. Caterina. Quest’ultima porta de’ vezzi nelle chiome e stringe fra le braccia uno scojatto.»
Il brano è tratto da “Illustri bergamaschi / Studi critico-biografici”, Bergamo, 1867, in tre volumi, il terzo dei quali è dedicato ai “Pittori” e consta di 475 pagine.
L’autore è Pasino Locatelli, patriota e democratico, combattente alle 5 Giornate di Milano, amico, sodale e compagno in armi del più noto Gabriele Camozzi, il comandante della garibaldina famosa “Colonna Camozzi”; proprietario (o quanto meno comproprietario) del dipinto di cui trattiamo (inspiegabilmente Mazzotta ne tace, citando solo il fratello Giovanni Battista).
Attivo nella cultura cittadina, Locatelli fu sempre molto attento alle vicende artistiche e nel 1883 divenne direttore della “Società di Incoraggiamento alle Arti Belle” di Bergamo.
Nell’immagine satirica sopra riportata (scaturita da una sua polemica con l’Accademia Carrara) Locatelli impugna una penna “all’ultimo sangue” e uno scudo “Progresso e Novità”, a riprova del suo impegno pubblico a favore di un’arte innovativa e attenta alle esigenze sociali.
Tra i molti suoi scritti relativi alla pittura, nel 1891 pubblicò l’utile e informato volumetto “I dipinti di Lorenzo Lotto nell’Oratorio Suardi in Trescore Balneario”.
Questa figura di intellettuale, ben noto, certo non mediocre e buon conoscitore di Lotto, ha avuto, a proposito del dipinto di cui trattiamo, un ben curioso trattamento da parte della critica d’arte:
— è l’unico che abbia descritto in un lavoro specifico sui pittori operanti in ambito bergamasco un dipinto con contenuti decisamente coerenti a quello esposto a Lecco;
— ed è anche l’unico che — per la storia di questo dipinto — sia stato ostentatamente ignorato dalla critica d’arte, a cominciare da Berenson, Banti/Boschetto, Zampetti per continuare con Lucco, Fracassi e finire con Mazzotta e Valagussa.
La cosa curiosa è che — a fronte del silenzio stupefacente di Mazzotta e Valagussa sulla sua descrizione dettagliatissima del dipinto Costa-Mezzate — la sua opera sui pittori bergamaschi (per un certo periodo Locatelli, come molti altri, ritenne Lotto di origini bergamasche), è stata ed è tuttora molto citata dalla critica d’arte, a cominciare dallo stesso Berenson 1895 che anche ne lodò esplicitamente la qualità, pur non facendo a sua volta alcuna menzione al contributo di Locatelli sul dipinto con lo scoiattolo.
Torneremo più avanti su Locatelli e sulle ragioni del silenzio di Berenson.
4.4 / Ancora sulle censure bibliografiche: ignorato Giovan Battista Cavalcaselle.
Ci pare opportuno ricordare anche le interessanti e molto documentate note che a proposito del dipinto Costa-Mezzate ha abbastanza recentemente pubblicato una molto brillante critica d’arte di Bergamo (Olga Piccolo «Le opere di Lorenzo Lotto a Bergamo. Questioni di critica e mercato nei manoscritti di Cavalcaselle.», Saggi e Memorie di storia dell’arte, n. 41, 2017, p. 179 e succ.).
Da parte nostra ci limitiamo a farne una cernita, invitando il lettore a leggere integralmente i due testi di Piccolo in cui si tratta del dipinto.
«Un caso particolarmente significativo […] è rappresentato dalla Madonna Camozzi-Vertova. L’opera era stata vista nella collezione Camozzi a Bergamo da Mündler nel 1857 che la aveva ritenuta “affascinante”, segnalando che già all’epoca era “probabilmente ottenibile”.
Una decina di anni dopo, [Cavalcaselle] la ricordava nei manoscritti come in casa Giulini a Milano (61) e nella History precisava che non era stato possibile visionarla dal vivo [ndr: si tratta della “History of painting in North Italy”, scritta a quattro mani da Cavalcaselle con Joseph Archer Crowe, Londra, 1871].»
._______
Nota 61):
«Un quadro di proprietà di Gabriele Camozzi di Bergamo depositato in casa del conte Giulini in Milano pittura che non abbiamo potuto vedere nelle diverse volte presentato alla casa Giulini quindi diamo queste relazioni avute dal proprietario.
“Il quadro è della dimensione in altezza di metri 0,74 profondità 0,69. Porta il nome scritto in latino, carattere corsivo, e la data 1532, scritto sull’orlo di un tavolo che sopporta la Madonna ed una cassettina, che serve a sostenere un guanciale, su cui trovasi il timbro [sic!]. Le figure sono in numero di quattro San Giovanni Battista – la Madonna il putto e S. Catterina. Il quadro trovasi nella sua relativa conservazione, difetta forse di troppa vernicie, ma questa si potrà togliere colla massima facilità, essendo di non troppa vecchia data e che polverizza facilmente».
Da questa relazione voi prendete ciò che vi piace – Locatelli dice a pag. 91 che ha la data 1522 – il proprietario mi manda invece l’anno 1532 – noi non possiamo giudicare senza vedere l’opera. […]”».
Olga Piccolo così continua:
«Donata Levi ha reso noto un particolare interessante contenuto in uno dei diari di Boxall che attuò tre viaggi in Italia tra il 1866 e il 1869 per prendere visione di opere da acquisire per il museo londinese. Alla data del 26 novembre 1869 Federico Sacchi, il segretario privato (e ufficiosamente advisor) del direttore inglese, registrava sul diario: Sacchi andò a fare un appuntamento [a Firenze] col Cavalcaselle per la sera […].“Il Cavalcaselle poi parlò anzi propose un dipinto ad olio su tela di Lorenzo Lotto datato e firmato (del 1522) di proprietà del Cavalier Camozzi [Gabriele, NdR] di Bergamo da lui depositato in casa del conte Giulini a Milano.
Il Camozzi poco tempo fa venne a Firenze e si raccomandò a Cavalcaselle per vedere se c’era un mezzo da vender bene il quadro — questi promise di parlarne, ma poi udì che il Camozzi in tre giorni morì di febbre tifoidea a Bergamo — per cui non sapeva a chi rivolgersi per avere informazioni circa il quadro.
Sei giorni or sono però un […] amico di Cavalcaselle, gli disse che il quadro era sempre a Milano in casa Giulini, che la famiglia versava in condizioni economiche assai tristi, e che sarebbe disposta a venderlo anche subito per quanto gli era stato detto, il che si sarebbe potuto verificare da un nipote del conte Giulini qui a Firenze (63).
[…] Cavalcaselle nei giorni successivi fornirà altre indicazioni per agevolare la vendita del quadro, senza però esserne di fatto direttamente coinvolto. Alla fine la trattativa fallirà, […] (64).
_______
Nota 64) — Cavalcaselle fornisce a Boxall la descrizione del quadro contenuta negli “Illustri Bergamaschi” di Pasino Locatelli (1867), fa conoscere a Sacchi il dottor Facco; questi comunica che in realtà il dipinto era a Bergamo, ma era stato dato in pegno al conte Giulini per denari da lui prestati a Gabriele Camozzi. I Giulini non intendevano però cedere il dipinto se non dietro l’esborso della stessa cifra prestata. Alla fine i Camozzi riferiranno a Boxall che preferivano sospendere la trattativa […].
Come si vede, sulla storia del dipinto esposto a Lecco c’era da dire veramente molto ma gli organizzatori della mostra e i loro critici di riferimento hanno preferito non dirne quasi nulla, ignorando il contributo di illustri critici d’arte del passato ma anche dei loro brillanti colleghi di oggi.
Diamo un suggerimento: in uno dei Webinar dedicati al dipinto dalla Curia lecchese e dagli organizzatori della mostra, sarebbe bello intervenisse un rappresentante della proprietà a narrarci le interessanti vicende — anche vicine alla vita della giovane Italia risorgimentale — attraverso cui il dipinto di cui ci occupiamo è riuscito a giungere a noi a quasi cinque secoli della sua creazione nello splendido stato descritto dagli organizzatori e dallo stesso Giovanni Frangi, incantato dalla freschezza incontaminata del suo colore.
5. Assolutamente infondato il richiamo a Berenson ma da tutti acriticamente fatto proprio.
5.1 / Mazzotta: «Il primo a discutere criticamente il dipinto è Bernard Berenson, 1895.»
Come abbiamo già più volte anticipato, il riferimento a Berenson da parte di Mazzotta (e del sito Web dell’evento) è purtroppo del tutto infondato ancorché nel solco di una consolidata vulgata cui la crème de la crème della critica internazionale si è allineata, proprio come le pecore di Dante (o di Manzoni, se preferite).
Vediamo ora di illustrare il perché.
Per comodità del lettore, ripetiamo il già citato brano di Mazzotta sul Catalogo della mostra (p. 22, evidenziazioni nostre):
«Il primo a discutere criticamente il dipinto è Bernard Berenson nella sua celebre monografìa lottesca del 1895. Lo studioso americano di origine lituana ha inoltre il merito di collegarlo a una simile composizione allora nelle raccolte londinesi di Martin Colnaghi, e oggi alla National Gallery di Londra.»
Data la pluridecennale sedimentazione di una sconcertante incapacità di lettura (nel senso proprio del termine), che vedremo comune anche agli organizzatori di questa mostra di Lecco, è opportuno procedere in modo sistematico, percorrendo quattro tappe: Berenson 1895; Berenson 1932-36; Banti / Boschetto / Zampetti 1953; Berenson 1955.
5.2 / Berenson, 1895.
Monografia “Lorenzo Lotto”.
Nel 1895, dopo oltre tre anni di complessa e più volte rivista scrittura, Bernhard Berenson pubblicò la monografia “Lorenzo Lotto. An essay in constructive art criticism” (New York-London, 1895).
È opportuno sottolineare che per il trentenne Berenson si trattava allora del suo lavoro più impegnativo.
Di esso egli tenne a sottolineare l’affidabilità affermando di «avere visto di persona tutte le opere di Lotto da lui descritte» (vedi sia la Prefazione della monografia stessa, sia, in modo ancora più esplicito, la “Prefazione” dell’altro suo testo “The Venetian painters of the renaissance” apparso anch’esso nel 1895).
Sua intenzione era infatti di offrire alla critica internazionale uno strumento che consentisse di attribuire a Lotto le opere effettivamente da lui prodotte — e ciò senza alcuna incertezza.
La monografia, edita solo in lingua inglese (non verrà mai tradotta in italiano), ne confermò la approfondita conoscenza della pittura italiana rinascimentale e gli assicurò un posto di rilievo nel mondo della critica d’arte.
Propedeutico anche all’ingresso nel lucroso e periglioso mondo della intermediazione commerciale d’arte (al mediatore andava dal 5 al 10% del valore dell’opera intermediata) dominata ai primi del ’900 dai miliardari statunitensi.
Berenson poteva contare sulla ben fornita borsa di Isabella Stewart Gardner con la quale cominciò a concludere i suoi primi rilevanti affari di intermediazione.
Porsi come conoscitore diretto e preciso delle opere d’arte era per il giovane critico una condizione indispensabile non solo per affermarsi come studioso ma anche per potere partecipare al banchetto della esportazione lucrosa (ancorché in molti casi illegale) delle opere d’arte dal nostro Paese verso gli USA in quel fine ’800 inizi ’900.
È opportuno anche avere chiaro che Berenson realizzò tutti i suoi lavori di quel periodo con la sistematica e decisiva collaborazione di Mary Whitall Smith.
Questa brillante cittadina statunitense, compagna di vita, di lavoro e di studio di Berenson deve essere considerata a tutti gli effetti co-autrice dei suoi libri, soprattutto in quei primi anni di attività, nonostante il suo nome non compaia mai sulle copertine delle opere di Berenson, e ciò esclusivamente per un rispetto alle convenienze sociali.
Mary era infatti sposata dal 1885 a B.F.C. “Frank” Costelloe con cui ebbe due figlie e che morì nel 1899. Con Berenson coltivò quindi per anni una relazione nota a tutti ma tenuta su un registro di ufficiale clandestinità.
Quando parleremo di Berenson fino al 1945 (in quell’anno morì Mary), intendiamo quindi parlare sempre della coppia Bernhard / Mary: due teste molto bene allenate e quattro occhi, perfettamente funzionanti.
5.3 / Madonne e Sante avvenenti e benissimo vestite.
Nella monografia lottesca del 1895, nel considerare la produzione di Lotto nel 1522 (pp. 186-187), Berenson espose in modo chiaro una sua idea decisamente originale e niente affatto banale.
Secondo il critico statunitense, in quell’anno 1522 Lotto avrebbe sperimentato un genere particolarmente raffinato, caratterizzato dalla figura della Madonna e di Sante, molto avvenenti e vestite con ricercatezza, presentate con uno stile altamente sofisticato.
[«The year 1522 is represented by three dated works, all of the same peculiarly dainty type, in which the Madonna or female saints are beautifully dressed, lovely women, treated in a way bordering on highly refined genre»].
Invitiamo il lettore a fissare nella memoria questo originale approccio di Berenson:
nel 1522, a Bergamo, Lotto produsse almeno tre dipinti il cui elemento più evidente non è un qualsivoglia richiamo alla religiosità ma l’avvenenza e la eleganza nell’abbigliamento della Madonna e di Santa Caterina.
5.4 / Tre le opere del filone “avvenenza e ricercatezza” citate da Berenson.
A illustrazione della sua idea sull’esperimento di rappresentazioni mondane di Sante Figure che avrebbe sviluppato Lotto nel 1522, Berenson (senza riportarne la raffigurazione) richiama tre dipinti, a cominciare da quello che ritiene il più “affascinante” (usa l’espressione “the most charming”) e che la critica d’arte da oltre cento anni considera la prima citazione contemporanea del Costa-Mezzate.
5.5 / Primo dipinto – Costa di Mezzate
MARRIAGE OF ST. CATHERINE.
Berenson (p. 186-187, evidenziazioni nostre):
«Castello di Costa di Mezzate (near Gorlago Station). Marriage of St. Catherine.
Inscribed, in script: Laurentius Lotus, 1522. Figures half life-size and rather more than half length. Mentioned by Tassi (Vite, vol. 1., p. 125) as being in Casa Pezzoli, at Bergamo.
The Madonna leans back as if she were a little tired, and watches the play between the Child and the beautiful St. Catherine.
The Madonna herself is more beautiful still. She has golden-brown hair and soft brown eyes, and in type is half way between the Madonna of 1521, and the one in the Marriage of St. Catherine of 1523, to which we shall come presently.
St. Catherine wears pearls and jewels in her amber-brown hair, and is wreathed with laurel and periwinkle. The colouring is bright and clear.».
Diamo la nostra traduzione:
«Castello di Costa di Mezzate (vicino alla stazione di Gorlago). Sposalizio di Santa Caterina.
Inscritta la dicitura: Laurentius Lotus, 1522. Figure a metà del naturale per poco più di metà altezza.
Menzionato da Tassi (Vite, vol. 1, p. 125) come presente in Casa Pezzoli, a Bergamo.
La Madonna si appoggia indietro come se fosse un poco stanca, e guarda il gioco che si svolge tra il Bambino e la bellissima Santa Caterina.
La Madonna è essa stessa ancora più bella. Ha i capelli castano-dorati e dolci occhi bruni; come tipo è esattamente a mezza via tra la Madonna del 1521 e la Madonna delle Nozze di Santa Caterina del 1523, che vedremo tra breve.
Santa Caterina porta perle e gioielli nella sua capigliatura castano-ambrata, ed è inghirlandata di alloro e pervinca. I colori sono chiari e puri.»
Qui mostriamo i dipinti di Lotto cui si riferisce Berenson con le espressioni “Madonna del 1521” e “Madonna delle Nozze di Santa Caterina del 1523”: si tratta della “Madonna con Bambino e i Santi Rocco e Sebastiano”, 1521 (Ottawa, Canada) e delle “Nozze mistiche di Santa Caterina con il donatore Niccolò Borghi”, 1523 (Accademia Carrara, Bergamo): secondo Berenson la Madonna di Costa di Mezzate da lui descritta stava “a mezza via” tra le due Madonne rappresentate in quei due dipinti.
Prima di passare agli aspetti descrittivi di questa scheda di Berenson del 1895, ne sottolineiamo una solo apparente incongruenza.
Come unica fonte bibliografica Berenson cita il Tassi (per comodità ne riportiamo il brano: «una pregiatissima opera [dell’anno 1522, in cui] è espressa la Vergine col Bambino in seno tra Santa Cattarina, e San Giambattista»).
Come è evidente, Tassi è generico e la sua descrizione potrebbe adattarsi a più dipinti; è comunque normale che Berenson ne faccia menzione.
La apparente incongruenza è invece che Berenson ignori Locatelli il quale, a differenza di Tassi, non è affatto generico ma anzi molto dettagliato sulla composizione del dipinto, come abbiamo già ricordato sopra:
«La tela quadrangolare di casa Camozzi, con mezze figure un terzo al vero, se pure si può bene rilevare l’ultimo numero dell’anno, che v’è segnato, dovrebbe essere del 1522.
La Madonna tiene il figlio in piedi sopra un cofano di legno con manico d’acciajo: a destra ha S. Giovanni, a sinistra S. Caterina. Quest’ultima porta de’ vezzi nelle chiome e stringe fra le braccia uno scojatto.»
Anticipiamo che questo silenzio di Berenson non è affatto fuori luogo: Tassi e Locatelli parlano infatti di due dipinti diversi — ma di questo vedremo meglio più sotto.
Passando alla descrizione di Berenson, chiediamo al lettore di fissare i termini inequivocabili da lui usati nel 1895 per descrivere la Madonna e Santa Caterina.
La Madonna:
— “si appoggia indietro”, e
— “guarda il gioco che si svolge” tra il Bambino e Caterina.
Dal canto suo, Santa Caterina:
— porta “perle e gioielli”, ed è
— inghirlandata di “alloro e pervinca”.
5.6 / Seconda opera – Londra
Madonna e Santi.
Ricordando che in queste tre pagine della sua opera, Berenson riporta esempi di un “genere” di pittura da lui definito “raffinato” (non è alla ricerca di repliche, copie, o altro), passiamo al secondo esempio di Madonna bella ed elegante da lui proposto (p. 187, ne diamo solo la nostra traduzione, il testo inglese è già stato riportato sopra):
«La stessa Madonna appare in un dipinto che ha molto sofferto ed è stato restaurato con acquarello ma rimane comunque piacevole:
Londra, Mrs. Martin Colnaghi. Madonna e Santi.
La Madonna è seduta davanti a un tendaggio verde, aperto su un sereno paesaggio che appare a sinistra [ndr: del riguardante] tra San Gerolamo e Sant’Antonio da Padova [ndr: San Nicola da Tolentino], in abito grigio, che tiene nella mano un lungo stelo di giglio bianco.
Figure al ginocchio, metà del reale.»
Il lettore ricorda certo che quella “stessa Madonna”, citata da Berenson, è quella del “cugino” che abbiamo già mostrato e che riproponiamo per comodità (ai tempi di Berenson nella collezione Colnaghi di Londra, oggi alla National Gallery della capitale inglese).
Dalle parole di Berenson appare chiaro che egli non era interessato a cogliere una qualche vicinanza strutturale tra i due dipinti (quello da lui visto a Costa di Mezzate e quello della collezione Colnaghi di Londra).
Rilevava solo la forte somiglianza di un elemento comune ai due — egli addirittura scriveva “la stessa Madonna”.
Del resto è ovvio: Berenson diede al dipinto da lui descritto il titolo “Sposalizio di Santa Caterina” perché — evidentemente — questo rappresentava inequivocabilmente il momento della mistica unione tra la Santa e il Bambino.
Ma nel dipinto di Londra, in cui egli ravvisava “la stessa Madonna” di quello che lui descriveva, non c’è alcuna traccia né di matrimonio né della stessa Santa Caterina.
Ai lati della Madonna e del Bambino ci sono infatti il vecchio San Girolamo e il giovane San Nicola da Tolentino, di cui Berenson non fece menzione.
Così come ignorò la inedita costruzione “cassapanca / cassetta / cuscino” su cui in Londra si articola il blocco centrale “Madonna / Bambino” e che da quaranta anni oggi costituisce il centro dell’attenzione della critica.
5.7 / Terza opera – San Pietroburgo.
Santa Caterina.
Berenson ci descrive poi il terzo tipo di donna “bella ed elegante” che egli ravvisa nel dipinto da lui visto al Castello di Costa di Mezzate.
Questa volta non si tratta della Madonna ma di Santa Caterina.
Di questa altra espressione di un “tipo”, Berenson ci dice di non avere potuto vedere l’originale ma solo una sua incisione (p. 187, traduzione nostra):
«Ma anche più delicata e raffinata, un Simone Martini o un Crivelli ambientati nel Cinquecento, deve essere una Santa Caterina, a me nota solo attraverso un’incisione:
San Pietroburgo, Collezione Leuchtenberg. Santa Caterina.
La santa reca una corona ingioiellata e perle tra i capelli; ha il capo leggermente inclinato a destra mentre la figura lo è un po’ a sinistra; incrocia le mani sulla ruota [188] che a malapena lascia scorgere il parapetto dietro il quale la santa è in piedi. Nella mano destra tiene un ramo di palma, sottile e aggraziato come nella S. Giustina di Alvise.
Inscritta è la dicitura: Laurentius Lotus, 1522. Mezza altezza.
Inciso da N. Muxel nel sua opera sulla Galleria Leuchtenberg. Joseph Baer, Francoforte, 1852.»
Qui riportiamo sia l’incisione cui faceva riferimento Berenson (ma senza che egli ne mostrasse l’immagine) sia il dipinto originale su cui fu ripresa l’incisione stessa.
Da notare che Santa Caterina indossa esattamente la medesima veste rossa già indossata dalle Madonne nelle tre varianti Boston, Londra, Costa-Mezzate, a riprova di come Berenson fosse guidato nella sua analisi da motivi puramente estetici e stilistici, con nessuna attenzione sia alla composizione strutturale dei dipinti da lui descritti sia ai loro supposti contenuti spirituali o culturali.
5.8 / Indispensabile una onesta riflessione.
Facciamo un piccolo passo indietro, verso la prima Madonna descritta da Berenson, quella dello “Sposalizio di Santa Caterina” del Castello di Costa di Mezzate — di cui riportiamo i passi di immediato interesse:
«The Madonna leans back as if she were a little tired, and watches the play between the Child and the beautiful St. Catherine. [ecc.]».
(La Madonna si appoggia indietro come se fosse un poco stanca, e guarda ciò che accade tra il Bambino e la bellissima Santa Caterina.»).
Chiediamo al lettore di confrontare questa descrizione con il dipinto in mostra a Lecco e di rispondere tra sé e sé a cinque semplici domande.
5.9 / Primo: qual è il tono generale del dipinto?
Il lettore, guardando il dipinto Costa-Mezzate, in questi mesi esposto a Lecco, vi trova alcunché di “matrimoniale” tra il Bambino e Santa Caterina, come è sottinteso nel titolo datogli da Berenson (Marriage of St. Catherine), oppure vi trova altro?
Solo a titolo di esempio, Valagussa e Mazzotta (ma molti altri già 40 anni prima di loro) ci vedono una forte predizione della morte tragica del Bambino; sono quindi piuttosto lontani dal vedervi segni di un qualche contesto “matrimoniale”.
E infatti, il titolo con cui il dipinto è presentato al pubblico da quasi 100 anni non è quello usato da Berenson — “Sposalizio di Santa Caterina” — ma “Madonna con Bambino tra i Santi Giovanni Battista e Caterina”: nel tempo qualsiasi traccia del “matrimonio” ricordato da Berenson è stato quindi cancellato.
Perché?
E perché Berenson avrebbe dovuto indicare come “Sposalizio” una scena in cui Santa Caterina compare ma senza alcun riferimento al suo particolare legame con il Bambino?
Non dimentichiamo che in moltissimi dipinti coevi a Lotto — e anche dello stesso Lotto — Santa Caterina compare assieme ad altri Santi attorno alla Madonna e al Bambino ma senza che mai a nessuno sia venuto in mente di indicarli come “sposalizi” (qui mostriamo tre opere di Lotto in cui S. Caterina è presentata a lato di Madonna e Bambino ma non nel quadro di un rapporto “mistico-matrimoniale” con quest’ultimo).
5.9 / Primo: qual è il tono generale del dipinto?
Il lettore, guardando il dipinto Costa-Mezzate, in questi mesi esposto a Lecco, vi trova alcunché di “matrimoniale” tra il Bambino e Santa Caterina, come è sottinteso nel titolo datogli da Berenson (Marriage of St. Catherine), oppure vi trova altro?
Solo a titolo di esempio, Valagussa e Mazzotta (ma molti altri già 40 anni prima di loro) ci vedono una forte predizione della morte tragica del Bambino; sono quindi piuttosto lontani dal vedervi segni di un qualche contesto “matrimoniale”.
E infatti, il titolo con cui il dipinto è presentato al pubblico da quasi 100 anni non è quello usato da Berenson — “Sposalizio di Santa Caterina” — ma “Madonna con Bambino tra i Santi Giovanni Battista e Caterina”: nel tempo qualsiasi traccia del “matrimonio” ricordato da Berenson è stato quindi cancellato.
Perché?
E perché Berenson avrebbe dovuto indicare come “Sposalizio” una scena in cui Santa Caterina compare ma senza alcun riferimento al suo particolare legame con il Bambino?
Non dimentichiamo che in moltissimi dipinti coevi a Lotto — e anche dello stesso Lotto — Santa Caterina compare assieme ad altri Santi attorno alla Madonna e al Bambino ma senza che mai a nessuno sia venuto in mente di indicarli come “sposalizi” (o “marriage”).
Qui mostriamo tre opere di Lotto in cui S. Caterina è presentata a lato di Madonna e Bambino ma — in modo esplicito — assolutamente NON nel quadro di un rapporto “mistico-matrimoniale” con quest’ultimo).
O si pensa che Lotto non fosse in grado di raffigurare in modo appropriato un vero “Sposalizio Mistico”?
Se qualcuno ha dubbi in proposito, ricordiamo tre esempi illustri della capacità di rappresentazione “matrimoniale”’ di Lotto.
Oppure qualcuno pensa che Berenson non fosse in grado di distinguere tra queste due situazioni così diverse?
Oppure che “si tratta solo di un errore veniale”, come dice Mazzotta, con audace sprezzo del ridicolo?
5.10 / Secondo: qual è la postura della Madonna?
È “appoggiata all’indietro“, come scritto da Berenson, [“The Madonna leans back”] oppure è seduta di sghembo e inclinata verso l’avanti con una torsione del busto verso la propria sinistra, come può constatare facilmente anche un inesperto osservatore?
In inglese “to lean back” non ha mille significati: indica esattamente il nostro “appoggiarsi indietro”.
Ma nel Costa-Mezzate — proprio al contrario — la Madonna è inclinata verso l’avanti — o c’è qualcuno che la vede “appoggiata all’indietro”?
Più avanti vedremo come nel 1955 (60 anni dopo quindi), nella terza edizione della monografia su Lotto (la traduzione italiana è di Luisa Vertova e uscì un anno prima della versione inglese), a fronte di questa evidente contraddizione Berenson scelse di dare un colpo al cerchio e uno alla botte:
— nella versione italiana (zitto zitto) cambiò la descrizione della postura e scrisse: «La Vergine siede appoggiandosi di lato»;
— nella versione inglese invece lasciò l’originale “leans back”.
Geniale!
5.10 / Secondo: qual è la postura della Madonna?
È “appoggiata all’indietro“, come scritto da Berenson, [“The Madonna leans back”] oppure è seduta di sghembo e inclinata verso l’avanti con una torsione del busto verso la propria sinistra, come può constatare facilmente anche un inesperto osservatore?
In inglese “to lean back” non ha mille significati: indica esattamente il nostro “appoggiarsi indietro”.
Ma nel Costa-Mezzate — proprio al contrario — la Madonna è inclinata verso l’avanti — o c’è qualcuno che la vede “appoggiata all’indietro”?
Più avanti vedremo come nel 1955 (60 anni dopo quindi), nella terza edizione della monografia su Lotto (la traduzione italiana è di Luisa Vertova e uscì un anno prima della versione inglese), a fronte di questa evidente contraddizione Berenson scelse di dare un colpo al cerchio e uno alla botte:
— nella versione italiana (zitto zitto) cambiò la descrizione della postura e scrisse: «La Vergine siede appoggiandosi di lato»;
— nella versione inglese invece lasciò l’originale “leans back”.
Geniale!
Anche qui qualcuno potrebbe pensare che Berenson con l’età (nel 1955 aveva 85 anni) si fosse un po’ rincitrullito.
A parte il non senso dell’espressione “è seduta appoggiandosi di lato” (un modo forse ritenuto elegante per dire “seduta di sbieco su una chiappa”), c’è una bella differenza tra “appoggiandosi di lato” e “appoggiata indietro”.
O no?
Per la verità noi preferiamo pensare a un Berenson un pochino opportunista che a un Berenson rimbecillito — ma di questo meglio più avanti.
5.11 / Terzo: dove è rivolto lo sguardo della Madonna?
Chiediamo al lettore: la Madonna guarda ciò che si svolge tra il Bambino e la bella Santa Caterina, come scrive Berenson [“watches the play between”] oppure guarda verso di noi, come è del tutto evidente?
Anche qui, c’è qualcuno che invece la vede guardare Bambino e Caterina?
.
O dobbiamo pensare che i Berenson soffrissero di allucinazioni?
O che non sapessero esprimersi in inglese?
5.12 / Quarto: da cosa è inghirlandata Santa Caterina?
Per rispondere a questa domanda è opportuno guardare con un maggior dettaglio il capo della Santa di Alessandria nel Costa-Mezzate e ricordare i termini utilizzati da Berenson per descrivere nel 1895 la Santa nel suo “Marriage of St. Catherine”:
«St. Catherine wears pearls and jewels in her amber-brown hair, and is wreathed with laurel and periwinkle.»
[Santa Caterina porta perle e gioielli nella capigliatura castano-ambrata, ed è inghirlandata di alloro e pervinca.]
Chiediamo al lettore: la ghirlanda è di ALLORO e PERVINCA, come scrisse Berenson nel 1895, oppure è di SOLA PERVINCA, come è chiaramente visibile nel Costa-Mezzate?
La risposta è nei nostri occhi: Lotto ha rappresentato solo la pervinca!
Se non ci fidiamo dei nostri occhi, abbiamo la fortuna di potere godere anche del parere autorevole di un promettente giovane studioso e critico dell’arte: parliamo del già più volte citato Antonio Mazzotta.
Nel suo contributo al Catalogo della mostra di Lecco, Mazzotta così scrive (p. 25, evidenziazioni nostre):
«La Santa Caterina d’Alessandria ha la testa cinta da un ramo fiorito di pervinca (fig. 5), una pianta che simboleggiava la fedeltà. Dal ramo pende un preziosissimo gioiello con un rubino e una perla. […] Lotto ha cinto di pervinche – con la stessa valenza simbolica – le teste di altre sante martiri […]»
Mazzotta è molto preciso nel circostanziare le scelte botaniche di Lotto: nel dipinto esposto a Lecco Lotto usa solo pervinche, nel suo dipinto dell’alloro non vi è neppure il profumo.
Ma nel “Marriage of St. Catherine” Berenson indicò con precisione la presenza anche dell’alloro («is wreathed with laurel and periwinkle») che allegoricamente è simbolo del martirio, o della vittoria eterna della Chiesa, se preferite.
5.13 / Quinto: da cosa è adornata Santa Caterina?
Anche per questa domanda è opportuno riguardare l’immagine del volto di Caterina, appena più sopra riportata.
Chiediamo al lettore: la Santa è adornata da “pearls and jewels” [perle e gioielli, in inglese il plurale funziona come per l’italiano] come scrisse Berenson nel 1895, oppure da un solo gioiello formato da UNA pietra preziosa e una perla, come è ben visibile nel Costa-Mezzate?
D’altra parte è d’accordo con noi anche Mazzotta che infatti ha scritto: «Dal ramo pende un preziosissimo gioiello con un rubino e una perla.»
È chiaro che quando Lotto voleva sfoggiare la sua abilità nel rappresentare gioielli e perle (al plurale) sapeva benissimo come fare.
Anche per questa domanda è opportuno riguardare l’immagine del volto di Caterina, appena più sopra riportata.
Chiediamo al lettore: la Santa è adornata da “pearls and jewels” [perle e gioielli, in inglese il plurale funziona come per l’italiano] come scrisse Berenson nel 1895, oppure da un solo gioiello formato da UNA pietra preziosa e una perla, come è ben visibile nel Costa-Mezzate?
D’altra parte è d’accordo con noi anche Mazzotta che infatti ha scritto: «Dal ramo pende un preziosissimo gioiello con un rubino e una perla.»
È chiaro che quando Lotto voleva sfoggiare la sua abilità nel rappresentare gioielli e perle (al plurale) sapeva benissimo come fare.
5.14 / Ben cinque gli elementi oggettivi di differenziazione: che si vuole di più?
Abbiamo quindi individuato ben CINQUE elementi in base ai quali possiamo tranquillamente affermare che il dipinto descritto da Berenson nella sua monografia su Lotto del 1895 NON è identificabile con il Costa-Mezzate in questi mesi esposto a Lecco.
Ricapitoliamo i 5 elementi, perfettamente oggettivi, che chiunque, anche inesperto d’arte, può verificare con i propri occhi.
Nel dipinto descritto da Berenson abbiamo una Madonna che:
1. è appoggiata all’indietro (mentre nel Costa-Mezzate è inclinata in avanti);
.
2. guarda ciò che avviene tra il Bambino e Santa Caterina (nel Costa-Mezzate invece guarda noi);
.
3. è in un contesto che Berenson giudicava “matrimoniale”, tanto da intitolarlo “Marriage of St. Catherine” (nel Costa-Mezzate non c’è proprio nulla di matrimoniale).
La Santa Caterina dal canto suo:
4. ha un serto di pervinche e alloro (nel Costa-Mezzate, solo di pervinche);
.
5. porta — attenti al plurale — gioielli e perle (nel Costa-Mezzate solo un gioiello formato da un rubino e una perla).
5.15 / Evidente almeno un’altra anomalia.
Anche il lettore più distratto, allertato forse dalle nostre osservazioni, si sarà reso conto di altra evidente anomalia riscontrabile nella descrizione di Berenson.
Questi infatti non fa alcun riferimento né al blocco “cassapanca-cassetta-cuscino” (caratteristico sia del Costa-Mezzate sia di Boston e di Londra) né allo scoiattolo, entrambi (evidentemente per ragioni diverse) presenze molto significative nell’economia complessiva del Costa-Mezzate.
Veramente strano!
Più sopra abbiamo segnalato come Berenson, nella bibliografia del dipinto da lui descritto, non cita Pasino Locatelli che nel 1867 descrisse in dettaglio un dipinto che è indubbiamente il Costa-Mezzate esposto a Lecco (o una sua replica):
«Novità e bizzarria spiccano in questo quadro. […] La Madonna tiene il figlio in piedi sopra un cofano di legno con manico d’acciajo: a destra ha S. Giovanni, a sinistra S. Caterina. Quest’ultima porta de’ vezzi nelle chiome e stringe fra le braccia uno scojatto.»
Il lettore si chiederà per quale ragione Berenson nella sua impegnativa monografia su Lotto, nel suo più importante lavoro di quegli anni, abbia trascurato di citare un descrizione così precisa nei suoi richiami bibliografici al “Marriage of St. Catherine” da lui descritto.
Cosa poteva desiderare di meglio il brillante critico statunitense?
Si trovava con una descrizione perfetta del dipinto, proposta pochi anni prima da un critico ben noto e apprezzato e proprio della città in cui aveva lavorato per tanti anni Lotto.
E che fa Berenson? non solo ne tralascia elementi importantissimi (la presenza dello scoiattolo, il mai visto prima “cofano di legno con manico d’acciajo”) ma neppure lo cita nella bibliografia specifica del dipinto!
Chi sostiene che Berenson nel 1895 abbia descritto il Costa-Mezzate in questi mesi esposto a Lecco dovrebbe insieme chiedersi: ma che razza di critico e storico dell’arte era questo Berenson? sembra che non ne azzecchi una e che della stessa pasta fosse fatta l’acuta e attentissima Mary.
Il lettore potrebbe pensare che, per qualche misteriosa ragione, Berenson non conoscesse Locatelli e il suo libro del 1867.
Niente affatto: Berenson conosceva benissimo il critico bergamasco!
E infatti nella monografia su Lotto cita più volte (p. 136, 148, 176, 193, 197, 200) Locatelli e i suoi libri “Illustri Bergamaschi, Bergamo 1867” e “I Dipinti di Lorenzo Lotto nell’Oratorio Suardi, Bergamo, 1891”, quest’ultimo ricordato anche come “splendidamente illustrato”.
Berenson cita Locatelli in riferimento a una serie di dipinti da lui analizzati nella sua monografia lottesca.
Eppure, quando parla del Costa-Mezzate se ne dimentica!
Perché?
5.16 / Abbiamo già dato la risposta: SI TRATTA DI DIPINTI DIVERSI.
Da parte nostra la spiegazione è molto semplice: Berenson, in quel 1895 in assoluta buona fede e senza alcuna intenzione fraudolenta, descrisse un ALTRO dipinto, diverso dal Costa-Mezzate ora esposto a Lecco.
È alla luce di questo dato di fatto che il suo silenzio su Locatelli è del tutto motivato.
Nelle sue premesse alla monografia su Lotto del 1895 (ma il medesimo criterio egli adottò per gli altri suoi lavori di quel periodo, facendone anzi un elemento programmatico) Berenson scrisse chiaro e tondo che avrebbe discusso solo di quelle opere che egli aveva potuto vedere direttamente (è ovvio: solo così il giovane critico statunitense avrebbe potuto posizionarsi con un solido argomento sul mercato internazionale degli intenditori d’arte).
Locatelli nel 1867 scrisse di un dipinto “bizzarro” da lui visto in “casa Camozzi a Bergamo” con caratteristiche tali da poterlo noi identificare quasi con assoluta certezza con quello esposto a Lecco (Madonna, Bambino, San Giovanni Battista, Santa Caterina, cassetta, scoiattolo).
Ma siccome Berenson descriveva uno “Sposalizio di Santa Caterina”, da lui visto al “Castello di Costa Mezzate”, perché avrebbe dovuto citare Locatelli?
Il critico bergamasco aveva infatti descritto un dipinto in cui la scena “nuova e bizzarra” era occupata da cofani con maniglie d’acciaio e scoiattoli, con nessun richiamo a “mistiche nozze”.
Si trattava di un ALTRO dipinto che è certamente il Costa-Mezzate esposto a Lecco e che evidentemente Berenson non aveva mai visto.
È proprio per queste evidenti distonie che insistiamo per una chiarezza sui passaggi proprietari del dipinto esposto a Lecco, che invece Valagussa e gli organizzatori della mostra di Lecco vogliono tenere nell’ombra!
Non bisogna essere grandi menti per pensare che i proprietari del dipinto sappiano esattamente cosa successe sia del dipinto esposto a Lecco sia di quello descritto da Berenson.
5.17 / Che successe del dipinto descritto da Locatelli, già in mano del conte Giulini e oggi esposto a Lecco?
Cavalcaselle annotò di avere dovuto lasciare perdere l’idea di farne oggetto di commercio perché c’era di mezzo un prestito (il conte Giulini voleva i quattrini prima di dare il via libera a una eventuale vendita).
E poi, che successe?
I Camozzi restituirono il prestito erogato dal conte Giulini e si riportarono il dipinto a casa?
.
Quando? E dove lo depositarono?
.
Ci sono documenti su queste vicende?
.
Se sì — e certamente ci sono — allora sarebbe proprio bello fossero resi pubblici!
Nel suo contributo al Catalogo della Mostra di Lecco, parlando della vicenda proprietaria del dipinto, Mazzotta così si esprime (p. 22):
«Poco dopo [il 1793] forse passa di proprietà, perché è probabile che già nel 1797 fosse parte delle raccolte di Giovan Battista Vertova nel castello di Costa di Mezzate. L’unica erede di Giovan Battista, Elisabetta, sposa intorno al 1806 Andrea Camozzi de Gherardi: tra i loro figli emerge la figura di Giovanni Battista Camozzi Vertova, primo sindaco di Bergamo: ancora oggi l’opera è conservata nelle collezioni dei suoi discendenti.»
Tutto qui.
Mazzotta, cioè, si ferma al 1806:
Ignora — volutamente di certo, qualche cosina la avrà pur letta anche lui — tutto ciò che sul dipinto è stato scritto e riportato da chiunque si sia occupato del Costa-Mezzate negli ultimi 100 anni — e in questo con il pieno e convinto assenso del suo più maturo collega Valagussa.
Perché?
A distanza di un secolo e mezzo la vicenda di quel dipinto non è più un fatto privato dei Camozzi e dei loro eredi: è un fatto pubblico, utile alla cultura pubblica e alla consapevolezza della storia di noi tutti.
Tanto più in quanto quel dipinto è oggi esposto a Lecco, in un Museo pubblico, grazie alla collaborazione del Comune della città (entità non privata, fino a prova contraria) e anche con la sovvenzione dello stesso — cioè dei cittadini.
Insomma: i cittadini pagano, danno lustro al dipinto, lo fanno crescere di valore (questo è ciò che accade ai dipinti esposti in mostre pubbliche).
In cambio, non sarebbe opportuno che quegli stessi cittadini sapessero per cosa realmente tirano fuori i quattrini, contribuendo al contempo alla sua valorizzazione sul mercato delle opere d’arte?
5.18 / Condividere le conoscenze. Un bel sogno …
Sarebbe proprio bello se si potessero condividere con i proprietari queste considerazioni, magari in un bel Webinar, gestito dagli organizzatori e da Valagussa e Mazzotta, i curatori artistici della mostra di Lecco.
Sarebbe bello, ma abbiamo i nostri dubbi.
Anche perché — purtroppo — gli attori in campo sono proprio debolini.
5.19 / È preoccupante la superficialità dei critici d’arte cui ci si vorrebbe affidare per saperne di più.
Le evidenze che abbiamo più sopra mostrato, non appaiono affatto tali ai due critici d’arte Valagussa e Mazzotta, cui è affidato dagli organizzatori (tra questi, non dimentichiamolo vi è anche il Comune di Lecco) il compito di spiegare e illustrare ai visitatori della mostra, ai lettori del sito Web, agli spettatori dei vari Webinar di approfondimento, la storia e il senso del dipinto di Lotto che viene in questi mesi proposto pubblicamente a Lecco.
Nel corso del Webinar del 23 febbraio 2021, tenuto dai Professori Mazzotta e Valagussa e moderato da Giorgio Cortella, abbiamo sollevato molto sinteticamente il tema / problema sopra esposto.
È emerso che i due esperti (per professione dediti a tempo pieno alla critica e alla storia dell’arte) non si erano mai accorti delle anomalie da noi sopra evidenziate.
Detto un poco icasticamente: fino a che non lo hanno appreso da noi, parlavano della monografia di Berenson del 1895 avendola evidentemente letta con una incredibile superficialità od avendone dimenticato il contenuto.
Alla nostra segnalazione Valagussa e Mazzotta hanno infatti sostenuto, in diretta Web e con ingenui sorrisini che noi ci sbagliavamo di grosso: che, per esempio, nella sua monografia su Lotto del 1895, descrivendo il dipinto in questione, Berenson citava persino lo scoiattolo!!
E che comunque eventuali discrepanze nella descrizione di Berenson nel 1895 erano da considerare “peccato veniale” (sono parole del professor Mazzotta — non vorremmo essere nei panni del suo eventuale confessore).
5.20 / Il nostro richiamo a una più corretta gestione dello scambio culturale.
A chi potesse pensare a una nostra malevola presentazione di questo deprimente deficit di conoscenza dei due critici d’arte attorno all’opera di Berenson (e attorno a Lotto, di conseguenza), suggeriamo di leggere la lettera che il 1 marzo appena passato abbiamo scritto ai promotori e organizzatori della mostra di Lecco, titolata «Richiesta di ripristino della verità per il Webinar 23 febbraio 2021» di cui riportiamo QUI IL PDF.
In essa abbiamo riportato la trascrizione esatta di quanto avvenuto in pochi minuti di scambio tra la nostra redazione e i due relatori Mazzotta e Valagussa nel corso del Webinar del 23 febbraio 2021, dedicato al tema “Significati nascosti nel Capolavoro di Lorenzo Lotto”.
Invitiamo a leggerla per conoscere lo stato del dibattito e anche per avere le idee chiare sul poco lodevole comportamento degli organizzatori della mostra di Lecco nei confronti di chi — come il nostro Centro Studi — sul dipinto da essi proposto al pubblico come “capolavoro” ha sollevato con argomenti documentati un serio problema critico, vergognosamente CENSURATO dagli organizzatori.
Nel pubblicare il filmato del Webinar del 23 febbraio, gli organizzatori ne hanno infatti disinvoltamente TAGLIATO 5 minuti, col mirabile risultato di fare apparire come non informato proprio il nostro Centro Studi che ha invece posto correttamente e a ragion veduta il problema.
Ricordiamo che nei Webinar gli interlocutori esterni hanno la possibilità di intervenire ma solo per iscritto e che i filmati messi in linea non riportano questi interventi scritti: non per nulla — e ovviamente — i conduttori ripetono sempre a voce le domande o le osservazioni scritte inviate dai partecipanti esterni.
Nel nostro caso, il conduttore Cortella ha ripetuto solo la prima delle nostre osservazioni ma, fattasi prendere la mano dai relatori innervositi e brancolanti nella loro incertezza, ha ignorato le altre.
Nel filmato reso pubblico, Valagussa e Mazzotta hanno così esposto le loro opinioni ma senza che venissero riportare le nostre: una vera e consapevole manipolazione.
Che vergogna signori promotori e organizzatori!
È questo il messaggio che volete trasmettere ai 300 giovani “ciceroni” che accolgono il pubblico al Palazzo delle Paure?
5.21 / Gli sgradevoli sviluppi successivi.
Segnaliamo che a fronte della nostra più che fondata richiesta di rispetto del reale andamento del dibattito, gli organizzatori hanno apparentemente accettato la critica e si sono impegnati a rendere pubblica la versione integrale del Webinar.
Apprezzando questo atteggiamento, abbiamo ricordato loro che — naturalmente — “versione integrale” significava mettere in sovraimpressione al filmato le poche parole da noi scritte nel corso del dibattito (sul piano tecnico un’operazione semplicissima e alla portata di qualsiasi redazione).
Purtroppo i nostri interlocutori non hanno tenuto conto di questa nostra ovvia richiesta, rispettosa prima di tutto del pubblico: hanno caricato su YouTube (VEDI QUI) la versione integrale del video ma senza riportare i nostri pur brevissimi interventi, rendendo così pressoché incomprensibile il dibattito svoltosi.
Non contenti, nella sezione del loro sito “Scopriamo insieme > scopriamo il contesto”, hanno mantenuto il link alla versione del video da loro censurata, con quel bel taglio di 5 minuti (VEDI QUI), all’origine della nostra rimostranza.
Evidentemente la nostra segnalazione di una volontà censoria non era campata per aria.
La cosa più deprimente di questa vicenda è che la redazione del nostro Centro Studi, in un vicinissimo passato, si era comportata con gli organizzatori della mostra di Lecco in modo ben più amichevole e leale di quanto questi non si siano mostrati ora con noi.
Quando ai primi di dicembre 2020 è stato messo in linea il sito Web capolavoroperlecco.it, a una primissima lettura ne abbiamo rilevato numerosi errori, alcuni dei quali veramente gravi anche sul piano dei rapporti formali con il Comune di Lecco (non ne sarebbe stata contenta in particolare l’Assessore alla Cultura Simona Piazza).
Per semplice buon senso abbiamo segnalato gli errori agli organizzatori che sono corsi subito al riparo; ne avevamo reso partecipe anche Monsignor Davide Milani (Prevosto di Lecco e promotore dell’iniziativa) che ci ha ringraziato per la collaborazione; nel medesimo spirito amichevole, la redazione del sito Web della mostra ci ha dato accesso a una immagine ad alta risoluzione del dipinto, utilissima per le nostre riflessioni.
Insomma, il normale rapporto tra persone e strutture impegnate, forse con diverse prospettive, in un comune sforzo di riflessione su aspetti importanti della cultura.
Peccato che, nel giro di un paio di mesi, i nostri interlocutori (colti in flagrante ignoranza) si sono fatti traviare da una nuova fattispecie di suscettibilità (che possiamo solo definire “infantil-professorale”) e avventatamente hanno imboccato tutt’altra strada.
Peccato, ma poco male!
Basta saperlo.
6. Berenson: col passare dei decenni una curiosa metamorfosi.
Abbiamo potuto compilare il capitolo che segue anche grazie alla cortese collaborazione dell’Archivio e della Fototeca Berenson, custoditi a Villa I Tatti (al confine tra Firenze, Fiesole e Settignano) per decenni abitazione e vasto studio / biblioteca / fototeca / museo di Bernard Berenson e della moglie Mary Whitall Smith; dal 1961 sede della Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (Mary Berenson morì nel 1945, Bernard nel 1959).
Va da sé che ogni considerazione qui espressa è solo nostra e alla Harvard University si deve esclusivamente il riconoscimento della liberalità con cui ci ha fornito alcuni documenti nella sua disponibilità, pur a fronte di un nostro oggettivo rilievo critico ai due Berenson, le figure di cui anche custodiscono la memoria e la immagine.
Questo dell’Università di Harvard è un esempio per tutti di cosa significa avere a cuore la ricerca scientifica!
Abbiamo visto nel capitolo precedente come la descrizione di Berenson del dipinto da lui indicato nel 1895 come ospitato al Castello Camozzi riguardasse non il Costa-Mezzate oggi in mostra a Lecco ma un ALTRO dipinto, da identificare.
Dobbiamo ora dire brevemente come circa trentacinque anni dopo (riteniamo nel 1929) la coppia nella vita e nel lavoro Bertrand / Mary Berenson cominciasse a modificare quella descrizione perché si adattasse al dipinto con lo scoiattolo che oggi ammiriamo a Lecco.
6.1 / Gli scritti di Berenson successivi al 1895.
All’edizione del 1895 della monografia dedicata a Lotto, Berenson ne fece seguire una seconda nel 1901, con l’aggiornamento di alcune schede: la parte relativa al dipinto di Costa di Mezzate rimase però invariata.
Ne uscì una ristampa nel 1905, per la parte di nostro interesse identica alla prima e seconda edizione.
La monografia di Berenson fu molto apprezzata e per decenni fu l’unica opera di grande respiro cui fare riferimento a livello mondiale per la conoscenza di Lotto.
È certo verosimile che venne letta anche dai Camozzi Vertova di Costa di Mezzate, proprietari del dipinto descritto da Berenson.
6.2 / E che ne dissero o pensarono i Camozzi-Vertova?
In proposito non abbiamo alcuna documentazione pubblica.
Possiamo però ragionevolmente pensare che se il dipinto in loro possesso al Castello di Costa Mezzate fosse stato così decisamente diverso da quello descritto da Berenson, avrebbero certo sollevato il problema.
Avrebbero detto al critico statunitense: caro Bernhard, hai proprio sbagliato; il nostro dipinto non c’entra nulla con quello che hai descritto; è tutto diverso:
— la nostra Madonna NON è appoggiata indietro, come hai scritto nella tua monografia;
— NON guarda il gioco tra il Bambino e Santa Caterina! guarda noi;
— la Santa Caterina NON è carica di perle e gioielli! ne ha uno solo;
— la sua ghirlanda NON è fatta di alloro e pervinche! ha solo pervinche;
— il tono del dipinto, NON c’entra niente con il mistico matrimonio (forse pensi troppo al quando potrai sposare la tua bella Mary);
— e poi ti sei dimenticato del Battista;
— e non hai detto nulla dello scoiattolo: è così evidente e invadente!
Vedi di correggere la cosa alla prima ristampa.
I proprietari lo avrebbero fatto di certo, così come lo avrebbe fatto chiunque di noi.
E invece no!
Berenson continuò a diffondere senza alcun problema e in tutto il mondo la sua monografia del 1895.
Nella seconda edizione del 1901 (in sei anni c’era tutto il tempo per una rettifica) non cambiò una virgola di quanto aveva scritto nel 1895.
Così come nulla cambiò nella ristampa del 1905.
Bisognerà attendere altri 30 anni perché Berenson inserisse una novità nella descrizione del 1895 relativa al dipinto di nostro interesse.
Ma intanto altri critici erano al lavoro.
6.3 / Venturi e la sua “Storia della Pittura Italiana”.
Nel 1929, a cura di Adolfo Venturi, venne pubblicato il IX volume — La Pittura del Cinquecento / Parte IV, della monumentale “Storia della pittura italiana” (avviata da Hoepli nel 1901).
Ci sembra sia qui che, per la prima volta, del Costa-Mezzate venne pubblicata una fotografia (monocromatica, si intende).
Venturi così presenta il dipinto, titolandolo “Sacra Conversazione” (p. 42):
«Brillante di colore, adorna di tutte le grazie di Lorenzo Lotto, la Sacra Conversazione del Castello Camozzi a Costa di Mezzate (fig. 35), pur accostandosi alle sfumature lombarde nel modellato delle forme, e soprattutto nel volto del bimbo, ammaccato d’ombre come quelli del Correggio e di Giampietrino, e pur staccandosi nel ritmo lineare da ogni schema veneziano di composizione, si avvicina al Vecellio e ai giorgioneschi per lo spessore dei drappi, l’ampiezza delle figure, la biondezza del tono.»
Inframezzata al testo (p. 43) Venturi presenta la fotografia dell’opera con questa didascalia:
«Fig. 35 — Castello Camozzi, a Costa di Mezzate. / Lorenzo Lotto: Sacra Conversazione. / (Fot. dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a Bergamo).»
Riassumendo su questa prima presentazione al pubblico del 1929:
— con collocazione al Castello Camozzi di Costa-Mezzate, Venturi propone per la prima volta la fotografia di un dipinto (è evidentemente il Costa-Mezzate esposto in questi mesi a Lecco) rappresentante una scena che non ha alcun riferimento con la descrizione fattane da Berenson nella monografia lottesca del 1895 (più sopra ne abbiamo dettagliato le ragioni: postura della Madonna; direzione del suo sguardo; contenuto “mistico-matrimoniale”; per la Santa Caterina, ghirlanda, gioielli);
.
— Venturi non fa alcun riferimento specifico a Berenson 1895;
.
— al dipinto presentato in fotografia, Venturi dà due titoli: nel testo vi si riferisce come a una “Sacra Conversazione”; nella didascalia invece come a “La Vergine con il Bambino fra S. Giovanni Battista e Santa Caterina” (nessun riferimento quindi al titolo di Berenson “Marriage of. S. Catherine”).
Informiamo il lettore che di questa importante presentazione di Venturi del 1929 (la prima in una edizione pubblica), né Valagussa, né Mazzotta, né il sito dedicato alla mostra fanno alcun cenno (complimenti ai Professori).
Possiamo chiudere questo capitoletto affermando che per la prima volta, dopo la descrizione di Locatelli (e quella immediatamente successiva di Cavalcaselle), è con Venturi che appare in pubblico il Costa-Mezzate: si pongono così le premesse di un processo metamorfico cui Berenson comincia a dare corpo nel 1932.
6.4 / La interlocuzione con la Harvard University.
Alla Harvard University (Villa I Tatti, Firenze) abbiamo prospettato le criticità della descrizione svolta da Berenson nel 1895 rispetto alla realtà del dipinto proposto al pubblico dal 1929 e oggi esposto a Lecco.
I ricercatori della Fototeca Berenson di “Villa I Tatti” ne hanno preso atto concordando che ciò potrebbe giustificare qualche dubbio circa la correttezza critica dei Berenson.
Hanno quindi compulsato con attenzione la documentazione nella loro disponibilità per verificare se era possibile darne una spiegazione razionale.
Nei diversi diari (tenuti soprattutto da Mary Berenson) dai primi del ’900 al 1945, anno della sua morte, non hanno individuato alcun riferimento alla questione di cui ci occupiamo.
Hanno invece individuata una scheda bibliografica che ha con essa certamente un legame.
Si tratta della stampa tipografica su carta di una foto di certo stampata dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo, cui venne dato il titolo «Madonna col Bambino, S. Caterina e S. Giovanni Battista».
La fotografia è esattamente quella utilizzata da Venturi, di cui abbiamo appena parlato (la Fototeca Zeri di Bologna ha copia di questa fotografia, dandola realizzata tra il 1920 e il 1940, ora potrà restringere l’arco temporale).
In una data non nota, questa stampa, serializzata con il n. 63, venne inventariata di proprio pugno da Mary Berenson con la seguente dicitura apposta sul retro dell’immagine (tra [ ] la nostra traduzione):
«Lotto
Costa di Mezzate, Castello Camozzi
(nr. Gorlago Stn. Bergamask)
[Vicino alla stazione di Gorlago “Bergamasco”]
.
Mar. St. Cath. | s. d. 1522
[Matrimonio di Santa Caterina]»
Possiamo ragionevolmente supporre:
— che i Berenson abbiano consultato il volume di Venturi appena questo venne pubblicato nel 1929;
— che quella nota autografa di Mary Berenson sia stata apposta in un momento non molto successivo, in vista di un suo utilizzo nella nuova opera che Berenson si apprestava a pubblicare e che prese la luce nel 1932.
6.5 / Berenson 1932.
Nel 1932 Berenson pubblicò in lingua inglese il testo “Italian Pictures of the Renaissance” (Oxford, Claredon Press) nel quale così viene ripresa la sua nota del 1895 (p. 308, composizione tipografica come nell’originale):
«Costa di Mezzate (near Gorlago Station, Bergamask). Castello. Marriage of Catherine, and Baptist. 1522.»
Come si vede, la dizione utilizzata nel libro è esattamente quella apposta da Mary Berenson nel suo appunto sulla fotografia dell’Istituto di Arti Grafiche di Bergamo.
Possiamo datare a questo nuovo lavoro del 1932, l’avvio da parte di Berenson del processo di metamorfosi del dipinto da lui descritto nel 1895 nel Costa-Mezzate che conosciamo e che è esposto a Lecco in questi mesi:
a/ continuò a titolarlo “Marriage of Catherine” ma aggiungendovi “and Baptist”;
b/ non fece alcun commento alla fotografia pubblicata da Venturi;
c/ nessun commento alla presenza in quella fotografia, oltre che del “Baptist” anche dello “squirrel” (scoiattolo);
d/ alla palese incongruenza tra ciò che chiunque poteva vedere bene nella fotografia pubblicata da Venturi e la sua descrizione del 1895.
6.6 / Berenson 1936.
L’ “Italian Pictures of the Renaissance” del 1932, di cui abbiamo appena parlato, venne tradotto in italiano da Emilio Cecchi e pubblicato da Hoepli nel 1936.
Anche nella versione italiana il titolo del dipinto di Costa Mezzate si arricchisce di una congiunzione, un articolo determinativo e un nome proprio, diventando «Sposalizio di S. Caterina, e il Battista» (p. 265, evidenziazioni come nell’originale):
«Costa di Mezzate (vicino alla stazione di Gorlago, Bergamasco).
CASTELLO. Sposalizio di S. Caterina, e il Battista. 1522».
Non ci risulta che questa modifica nel titolo dell’opera sia stata nel 1936 rilevata da alcuno, nonostante confliggesse con i due titoli assegnati da Venturi.
Ci sembra però di potere molto plausibilmente affermare che con questa edizione italiana del 1936, Berenson aggiunge un tassello alla metamorfosi del “Marriage” da lui descritto nel “Costa-Mezzate”, ora in mostra a Lecco.
Metamorfosi avviata con quella scarna notazione di Mary Berenson — una evidente autosconfessione, tanto più curiosa in quanto non motivata e che, anche senza volere essere particolarmente maliziosi, può essere letta anche in altri modi.
Non sappiamo se e come la coppia Berenson abbia condiviso con altri questo gioco di trasformazione.
Sta di fatto che, nel 1953, quella stessa fotografia
— pubblicata da Venturi nel 1929 (ma senza un riferimento specifico alla monografia lottesca del 1895) e
— inventariata da Mary Berenson per l’archivio di “Villa I Tatti”,
venne nuovamente presentata al pubblico da Anna Banti e Antonio Boschetto in un loro studio su Lotto, ma questa volta creando un legame esplicito con la monografia lottesca del 1895: continuiamo quindi il nostro percorso parlando di questi due studiosi.
6.7 / Banti-Boschetto: monografia “Lorenzo Lotto”, 1953.
Verso la fine del 1951, sull’onda di un crescente interesse per Lorenzo Lotto, venne lanciato il progetto per una grande mostra monografica a lui dedicata, da tenersi a Venezia per la metà del 1953: gli specialisti del ramo se ne sentirono ancor più stimolati a dare nuovi contributi di conoscenza.
Per esempio, sollecitato dalla casa editrice Skira, Berenson si impegnò a preparare (con la collaborazione di Luisa Vertova) una riedizione molto ampliata di quella del 1895, da pubblicare a ridosso della mostra.
La mole del lavoro lo costringerà a pubblicarla solo nel 1955 ma il progetto della revisione era definito nelle sue grandi linee già alla fine del 1951.
Anna Banti (oltre che preparata critica d’arte anche moglie di Roberto Longhi, già entusiasta discepolo di Berenson ma poi divenuto suo tenace “avversario”) e Antonio Boschetto puntarono invece su una monografia lottiana di minor mole.
Ai primi del 1953 pubblicarono così un loro lavoro, titolato “Lorenzo Lotto”, edito da Sansoni per la Biblioteca di “Proporzioni” (collana editoriale diretta dal già ricordato Roberto Longhi, che sarà uno dei Commissari per l’Italia della mostra di Venezia).
Nel loro libro, Banti-Boschetto presentavano il dipinto già pubblicato con foto nel 1929 da Venturi (con il titolo “Sacra Conversazione — La Vergine con il Bambino fra S. Giovanni Battista e Santa Caterina”):
-
- utilizzando la medesima fotografia dell’Istituto d’Arti Grafiche di Bergamo;
- creando un loro proprio titolo: «Madonna col Bambino fra i Santi Caterina e Gio. Battista».
Vediamo la cosa con maggiore dettaglio (a lato riportiamo la pagina del volume di Banti/Boschetto cui facciamo riferimento).
[Pagina 75, nostre evidenziazioni]:
«52. — Costa di Mezzate, Castello: Madonna col Bambino fra i Santi Caterina e Gio. Battista (f.ta e datata 1522). — figura 98.
Esplicitamente ricordata da Tassi in casa Pezzoli a Bergamo, con la data relativa. Il Cavalcaselle cita a Milano, presso il Conte Giulini, un analogo soggetto, ma con la data 1532 (cfr. anche n. 48).
Bibl.: Tassi, 11 [ndr: “Vite de’ pittori, scultori e architetti bergamaschi”, 1793; Berenson, 63 [ndr: “Lorenzo Lotto”, 1905, 2a ed. riveduta]; Cavalcaselle, 81 [ndr: “History”, 1912 – ma 1871 in 1a ed.]; Venturi, 147 [ndr: “La Pittura del Cinquecento”, 1929]».
Attenzione! Perché il lettore non si confonda, segnaliamo che il riferimento a Cavalcaselle e al suo “analogo soggetto, ma con la data 1532”, riporta quanto pubblicato da Cavalcaselle e Crowe nella “History”.
Nel 1953 non erano infatti ancora noti gli appunti di Cavalcaselle riportati nel citato articolo di Ottavia Piccolo (trascritti solo recentemente) da cui emerge chiaramente che Cavalcaselle, pur avendo ben presente la data indicata da Locatelli — 1522 — nel testo stampato della sua “History” aveva ritenuto di riferire la data 1532 che gli era stata comunicata dal “proprietario” del dipinto.
Da notare comunque che nella medesima pagina 75 appena citata, Banti Boschetto riportano un’altra scheda, strettamente intrecciata con il nostro tema (nostre evidenziazioni):
«48. — Londra, National Gallery: “Madonna col Bambino fra i Santi Gerolamo e Antonio da Padova (f.ta e datata 1521). — figura 87. / Tavola m. 0,88×0,71.
Già nella Coll. Colnaghi, legata alla Galleria nel 1908.
Il gruppo centrale della Madonna col Bambino sarà ripetuto un anno dopo nello “Sposalizio di Santa Caterina” di Costa di Mezzate.
Bibl.: Berenson (63 [ndr: Lorenzo Lotto, 1905] e 169 [ndr: Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932 / trad. it. di E. Cecchi, Milano, 1936]; Cat. della Nat. Gall. (151).»
Si tratta ovviamente del “cugino” di Londra, già da noi ampiamente discusso.
6.8 / Come si vede Banti / Boschetto avevano le idee un po’ confuse.
Nella scheda 48), seguendo la titolazione data nel 1895 da Berenson, fanno riferimento al dipinto di Costa di Mezzate come allo “Sposalizio di Santa Caterina”;
invece, nella stessa pagina e poche righe sotto:
nella scheda 52), a quello che a loro dire doveva essere il medesimo dipinto, danno invece il titolo che appare nella fotografia dell’Istituto Italiano di Arti Grafiche (la medesima annotata da Mary Berenson), ossia “Madonna col Bambino fra i Santi Caterina e Gio. Battista”.
Non sappiamo se per la stesura del loro libro Banti / Boschetto si fossero confrontati direttamente con Berenson, nel 1953 già 83enne e da otto anni senza la compagnia / collaborazione della moglie Mary.
Sta di fatto che Banti / Boschetto, nella stessa pagina del loro studio su Lotto:
— sono stati i primi a indicare in Berenson il primo critico a pubblicare il Costa-Mezzate, e questo nella sua monografia lottesca del 1895 (loro fanno riferimento all’edizione del 1905, in questo perfettamente uguale);
— sono stati i primi a cancellare il riferimento al “matrimonio” tra il Bambino e Santa Caterina, che dal 1895, in quella stessa monografia, aveva caratterizzato il dipinto di Costa di Mezzate, riprendendo però quel medesimo titolo in un’altra scheda posta nella stessa pagina a poche righe di distanza.
È veramente incredibile che revisioni di consolidate acquisizioni culturali e documentali siano state proposte in modo così superficiale e siano state accettate senza batter ciglio da parte della critica d’arte di allora e di adesso: ci sembra infatti di essere i primi a rilevare questi pasticci pseudo-critici.
Da notare comunque che anche Banti / Boschetto, pur inserendolo nella Bibliografia Generale del loro volume, per il dipinto in questione non citano in alcun modo Pasino Locatelli.
Una censura veramente incredibile cui — prima di Valagussa e Mazzotta — si adeguò anche Pietro Zampetti nella organizzazione della mostra di Venezia del 1953.
6.9 / A Venezia la prima monografica dedicata a Lotto: nessun rilievo al nuovo arrivato nella galleria lottesca.
Nel giugno 1953 (Direttore Pietro Zampetti) venne inaugurata a Venezia la prima mostra monografica su Lotto, considerata ancora oggi di grande importanza per la riaffermazione in epoca moderna di Lotto come esponente di primo piano della pittura rinascimentale italiana (segnaliamo che questa mostra è inspiegabilmente ignorata dagli organizzatori della mostra di Lecco).
Il dipinto venne esposto al pubblico per la prima volta in 431 anni, con l’accettazione nel Catalogo Ufficiale del percorso critico Banti-Boschetto (anche qui senza alcuna menzione né dello scoiattolo né di Locatelli) dando così un imprimatur ufficiale alla favola secondo cui ne avrebbe scritto Berenson nella sua monografia lottesca del 1895.
Riportiamo integralmente la presentazione del dipinto nel Catalogo Ufficiale della mostra (p. 79):
«47 – MADONNA COL BAMBINO, SAN GIOVANNI BATTISTA E SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA.
Tela, cm. 74 x 68
Costa di Mezzate, Castello, collezione Contesse Giuseppina e Maria Edvige Camozzi.
Opera firmata e datata: “Laurentius Lotus 1522”.
.
Si tratta della variazione di un tema che il pittore predilige, assai simile (come nota il Boschetto, p. 75 [ndr: la stessa da noi riportata poco sopra]) alla tavola della National Gallery di Londra, dal Lotto dipinta un anno prima. Anche in quest’opera il Venturi vede un accostamento al Tiziano ed ai Giorgioneschi, “per lo spessore dei drappi, l’ampiezza delle figure, la biondezza del tono”.Certo la pittura veneziana era presente e viva nell’anima del Lotto: ma nel ritmo sempre agitato delle sue composizioni c’è una nota personale, che lo colloca in una posizione di indipendenza di fronte a qualsiasi altra corrente, compresa quella emiliana, spesso indicata per il nostro artista, e senza plausibile ragione, come fonte d’ispirazione, di cui non aveva evidentemente bisogno, pur riconoscendo ch’egli era molto attento ai fatti artistici contemporanei.
.
Altra bibliografia: Tassi, 1793; Berenson, 1895; Id. 1936, p. 265 [;] Banti, 1953.»
Il commento critico ci pare proprio poco significativo: da rilevare comunque l’assenza di una qualsiasi riflessione sulle incongruenze da noi più sopra evidenziate; l’assenza di Locatelli nella Bibliografia; l’assenza di un qualsiasi riferimento al contenuto del dipinto.
L’impressione è che questo inedito assoluto di Lotto in una pubblica esposizione non abbia in quel 1953 suscitato nulla in nessuno.
6.10 / A 60 anni da quella del 1895, nella nuova monografia del 1955 Berenson porta a conclusione la metamorfosi, estraendo dal cappello lo scoiattolo.
Berenson, sebbene prendesse un poco le distanze dalla mostra di Venezia, continuò a tacere su quel dipinto con lo scoiattolo lì presentato per la prima volta al pubblico, per non dire della ormai ufficilmente affermata sua supposta primazia nel darne l’autografia a Lotto nel 1895.
Nel 1955 (a quattro mani con Luisa Vertova) pubblicò la nuova edizione della sua monografia del 1895, cui lavorava dal 1951.
In frontespizio l’opera è indicata essere “Versione italiana / dalla terza edizione inedita / di Luisa Vertova”.
È opportuno sia dire qualche cosa su Luisa Vertova sia fare luce su questa dicitura un poco sconclusionata (il lettore può pensare che Vertova fosse l’autrice dell’inedita terza edizione).
Berenson era poliglotta: parlava correntemente lituano, inglese, tedesco, francese e — pare, in modo colto — la nostra lingua che scriveva anche discretamente.
Per i suoi testi critici scriveva però in inglese, lingua della sua formazione culturale.
Il testo della terza edizione 1955 fu da lui quindi steso in inglese e tradotto in italiano da Luisa Vertova; l’originale di pugno di Berenson venne utilizzato per l’edizione inglese di questa terza edizione, pubblicata nel 1956 da Phaidon (lo vediamo fra pochi capoversi).
Luisa Vertova (nata a Firenze nel 1921 e tuttora in discreta salute — complimenti!) venne arruolata giovanissima da Berenson nel 1945 come bibliotecaria, ricercatrice, traduttrice, super segretaria, front woman, collaboratrice a tutto tondo, affiancandolo per 14 anni, fino alla scomparsa del critico (1959).
Fece poi una brillante carriera nella critica d’arte internazionale lavorando come consulente anche per Christie’s, la più grande casa d’aste del mondo con un fatturato nel 2015 di 7,4 miliardi di dollari USA.
Abbiamo cercato di sapere se fosse in rapporti di parentela con i Camozzi Vertova proprietari del dipinto Costa-Mezzate, ma alle nostre domande non sono seguite risposte — succede, nessun problema!
La cosa poteva avere un certo interesse: il dipinto con lo scoiattolo è balzato all’attenzione del pubblico non molto dopo l’inserimento di Vertova nello staff di Berenson: forse tra le due circostanze vi era un qualche collegamento o forse no (dalle parti di Bergamo, all’Accademia Carrara di cui è Conservatore Valagussa, di certo ne sanno di più).
Comunque sia, nella nuova monografia su Lotto, Berenson — con una incredibile disinvoltura — fece pubblicamente sua la attestazione attribuitagli due anni prima da Banti / Boschetto / Zampetti.
In ciò, del resto, portando alle sue conclusioni l’orientamento già delineato dopo il 1929, con quella notazione sul retro della già citata fotografia dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo, scritta di pugno dalla moglie Mary Whitall Smith.
Questa la nuova descrizione proposta da Berenson:
«II Lotto ne dipinse l’anno dopo una variante, che è LA MADONNA FRA SANTA CATERINA E SAN GIOVANNI BATTISTA nel Castello Camozzi a Costa di Mezzate (Bergamo)
(Tela centimetri 74 x 68) iscritto sul bordo della tavola: «Laurentius Lotus 1522». Il Tassi (Vite, I, p. 125) la cita in casa Pezzoli a Bergamo.
La Vergine siede APPOGGIANDOSI DI LATO, quasi fosse un po’ stanca, e NON SI CURA del giuoco che si svolge fra Gesù, lo SCOIATTOLO e la bella Santa.
Ancora più bella di questa, con i suoi capelli castani dorati e i dolci occhi bruni, Ella sta esattamente a mezza via fra la Madonna del 1521 e la Madonna delle Nozze di Santa Caterina del 1523, che vedremo fra breve.La Santa porta sulle treccie [sic] ambrate una coroncina di PERVINCA dalla quale pende UN GIOIELLO.
I colori sono chiari e puri.»
Come illustrazione (Tav. 126), Berenson riportò quella dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo (nelle Referenze fotografiche sbrigativamente richiamate come “Arti Grafiche”), già utilizzata da Venturi nel 1929 e da Banti-Boschetto nel 1953.
A lato di questa pose la fotografia del Londra (Tav. 125).
6.11 / Compiutamente differenti il testo del 1895 e quello del 1955: sia nei dettagli sia nella struttura espositiva.
Per avere chiaro quanto profonda fosse la metamorfosi operata da Berenson, è opportuno confrontare il testo del 1895 e quello della nuova monografia del 1955.
Giova prima di tutto notare che nella monografia del 1955 Berenson cancellò la premessa concettuale che era stata alla base della sua descrizione del 1895.
Il lettore ricorda certo che nel 1895 Berenson volle evidenziare un “genere raffinato”, caratterizzato da Madonne e Sante particolarmente avvenenti ed elegantemente vestite, sperimentato da Lotto attorno al 1520 e rappresentato dallo “Sposalizio di Santa Caterina”, dalla “Madonna e Santi” di Londra, dalla “Santa Caterina” di Leuchtemberg.
Nel 1955 Berenson non fece invece alcun riferimento a quel “genere raffinato” e mutò l’ordine di presentazione: al primo posto mise la “Madonna e Santi” di Londra; poi il ridenominato “Madonna fra Santa Caterina e San Giovanni Battista” (l’ex “Sposalizio di Santa Caterina”); poi il “Santa Caterina” di Leuchtemberg.
Ma vediamo ora come Berenson mutò radicalmente la descrizione di quello che nel 1895 aveva denominato “Sposalizio di Santa Caterina” (evidenziazioni nostre).
Berenson, 1895.
«Castello di Costa di Mezzate (vicino alla stazione di Gorlago). SPOSALIZIO DI SANTA CATERINA.
Inscritta la dicitura: Laurentius Lotus, 1522. Figure a metà del naturale per poco più di metà altezza. Menzionato da Tassi (Vite, vol. 1, p. 125) come presente in Casa Pezzoli, a Bergamo.
La Madonna SI APPOGGIA INDIETRO come se fosse un poco stanca, e GUARDA il giuoco che si svolge tra il Bambino e la bellissima Santa Caterina.
La Madonna è essa stessa ancora più bella. Ha i capelli castano-dorati e dolci occhi bruni; come tipo è esattamente a mezza via tra la Madonna del 1521 e la Madonna delle Nozze di Santa Caterina del 1523, che vedremo tra breve.
Santa Caterina porta PERLE e GIOIELLI nella sua capigliatura castano-ambrata, ed è inghirlandata di ALLORO e PERVINCA.
I colori sono chiari e puri.»
Berenson, 1955.
«II Lotto ne dipinse l’anno dopo una variante, che è LA MADONNA FRA SANTA CATERINA E SAN GIOVANNI BATTISTA nel Castello Camozzi a Costa di Mezzate (Bergamo)
(Tela centimetri 74 x 68) iscritto sul bordo della tavola : «Laurentius Lotus 1522». Il Tassi (Vite, I, p. 125) la cita in casa Pezzoli a Bergamo.
La Vergine siede APPOGGIANDOSI DI LATO, quasi fosse un po’ stanca, e NON SI CURA del giuoco che si svolge fra Gesù, lo SCOIATTOLO e la bella Santa.
Ancora più bella di questa, con i suoi capelli castani dorati e i dolci occhi bruni, Ella sta esattamente a mezza via fra la Madonna del 1521 e la Madonna delle Nozze di Santa Caterina del 1523, che vedremo fra breve.
La Santa porta sulle treccie [sic] ambrate una coroncina di PERVINCA dalla quale pende UN GIOIELLO.
I colori sono chiari e puri.»
Come il lettore ha constatato, nelle due descrizioni 1895 / 1955 dei tre dipinti eseguiti da Lotto tra il 1521 e il 1522 ci sono differenze strutturali: come abbiamo già dimostrato sopra, di tutta evidenza sono descritti DUE DIPINTI DIVERSI.
Potremmo anche fermarci qui, con questa inoppugnabile constatazione.
È però forse opportuno andare un poco più in là e mostrare anche come Berenson non sia incappato in un banale “errore“, come sostenuto dagli ingenuotti, ma abbia perseguito la metamorfosi (o scambio delle tele, se preferite) in piena consapevolezza, mettendo in atto diverse azioni per sviare l’attenzione degli osservatori da questa sua operazione.
6.13 / Cancellata l’ipotesi concettuale “avvenenza e ricercatezza”.
Ritorniamo sul discorso del genere “avvenenza e ricercatezza”.
Si trattava da parte di Berenson di una interessante ipotesi critica che portava a livello di sistematizzazione concettuale osservazioni che alcuni critici dell’epoca avevano svolto in modo occasionale ed estemporaneo.
Per esempio, il già citato Locatelli, nel parlare dello “Sposalizio di Santa Caterina” del 1523 (il dipinto oggi conservato presso l’Accademia Carrara di Bergamo) osservava il carattere particolare dell’espressione della Madonna e in generale il taglio leggero e mondano della rappresentazione (Illustri Bergamaschi, 1867, Vol. I, p. 92):
«Questo dipinto è singolarmente ammirabile per vaghezza di colore. A sinistra di chi guarda sta la Vergine con un viso certamente più biricchino che santo.»
Sulla medesima lunghezza d’onda si esprimeva Gustavo Frizzoni: commentando la monografia lottesca del 1895 di Berenson, notava (“Lorenzo Lotto – A proposito di una nuova pubblicazione”, Archivio storico dell’arte, 2. Ser. 2. 1896, p. 200, evidenziazioni nostre):
«Una impressione analoga del resto sono destinate a produrla altre opere di questo periodo, mercé lo sfarzo e l’espressione affatto mondana con cui l’autore evidentemente mirò a creare opere da imporre ai buoni Bergamaschi piuttosto per l’apparato esterno che per l’intimo loro significato ideale, quale lo avrebbe richiesto il soggetto di natura religiosa.
.
In proposito vuol essere rammentato innanzi a tutti quello che vedesi espresso in una tela che deve aver colpito quanti hanno visitato a Bergamo la Pinacoteca dell’Accademia Carrara, dove sta appesa in quella grande sala centrale.
Quivi si vede imaginata una Madonna dallo sguardo penetrante, ma dall’espressione affatto indifferente, in isplendida veste, seduta in un seggiolone, quali si usavano nelle case dei privati; essa regge fra le braccia il figliuolino ignudo, il quale alla sua volta si china verso una Santa Caterina inginocchiata in atto di devozione molto accentuata, mentre ne riceve il mistico anello di sposa, atto che non ostante non si saprebbe tenere per sincero o per lo meno profondamente sentito, se si tiene conto dell’acconciatura ricercata, affatto profana, onde il pittore volle ornare questa sua figura, dall’aspetto vano, meglio corrispondente ad una dama di mondo che ad un abitante del paradiso cristiano.»
All’interno quindi di una opinione che possiamo ritenere non minoritaria, Berenson faceva un passo in là individuando addirittura un “genere” sperimentato in più dipinti da Lotto attorno a quel periodo della sua permanenza a Bergamo.
Berenson concentrava cioè l’attenzione del suo lettore su un carattere tutto “mondano” della produzione di Lotto di quel periodo: l’artista avrebbe utilizzato immagini “sacre” per soddisfare forse istanze di edificazione morale ma certo condite con una bella dose di vanità dei committenti, desiderosi di rappresentare le donne del proprio ambiente famigliare e sociale nella doppia veste di “sante” e insieme di avvenenti ed eleganti compagne di vita e di relazioni.
Come abbiamo visto, nel 1955 Berenson elimina dalla sua monografia qualsiasi riferimento a questa sua ipotesi critico-culturale del 1895: non la afferma e non la nega — semplicemente ne tace.
Senza peccare di malizia, ci sembra di potere ipotizzare che questo silenzio su una importante e impegnativa ipotesi critico-culturale del trentenne Berenson, allo stesso, sessant’anni dopo (1955), risultasse funzionale al processo di metamorfosi del dipinto da lui descritto nel 1895 come “Sposalizio di Santa Caterina” o — per parlare in termini di prestidigitazione — all’applicazione di una delle ben note tecniche per attuare sotto gli occhi degli spettatori un vero e proprio “scambio di dipinto”.
6.14 / Cancellato il clima matrimoniale anche attraverso un diverso ordine di presentazione.
Ci sembra sempre in funzione di questo “scambio di dipinto”, Berenson muta anche l’ordine di presentazione delle tre opere da lui citate.
Nel 1895:
— aveva messo al n. 1 il dipinto da lui titolato “Marriage of St. Catherine” da lui detto “the most charming / il più affascinante”;
— al n. 2, il “Madonna con Santi” di Londra, in quanto lì era raffigurata “la stessa Madonna” (attenzione: non il blocco compositivo Madonna-Bambino-cassapanca-cassetta-cuscino);
— al n. 3 il “Santa Caterina” – Leuchtemberg, caratterizzata da una avvenenza da copertina della Santa e dalla medesima veste rossa con le maniche super-attenzionali.
Nel 1955, Berenson cambia l’ordine di presentazione perché, trattandosi di un dipinto ALTRO da quello descritto nel 1895, deve cambiarne anche la connotazione principale:
— al n. 1 propone quindi il “Madonna con Santi” di Londra;
— al n. 2 inserisce il “Madonna fra Santa Caterina e San Giovanni Battista”, ma indicandolo come “variante” del primo;
— al n. 3 riporta sempre la medesima “Santa Caterina” – Leuchtemberg.
È del tutto chiaro che il termine “variante”, utilizzato da Berenson vuole dire al lettore, indirettamente ma in modo esplicito, che, pur con diversi Santi e uno scoiattolo in più, vi è il medesimo blocco portante “Madonna-Bambino-cassapanca-cassetta-cuscino” della “Madonna con Santi” di Londra, cancellando così un qualsivoglia riferimento alla situazione “matrimoniale” evidenziata da Berenson nel 1895.
6.15 / Fumo inglese per uno “scambio” più sicuro.
Ci spiace di dovere insistere su questo aspetto certo non commendevole dell’intera vicenda.
Dobbiamo però rilevare che l’operazione “scambio di dipinto” è stata svolta da Berenson con una apparentemente fumosa — ma in realtà molto attenta — gestione della descrizione nella nuova edizione, in italiano e in inglese (editore Phaidon) uscite rispettivamente nel 1955 e nel 1956.
Dei due testi riprendiamo solo la parte prettamente descrittiva, riportando anche il già più volte citato testo della prima edizione (pubblicato solo in lingua inglese) del 1895.
Berenson, 1895.
«The Madonna leans back as if she were a little tired, and watches the play between the Child and the beautiful St. Catherine.
St. Catherine wears pearls and jewels in her amber-brown hair, and is wreathed with laurel and periwinkle.»
Berenson, 1956.
«The Madonna leans back as if she were a little tired, while the play goes on between the Child, a squirrel and the beautiful St Catherine.
She wears pearls and other jewels in her amber-brown hair, and is wreathed with periwinkle.»
Berenson, 1955.
«La Vergine siede appoggiandosi di lato, quasi fosse un po’ stanca, e non si cura del giuoco che si svolge fra Gesù, lo scoiattolo e la bella Santa.
La Santa porta sulle treccie [sic] ambrate una coroncina di pervinca dalla quale pende un gioiello.»
Se considerate con attenzione queste poche parole, anche senza essere espertissimi della lingua inglese, vi accorgete che il testo italiano differisce in modo sostanziale da quello inglese, così come i due testi inglesi differiscono tra di loro ma non come dovrebbero — Berenson ha infatti dato un colpo al cerchio e uno alla botte, sollevando, certo consapevolmente, una cortina fumogena, funzionale allo “scambio dei dipinti”:
— nella posizione della Madonna: in inglese (in 1895 e in 1956) è “appoggiata indietro”, in italiano è “appoggiata di lato” (espressione comunque senza senso, la dizione corretta sarebbe “seduta di sghembo, inclinata in avanti”);
— nella direzione del suo sguardo: in 1895 guarda il giuoco tra Bambino e Caterina; in 1956 si glissa sul suo atteggiamento ; in 1955 “non si cura del giuoco”;
— per l’estetica di Santa Caterina: in 1895 e in 1956 la Santa porta più perle e gioielli; in 1955 UN gioiello;
— nella ghirlanda della stessa: in 1895 vi sono alloro e pervinche; in 1956 e 1955 solo pervinche.
Potrebbe sembrare solo un involontario minestrone, cucinato da dilettanti allo sbaraglio.
Trattandosi però non di dilettanti ma di navigati professionisti della comunicazione, a noi sembra qualcosa di meno simpatico.
Se considerate le cose alla luce dell’esperienza storica, vi rendete conto che con questo guazzabuglio descrittivo, a prima vista solo ridicolo, Berenson è riuscito a fare passare ciò che evidentemente gli interessava: un vero e proprio scambio di dipinti, proprio come fa un abile giocatore di strada che con le tre carte simula errori pacchiani per accalappiare lo spettatore / scommettitore, con la ovvia assistenza dei compari.
Berenson, secondo ogni regola della serietà professionale, o anche della semplice buona educazione, avrebbe dovuto:
— avvertire il lettore che egli, nel 1895 aveva scritto cose opposte da quanto andava proponendo nel 1955-56;
— spiegare le ragioni di queste vistose distonie;
— fare almeno combaciare i testi delle due edizioni italiana e inglese del 1955-56.
Questo avrebbe dovuto fare: ma in quel 1955 non lo fece.
E per giunta, nella versione inglese, per la quale egli sapeva che sarebbe stato più facilmente controllato da chi poteva avere sottomano la sua prima monografia del 1895, fu ancora meno trasparente.
Egli mantenne cioè la prima parte della prima riga della vecchia descrizione, relativa alla “posizione” della Madonna (anche se questa non rifletteva la realtà della fotografia che egli stesso proponeva) per fare passare più facilmente il cambiamento radicale nella seconda parte della medesima riga, relativa alla direzione dello “sguardo” della Madonna, elemento più facilmente verificabile da chiunque.
Poteva correre questo rischio perché la fotografia si trovava molte pagine più in là del testo ed egli poteva ragionevolmente pensare che nel passaggio tra il testo e la fotografia, il lettore comune non avrebbe fatto caso alle incongruenze.
6.16 / E la critica professionale?
Se possiamo pensare che il lettore medio potesse non accorgersi dello scherzetto di Berenson appare invece stupefacente che in quasi un secolo non se ne siano accorti i critici d’arte di professione.
Abbiamo visto infatti che fin dal 1929, quando Venturi pubblicò per la prima volta la fotografia del Costa-Mezzate (quello che oggi è esposto a Lecco), qualunque lettore un poco attento avrebbe potuto accorgersi almeno delle incongruenze macroscopiche tra fotografia e descrizione di Berenson: la posizione della Madonna; la direzione del suo sguardo; la quantità di gioielli della Santa Caterina — tutti elementi visibili anche in una mediocre fotografia monocromatica (più difficile valutare allora se le foglie della ghirlanda fossero di alloro e pervinca o solo pervinca, cosa oggi invece agevole: si tratta solo di pervinche).
Eppure nel 1929 nessuno disse nulla e così nel 1953 e poi nel 1955.
Evidentemente una parte dei critici di professione non se ne accorse perché troppo superficiale, come abbiamo visto nel caso di Valagussa e Mazzotta, i quali, prima del nostro “sveglia signori!“, erano addirittura convinti che nel 1895 Berenson avesse descritto anche lo scoiattolo.
Ma gli altri, quelli più attenti, perché non dissero nulla?
Attendiamo autorevoli spiegazioni.
6.17 / Riassumendo… ecco le 10 fasi della metamorfosi.
1867 — Pasino Locatelli descrive un dipinto X, visto “in casa Camozzi” a Bergamo; lo giudica “nuovo e bizzarro”; è firmato Lotto e datato 1522.
Ne descrive la composizione: la Madonna col Bambino (seduto su un cuscino a sua volta posto su un cofano con maniglia in acciaio), San Giovanni Battista e Santa Caterina la quale tiene in braccio uno scoiattolo.
1869 — Cavalcaselle scrive nei suoi appunti del dipinto descritto da Locatelli, giacente in Milano presso il conte Giulini come pegno per un prestito concesso a Gabriele Camozzi. In difficoltà per la morte improvvisa di questi, la famiglia si attiva per vendere il DIPINTO X ma il conte Giulini vuole essere rimborsato. La vendita sfuma.
1895 — Berenson descrive un DIPINTO Y, situato nel Castello Camozzi di Costa di Mezzate; è di Lotto; è del 1522; è parte di una serie di dipinti realizzati da Lotto in quel torno di tempo, tutti ruotanti attorno a un certo tipo di Madonne e Sante, belle e vestite elegantemente all’ultima moda.
In quello specifico DIPINTO Y la Madonna, che sembra stanca, si appoggia indietro e guarda ciò che accade tra il Bambino e Santa Caterina; la quale reca gioielli e perle; è inghirlandata di alloro e pervinche.
Berenson lo titola «Marriage of St. Catherine». Non parla né di cuscini né di cofani né di maniglie.
1929 — Venturi nel suo volume sulla Pittura italiana del ’500, pubblica una foto monocromatica del DIPINTO X di Costa Mezzate, senza fare alcun riferimento particolare a Berenson 1895 e senza alcuna notazione sul suo contenuto.
1929? — Sulla stessa foto del DIPINTO X (quello descritto da Locatelli, dato in pegno al conte Giulini, pubblicato da Venturi nel 1929 e oggi esposto a Lecco) con il titolo “Madonna col Bambino, S. Caterina e S. Giovanni Battista», e indicata come a Costa di Mezzate, Castello Camozzi, Mary Berenson, non si sa in quale data (ma presumibilmente nello stesso 1929), ripete il titolo “Marriage of St. Catherine” dato al dipinto Y descritto da Berenson nel 1895.
È il primo (ma ancora non pubblico) aggancio fatto dai Berenson tra il DIPINTO Y e il DIPINTO X.
1932-1936 — Nel suo libro in lingua inglese “The Painters of Renaissance”, al titolo “Marriage of St. Catherine”, Berenson aggiunge “, and Baptist”.
Lo stesso fa nel 1936 nell’edizione italiana del libro (“Pitture Italiane del Rinascimento”): al titolo «Sposalizio di Santa Caterina» aggiunge «, e il Battista».
Né in un caso né nell’altro vi è alcuna descrizione della scena rappresentata nel dipinto.
È il secondo aggancio dei Berenson, questa volta pubblico (anche se proposto in sordina e senza foto), tra X e Y.
1953 — Banti / Boschetto nella loro monografia su Lotto, pubblicano la stessa fotografia del DIPINTO X già registrata da Mary Berenson; la titolano «Madonna col Bambino fra i Santi Caterina e Gio. Battista» cancellandovi ogni traccia di situazione matrimoniale e senza descriverne in alcun modo il contenuto.
Come riferimento bibliografico indicano la monografia di Lotto del 1895 di Berenson, riferita al DIPINTO Y.
Senza una parola di spiegazione hanno così reso pubblico l’aggancio tra il DIPINTO Y e il DIPINTO X: comincia la metamorfosi.
1953 — Catalogo mostra di Venezia. Viene confermato ufficialmente l’aggancio tra Y e X. La foto del catalogo è realizzata ad hoc ma titolo e bibliografia sono come proposti da Banti / Boschetto. Nessun accenno al contenuto del dipinto.
1955 — Terza edizione in italiano della monografia lottesca di Berenson. La foto è quella segnata da Mary Berenson (Dipinto X) e pubblicata da Banti / Boschetto nel 1953. Il titolo è “La Madonna fra Santa Caterina e San Giovanni Battista” (niente matrimonio).
Nella descrizione la Madonna sembra sempre stanca ma non è appoggiata indietro: «siede appoggiandosi di lato»; non guarda il Bambino e Caterina ma …
«non si cura di ciò che avviene tra il Bambino e Caterina e lo scoiattolo”; la Santa Caterina non porta gioielli e perle ma “un” gioiello con perla; la ghirlanda che poggia sulla capigliatura non è formata da “alloro e pervinche”, ma solo da “pervinche”.
1956 — Terza edizione in lingua inglese della monografia lottesca. La foto è la stessa dell’edizione italiana. Il titolo è “Madonna with St. Catherine and John the Baptist”.
La Madonna “leans back” come nel 1895 ma … il “watches the play between” del 1895 è sostituito con un anodino “while the play goes”. Per la prima volta si fà riferimento allo scoiattolo / squirrel.
È così compiuta la metamorfosi: con la regia e benedizione di Berenson il DIPINTO Y si è trasformato nel DIPINTO X, e ciò a livello internazionale.
Dal 1932 al 1955 al DIPINTO X (quello descritto per la prima volta da Locatelli nel 1867 e in questi mesi esposto a Lecco) è stato cioè costruito ex-novo un percorso critico di tutto rispetto che gli mancava.
Forse qualche lettore malizioso sta pensando che noi mettiamo in discussione la autenticità del dipinto esposto a Lecco!
Niente di più lontano dal vero!
6.18 / Da parte di Berenson molto probabilmente non c’è stata truffa ma sicuramente c’è stato inganno.
Noi non pensiamo affatto che il DIPINTO X esposto a Lecco sia fasullo.
Diciamo soltanto che, sulla base dei documenti a disposizione nostra e del pubblico, al DIPINTO X è stata costruita, a partire dal 1932 circa, una bibliografia più che rispettabile, accettata in tutto il mondo della critica d’arte grazie alla famosa e apprezzatissima monografia su Lotto nel 1895.
Diciamo soltanto che Berenson si prestò non a un qualche imbroglio ma a una prestidigitazione realizzata con due distinti dipinti di Lotto, datati 1522 e appartenenti entrambi a quella invenzione pittorica su cui Lotto lavorava attorno al 1520, caratterizzata dalla presenza di Madonne e Sante molto avvenenti e particolarmente ben vestite all’ultima moda.
Sicuramente la illustrazione da parte della proprietà della storia vera di quel dipinto a partire dal 1869, quando il dipinto era stato dato in pegno al conte Giulini di Milano, potrebbe dirci in proposito cose illuminanti.
Così come un grande contributo potrebbe dare una analisi strumentale, analoga a quelle svolte già da molti anni sui “cugini” di Boston e Londra, che manca ancora per il DIPINTO X, quello con lo scoiattolo, ora in mostra a Lecco.
Attendiamo fiduciosi su entrambi i fronti, pur nutrendo in proposito seri dubbi sulla volontà da parte di proprietà e organizzatori di promuovere la vera conoscenza, uscendo dalla mera propaganda a sfondo culturale.
Per concludere, una osservazione sul modo maldestro con cui comunque Berenson ha condotto la sua prestidigitazione.
Nella trilogia editoriale che Berenson (assieme poi a Vertova) ha offerto all’attenzione della critica internazionale a partire dal 1895, vale la pena di rilevare che nel nuovo titolo affibbiato a quello che 60 anni prima era il «Marriage of St. Catherine», nel 1955 trasformato in «Madonna fra Santa Caterina e San Giovanni Battista», si è perso il Bambino.
Evidentemente né Berenson né Vertova né i curatori della Electa Editrice hanno pensato che se nel precedente titolo “Marriage of St Catherine” si poteva anche non nominare il Bambino (era sottinteso come sposo della bella Caterina), nel nuovo titolo, avendo eliminato l’apparato nuziale, era invece obbligo citarlo.
Sono solo dettagli, che suscitano però seri dubbi non solo circa la tanto decantata acribia critica di Berenson (benché novantenne, nel 1955 era descritto come ancora perfettamente sveglio) ma anche sulla sua linearità professionale.
Certi giochini, anche se probabilmente condotti solo con le migliori intenzioni ed eventualmente a fin di bene — sarebbe meglio evitarli. Ribadiamo che su tutta questa vicenda i proprietari del Costa-Mezzate ne sanno certo quanto basta.
Possiamo ora passare alla Seconda parte della nostra Nota, dedicata al contenuto culturale del dipinto esposto a Lecco.
Anticipiamo che se l’analisi della bibliografia del dipinto esposto a Lecco ci ha chiarito che è tutta da rivedere, sul fronte dei contenuti del dipinto le cose sono messe ancora peggio.
«Lorenzo Lotto a Lecco» — SECONDA PARTE.
«L. Lotto a Lecco, 2020»
SECONDA PARTE
Il “capolavoro” di Lotto: i contenuti.
Il “capolavoro”
di Lotto.
CONTENUTI.
Fanta-critica al comando: senza alcun documento a supporto, cassapanche elevate ad altare, normali cuscini definiti come mortuari, cofani di legno trasformati in bare e scoiattoli promossi a preveggenti.
Fanta-critica al comando: senza alcun documento a supporto, cassapanche elevate ad altare, normali cuscini definiti come mortuari, cofani di legno trasformati in bare e scoiattoli promossi a preveggenti.
7. I contenuti del dipinto.
Fin qui abbiamo parlato della identità del dipinto, della sua storia proprietaria, di come la critica se ne è occupata dal 1867, temi in questa mostra di Lecco lasciati sostanzialmente nell’ombra.
Passiamo ora alla analisi dei contenuti culturali del dipinto, cominciando da una sintesi di quanto hanno detto in proposito gli organizzatori della mostra di Lecco attraverso:
— gli strumenti di comunicazione per ciò predisposti (Catalogo ufficiale, sito Web);
.
— le relazioni di Valagussa e Mazzotta (i due critici e storici dell’arte che curano la parte culturale e più propriamente critica della iniziativa) da loro tenute in vari momenti a partire dalla inaugurazione della mostra (5 dicembre 2020) e da considerare a tutti gli effetti come parte della elaborazione culturale sul dipinto (nel sito Web dedicato alla mostra sono individuabili i vari link).
7.1 / I contenuti del Costa-Mezzate secondo promotori e organizzatori della mostra.
Delle interpretazioni di Valagussa e Mazzotta (lasciando per il momento da parte alcune interessanti osservazioni, per es. in Valagussa l’uso simbolico della luce e dell’ombra), riteniamo di potere evidenziare gli elementi portanti:
a. La scena prefigura la Passione di Cristo.
.
b. La bara di legno allude alla morte drammatica del Bambino.
.
c. Esplicitamente lo conferma il Battista con il suo “ecce agnus dei”.
.
d. Indirettamente lo scoiattolo, che prevede i temporali e, per traslato simbolico, il futuro tragico del Bambino.
.
e. Questi è spaventato dall’animaletto e se ne ritrae.
La tesi generale dei due critici poggia quindi su tre elementi che, messi in sinergia, a loro dire sarebbero simbolicamente predittivi:
1. Il Battista.
2. La cassetta come bara.
3. Lo scoiattolo come preveggente.
Premesso che Lotto poteva / doveva utilizzare nel suo dipinto simboli comprensibili e condivisibili almeno dalla prevedibile platea dei suoi clienti (figure quindi con un livello culturale almeno medio), la tesi di Valagussa e Mazzotta ha come presupposto che il blocco concettuale Battista / cassetta / scoiattolo fosse all’epoca di Lotto così ben collocato nei circuiti culturali civili e religiosi da potere essere facilmente e univocamente interpretato come simbolo anticipatore della Passione del Cristo.
Ci proponiamo con quanto segue di verificare la validità o meno di questo presupposto attraverso un percorso piuttosto articolato che prende inizio dal 1978.
I due curatori della mostra di Lecco hanno infatti quasi del tutto taciuto che sul significato dei tre dipinti di cui ci stiamo occupando il dibattito critico ha già compiuto i 44 anni.
Che le loro idee sul significato dei tre dipinti come predittivi della Passione di Cristo sono già state ampiamente sviluppate da altri critici e storici dell’arte più maturi (come età, si intende) e con posizioni di rilievo nella comunità internazionale degli studiosi del nostro Rinascimento.
Che questi critici, nei recenti decenni passati, hanno avanzato ipotesi anche decisamente balzane che i due curatori della mostra di Lecco hanno ritenuto opportuno ignorare: per esempio sui pretesi significati della cassapanca / tavolo / altare che regge il cuscino e Bambino, sui quali Valagussa e Mazzotta hanno taciuto.
Così come hanno taciuto sul presunto significato mortuario del cuscino che è stato invece uno dei cavalli di battaglia di Goffen e poi di Gentili.
Per una conoscenza consapevole del dipinto (pensiamo sempre anche ai 300 studenti istruiti dalla Curia di Lecco come “ciceroni” della mostra), in controtendenza noi riteniamo che sia invece opportuno conoscere per benino in che modo gli altri specialisti hanno dibattuto in lungo e in largo sui temi che oggi Valagussa e Mazzotta ci presentano, trascurando, ci pare, il loro ruolo.
Che non dovrebbe essere quello di narrare più o meno piacevolmente altre narrazioni (o di presentarne alcuni pezzetti, secondo convenienza) ma di analizzarne i diversi aspetti culturali sottesi.
Delle interpretazioni di Valagussa e Mazzotta (lasciando per il momento da parte alcune interessanti osservazioni, per es. in Valagussa l’uso simbolico della luce e dell’ombra), riteniamo di potere evidenziare gli elementi portanti:
a. La scena prefigura la Passione di Cristo.
.
b. La bara di legno allude alla morte drammatica del Bambino.
.
c. Esplicitamente lo conferma il Battista con il suo “ecce agnus dei”.
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d. Indirettamente lo scoiattolo, che prevede i temporali e, per traslato simbolico, il futuro tragico del Bambino.
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e. Questi è spaventato dall’animaletto e se ne ritrae.
La tesi generale dei due critici poggia quindi su tre elementi che, messi in sinergia, a loro dire sarebbero simbolicamente predittivi:
1. Il Battista.
2. La cassetta come bara.
3. Lo scoiattolo come preveggente.
Premesso che Lotto poteva / doveva utilizzare nel suo dipinto simboli comprensibili e condivisibili almeno dalla prevedibile platea dei suoi clienti (figure quindi con un livello culturale almeno medio), la tesi di Valagussa e Mazzotta ha come presupposto che il blocco concettuale Battista / cassetta / scoiattolo fosse all’epoca di Lotto così ben collocato nei circuiti culturali civili e religiosi da potere essere facilmente e univocamente interpretato come simbolo anticipatore della Passione del Cristo.
Ci proponiamo con quanto segue di verificare la validità o meno di questo presupposto attraverso un percorso piuttosto articolato che prende inizio dal 1978.
I due curatori della mostra di Lecco hanno infatti quasi del tutto taciuto che sul significato dei tre dipinti di cui ci stiamo occupando il dibattito critico ha già compiuto i 44 anni.
Che le loro idee sul significato dei tre dipinti come predittivi della Passione di Cristo sono già state ampiamente sviluppate da altri critici e storici dell’arte più maturi (come età, si intende) e con posizioni di rilievo nella comunità internazionale degli studiosi del nostro Rinascimento.
Che questi critici, nei recenti decenni passati, hanno avanzato ipotesi anche decisamente balzane che i due curatori della mostra di Lecco hanno ritenuto opportuno ignorare: per esempio sui pretesi significati della cassapanca / tavolo / altare che regge il cuscino e Bambino, sui quali Valagussa e Mazzotta hanno taciuto.
Così come hanno taciuto sul presunto significato mortuario del cuscino che è stato invece uno dei cavalli di battaglia di Goffen e poi di Gentili.
Per una conoscenza consapevole del dipinto (pensiamo sempre anche ai 300 studenti istruiti dalla Curia di Lecco come “ciceroni” della mostra), in controtendenza noi riteniamo che sia invece opportuno conoscere per benino in che modo gli altri specialisti hanno dibattuto in lungo e in largo sui temi che oggi Valagussa e Mazzotta ci presentano, trascurando, ci pare, il loro ruolo.
Che non dovrebbe essere quello di narrare più o meno piacevolmente altre narrazioni (o di presentarne alcuni pezzetti, secondo convenienza) ma di analizzarne i diversi aspetti culturali sottesi.
7.2 / La Passione come tema centrale dei tre dipinti.
Valagussa ne ha praticamente taciuto ma Mazzotta (sia nel Catalogo della mostra che nel Webinar del 23-01-2021) ha evidenziato come nei tre dipinti Costa-Mezzate, Boston e Londra:
— è comune la struttura generale “Madonna + Bambino tra due Santi”;
di più, che
— è identico il nucleo centrale “Madonna-Bambino-cassapanca-cuscino-cassetta”.
Ci sembra se ne possa trarre che per Valagussa e Mazzotta i tre dipinti rappresentano il medesimo tema della Passione di Cristo, con alcune varianti, date soprattutto dalla presenza di Santi diversi ai lati del nucleo centrale “Madonna-Bambino-cassetta” e — naturalmente — dallo scoiattolo, presente solo nel Costa-Mezzate.
Ritenendo anche noi (ma per ragioni diverse) che i tre dipinti rechino al loro centro il medesimo messaggio di fondo e constatando che le riflessioni critiche dei decenni passati (cui abbiamo accennato sopra) sono state elaborate a partire dalle versioni Boston e Londra, riteniamo che il primo passo del nostro percorso debba essere fatto riflettendo in prima istanza sui due “cugini” espatriati.
Prima di sviluppare il tema, segnaliamo che Mazzotta vi ha dedicato meritoriamente un certo spazio sul Catalogo Ufficiale, con modalità che sollecitano però qualche nostra considerazione.
Mazzotta rileva infatti giustamente l’importanza della compresenza di “due” distinte versioni del dipinto — una delle quali in doppio.
Ne pone però l’elemento di differenziazione in una supposta variazione di “tonalità” proponendo un originale paragone con la musica: la versione Costa-Mezzate, in mostra a Lecco e caratterizzata da un indefinito fondo scuro, sarebbe la versione in “tonalità minore”, quindi “più tragica”.
A parte il considerare che in un medesimo brano musicale tonalità “maggiori” e “minori” possono tranquillamente e spessissimo convivere, il paragone è comunque curioso: non si comprende infatti in che modo la versione senza fondo scuro (sdoppiata nei due esemplari di Boston e Londra) sarebbe “meno tragica”: da quaranta anni quella soluzione (per Mazzotta evidentemente in “tonalità maggiore”) è anch’essa indicata dalla critica come rappresentazione del medesimo tragico sacrificio dell’agnello di Dio — si presume senza che nessuno trovi la cosa lieta o allegra.
8. Lotto: il confronto con i “cugini” all’estero.
8.1 / Conoscere per valutare: le due repliche di Boston e di Londra.
Per proseguire nei nostri ragionamenti, ci concentriamo ora sui dipinti di Boston e Londra, ricordando che proprio a partire da analisi strumentali eseguite su queste due repliche, dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso si sono cominciate a sviluppare su questo calco pittorico di Lotto riflessioni sia tecniche sia di contenuto.
In particolare, è analizzando la versione di Boston che per la prima volta (1978) è stata avanzata dalla storica dell’arte statunitense Rona Goffen l’idea che in essa sia dominante la prefigurazione del sacrificio del Bambino, e ciò sulla base di riferimenti iconografici dall’esperta indicati nel dettaglio (ne parleremo in modo approfondito nella successiva Sezione dedicata al contenuto del dipinto, al suo messaggio ideologico-culturale).
8.2 / Le analisi strumentali dei critici d’arte anglosassoni.
Nel 1978 Goffen (1944-2004) pubblicò sulla rivista del museo delle arti figurative di Boston (MFA Bulletin, Vol. 76, 1978, pp. 34-41) un articolo titolato «Una “Madonna” di Lorenzo Lotto», dedicato al “cugino” bostoniano del Costa-Mezzate esposto a Lecco.
L’articolo fu — ed è tuttora — molto apprezzato, ed è in effetti interessante (nel Catalogo della mostra di Lecco è citato ma solo in Bibliografia). Alle idee lì espresse ci dedicheremo estesamente più avanti nella Nota.
Qui ci limitiamo a ricordarne una constatazione: il Boston, sottoposto ai raggi X, mostra alcuni pentimenti dell’artista.
Per esempio, in corso d’opera, rispetto a una sua prima scelta, Lotto aveva scostato sensibilmente verso l’esterno il braccio destro della Madonna (tanto da nascondere buona parte delle mani di San Girolamo, prima visibili) rendendo così più ampia la manica della veste e annullando quasi l’angolo tra polso e avambraccio (più sotto riprenderemo questa osservazione a proposito del Costa-Mezzate).
8.3 / Approfondite analisi strumentali sui “cugini” di Boston e Londra, 1998.
Stimolati dalla mostra itinerante Washington, Bergamo, Parigi del 1997-98 (ne abbiamo parlato sopra), gli inglesi Jill Dunkerton, Nicholas Penny e Ashok Roy pubblicarono l’articolo «Due dipinti di Lorenzo Lotto alla National Gallery di Londra» (National Gallery Technical Bulletin, Volume 19, 1998) nella prima parte del quale stabilivano un confronto tra la versione di Boston e quella di Londra condotto attraverso l’impiego di tecniche strumentali.
Detto molto in breve, i tre ricercatori sostenevano:
1 — che i due dipinti erano stati stesi da Lotto in contemporanea, quasi passando da una tela all’altra;
.
2 — che il capofila della coppia deve essere considerato Boston perché in esso sono rinvenibili sensibili ripensamenti in corso d’opera da parte di Lotto, poi trasposti nel primo getto della versione Londra:
«il bracciale veniva disegnato dapprima sotto e poi sopra il gomito, mentre al polso veniva disegnato più stretto di quanto non lo sia nel dipinto finale»;
.
e ancora:
3 — «la testa [del Bambino] era originariamente dipinta in una posizione più frontale […] qualunque sia la sequenza, il volto del Bambino è stato finalmente dipinto con il contorno ancora più a destra: la posizione che ritroviamo nella versione della National Gallery.»;
.
infine, confrontando in generale le due versioni Boston e Londra, i tre critici inglesi sostenevano che:
4 — «tutti gli elementi principali della composizione hanno le stesse dimensioni e si discostano solo per piccoli dettagli: per es. nel dipinto Londra le gambe del bambino sono molto più a sinistra (per l’osservatore, NdR)».
Da parte nostra rileviamo che i tre analisti inglesi non si sono accorti — o hanno scelto di non farlo notare — che tra i due dipinti c’è invece una rilevante differenza strutturale che ha attinenza anche con il Costa-Mezzate.
8.4/ Mostriamo qui sotto i due dipinti insieme.
Come possiamo agevolmente notare, sul piano dello sviluppo orizzontale le due versioni sono relativamente vicine, salvo alcuni dettagli che danno comunque da pensare rispetto all’idea di Londra come di una copia vera e propria eseguita in studio da Lotto a partire dall’originale Boston.
In Londra, rispetto a Boston:
a./ oltre al leggero spostamento delle gambe del Bambino verso la propria destra (notato dai tre analisti inglesi), è da evidenziare
.
b./ la dimensione più ampia e fin deformata (sembra una frittella spiaccicata!) della mano sinistra di San Girolamo; inoltre
.
c./ il paesaggio montuoso e il cielo, diversi come disegno e come tono.
Sul piano dello sviluppo verticale le differenze sono però ben più marcate — e di ciò gli analisti inglesi non hanno fatto parola:
d./ nella versione Londra, il capo di San Nicola (alla sinistra del Bambino) è allineato con quello della Madonna;
.
e./ nella versione Boston, il capo del Bambino e quello di San Nicola sono posti invece nettamente più in basso, sia attraverso un abbassamento della loro posizione complessiva sia con una riduzione della dimensione longitudinale delle teste del Bambino e di San Nicola.
Anche la teste e il busto di San Girolamo risultano abbassati, seppure di poco.
Questo insieme di variazioni determina in Boston due effetti positivi:
— una più felice soluzione pittorica: il capo della Madonna è posto decisamente al vertice di una piramide ottica degradante su entrambi i lati;
— una più coerente soluzione concettuale: il Santo è correttamente posto a un livello gerarchico inferiore rispetto alla madre del Bambino e al Bambino stesso.
C’è poi un terzo effetto di diversa valenza: in Boston il Bambino è più mollemente appoggiato alla madre, accentuando il carattere di serenità generale della scena, determinato anche dai sorrisi della Madonna e di San Nicola.
Sul piano dello sviluppo verticale le differenze sono però ben più marcate — e di ciò gli analisti inglesi non hanno fatto parola:
d./ nella versione Londra, il capo di San Nicola (alla sinistra del Bambino) è allineato con quello della Madonna;
.
e./ nella versione Boston, il capo del Bambino e quello di San Nicola sono posti invece nettamente più in basso, sia attraverso un abbassamento della loro posizione complessiva sia con una riduzione della dimensione longitudinale delle teste del Bambino e di San Nicola.
Anche la teste e il busto di San Girolamo risultano abbassati, seppure di poco.
Questo insieme di variazioni determina in Boston due effetti positivi:
— una più felice soluzione pittorica: il capo della Madonna è posto decisamente al vertice di una piramide ottica degradante su entrambi i lati;
— una più coerente soluzione concettuale: il Santo è correttamente posto a un livello gerarchico inferiore rispetto alla madre del Bambino e al Bambino stesso.
C’è poi un terzo effetto di diversa valenza: in Boston il Bambino è più mollemente appoggiato alla madre, accentuando il carattere di serenità generale della scena, determinato anche dai sorrisi della Madonna e di San Nicola.
La maggiore armonia e coerenza di Boston, determinata da questa differenza strutturale rispetto a Londra, pone ovviamente un problema alla tesi di Jill Dunkerton, Nicholas Penny e Ashok Roy: se Boston è il prototipo, per quale ragione Lotto lo avrebbe peggiorato — e sotto tutti i punti di vista — nella copia di Londra?
Stando alla logica dell’arte e della vita (e a meno di ipotizzare un improbabile intervento del committente che NON VOLEVA San Nicola a un livello gerarchico più basso rispetto alla Madonna), apparirebbe più logico il processo inverso: Londra dovrebbe così essere considerato il prototipo, nettamente migliorato, strada facendo, nella versione Boston.
Ma proseguiamo.
9. Confronto tra i tre dipinti.
L’ultima differenza da noi evidenziata — macroscopica — tra le versioni Boston e Londra (definite da Mazzotta come “praticamente identiche”) è interessante anche al fine di un confronto tra le due versioni espatriate e il Costa-Mezzate di cui ci occupiamo.
Abbiamo visto che Goffen, Dunkerton, Penny e Roy sostenevano infatti che il prototipo della serie è da considerare Boston.
Ma Mauro Lucco, nel Catalogo della mostra itinerante Washington, Bergamo, Parigi del 1987-88, sostenne essere invece il Costa-Mezzate il capostipite (con motivazioni piuttosto bizzarre per la verità, lo vedremo più avanti).
Perché il lettore possa farsi una propria idea, qui sotto poniamo i tre esemplari fianco a fianco.
Per consentirne un più agevole confronto, abbiamo ingrandito il Costa-Mezzate, nella realtà più piccolo di circa il 10% rispetto ai due esemplari Boston e Londra).
Su questa base abbiamo creato una serie di allineamenti da cui possiamo ricavare alcune osservazioni forse utili circa la individuazione del prototipo.
È infatti facilmente constatabile che nel Costa-Mezzate il gruppo “Madonna / Santa Caterina” è sul piano strutturale praticamente identico al gruppo “Madonna / San Nicola” in Londra; il quale, in questo (lo abbiamo visto sopra) è nettamente diverso da Boston, per di più in senso peggiorativo.
Ciò potrebbe fare pensare che il Costa-Mezzate abbia preceduto Londra che a sua volta avrebbe preceduto Boston — ossia una successione opposta da quanto ipotizzato dai critici anglosassoni.
Da parte nostra non azzardiamo ipotesi ma ci limitiamo ai dati di fatto, ricordando solo che in assenza di documenti a sostegno:
a/ — le conclusioni dei critici vanno sempre prese con le dovute cautele;
.
b/— che gli organizzatori della mostra di Lecco dovrebbero di conseguenza, sul dipinto che essi hanno presentato al pubblico — facendosene mallevadori — fornire tutte quelle informazioni documentali che certo essi hanno.
L’assicurazione contro furti e danneggiamenti di cui gode il dipinto sarà infatti stata accesa sulla base di qualche cosa di più di belle parole: rendete pubblica la documentazione — altro che “accordi di riservatezza”!!
E ciò riguarda ovviamente anche il Comune di Lecco.
10. Il Costa-Mezzate: “Novità e bizzarria spiccano in questo quadro”.
Possiamo ora passare al nucleo centrale della seconda parte della nostra esposizione, dedicata alla valutazione del contenuto culturale del dipinto: cosa voleva trasmetterci Lotto con quell’opera?
Quanto segue cerca di rispondere a questa domanda.
O meglio, cerca di evidenziare la inconsistenza delle ipotesi critiche che da quaranta anni ne fanno la rappresentazione indubitabile della Passione di Cristo.
Non cercheremo neppure in via ipotetica di dare nostre risposte positive: sarà possibile formularle solo quando:
— saranno pubblici i risultati delle indagini strumentali sul dipinto;
— avremo un quadro aggiornato dei vari passaggi proprietari del dipinto e dei restauri cui è stato sottoposto.
10.1 / I primari strumenti critici: occhi, buon senso e nessun preconcetto.
Nel Webinar del 22-01-2021, Mazzotta ha esordito con una solo apparente ovvietà: per parlare di un dipinto bisogna prima di tutto guardarlo con attenzione per quello che è.
Da parte nostra vi illustriamo di seguito come abbiamo visto e vediamo il Costa-Mezzate: la descrizione che riteniamo possa fare chiunque non abbia preconcetti o volute cecità.
1.
1.1/ Appoggiandovisi sopra con la gamba sinistra, la Madonna è rappresentata seduta di sghembo su una cassapanca di legno, decisamente rustica; ha il piede sinistro su un rialzo (sgabello o altro, non incluso nel dipinto);
.
1.2/ sulla cassapanca è posata una cassetta di legno con modanature, una maniglia in metallo e la fessura per la chiave;
.
1.3/ sulla cassetta è posto un ben rigonfio cuscino a quattro nappe;
.
1.4/ su di esso è seduto il Bambino, anch’egli di sghembo (ma su linee opposte a quelle della Madonna), sostenuto / abbracciato dalla madre;
.
1.5/ il Bambino, appoggiato mollemente alla madre, appare rilassato: non dà segni di spavento, né “si getta tra le braccia della madre”, come ha suggestivamente suggerito Valagussa il 5 dicembre 2020 alla inaugurazione della mostra di Lecco;.
1.6/ guarda qualcosa fuori campo; sicuramente NON GUARDA lo scoiattolo; così come in Boston e in Londra NON GUARDA S. Nicola che cerca invece, con un sorriso più o meno accennato, di intercettarne lo sguardo.
2.
Come può verificare anche un osservatore non particolarmente allenato, il Battista e Santa Caterina risultano come appiccicati ai lati del gruppo centrale di Madonna + Bambino, senza alcuna attenzione per la profondità di campo e i reali rapporti dei corpi nello spazio.
4.
Rispetto alla lunga canna crociata disegnata dallo stesso Lotto nella Pala di San Bernardino in Bergamo, quella del Battista del Costa-Mezzate appare accorciata di oltre 50 cm, risultando decisamente incongrua (se lo immaginassimo in piedi, la croce gli arriverebbe al petto — una cosa ridicola).
È un taglio che sembra fatto con l’accetta tanto appare inverosimile sul piano prospettico: la sommità appare poi troppo assottigliata rispetto al fusto centrale.
Inoltre la traversa forma un angolo superiore decisamente troppo acuto: ingenuità pittoriche non ben giustificabili in un artista esperto come Lotto.
5.
La aureola del Battista, appare essere stata trascurata dal pittore che non ne ha eliminato le sovrapposizioni incoerenti con i diversi piani prospettici.
Il simbolo della Santità dovrebbe idealmente stare “sopra” o “dietro” capo e spalle: quindi non dovrebbe vedersi sovrapposta al cartiglio “ecce agnus Dei” che invece è “davanti” al volto del Santo.
Lo stesso per l’aureola della Madonna: passa sopra la mano destra del Bambino mentre dovrebbe esserne nascosta (è questo però un tratto che si trova in altri dipinti di Lotto e potrebbe essere legato alla maggiore o minore importanza per Lotto del committente — e dell’entità del compenso).
6.
La mano sinistra del Battista è veramente uno sconcio ed è curioso che nei secoli nessuno lo abbia evidenziato mentre — proprio al contrario — da più parti è stata segnalata l’abilità di Lotto nella raffigurazione delle mani.
3.
Sproporzionato rispetto al contesto appare Giovanni Battista. Confrontati gli elementi strutturali e posta la Madonna all’altezza media dell’epoca di Lotto (cm 155), il Battista risulterebbe alto circa 1 metro e 90 (comunque una bella sberla d’uomo).
Per non pensarlo al contrario come un omino con un gran capoccione, dobbiamo quindi immaginarlo inginocchiato.
D’altro lato è un po’ ridicolo supporlo in quella posizione: come proteso in avanti per riuscire a indicare con precisione chi sia l’ “agnus dei”, il Santo sembra spingere con il braccio e la spalla sinistri la Madonna; insomma non un granché in una rappresentazione sacra.
4.
Rispetto alla lunga canna crociata disegnata dallo stesso Lotto nella Pala di San Bernardino in Bergamo, quella del Battista del Costa-Mezzate appare accorciata di oltre 50 cm, risultando decisamente incongrua (se lo immaginassimo in piedi, la croce gli arriverebbe al petto — una cosa ridicola).
È un taglio che sembra fatto con l’accetta tanto appare inverosimile sul piano prospettico: la sommità appare poi troppo assottigliata rispetto al fusto centrale.
Inoltre la traversa forma un angolo superiore decisamente troppo acuto: ingenuità pittoriche non ben giustificabili in un artista esperto come Lotto.
5.
La aureola del Battista, appare essere stata trascurata dal pittore che non ne ha eliminato le sovrapposizioni incoerenti con i diversi piani prospettici.
Il simbolo della Santità dovrebbe idealmente stare “sopra” o “dietro” capo e spalle: quindi non dovrebbe vedersi sovrapposta al cartiglio “ecce agnus Dei” che invece è “davanti” al volto del Santo.
Lo stesso per l’aureola della Madonna: passa sopra la mano destra del Bambino mentre dovrebbe esserne nascosta (è questo però un tratto che si trova in altri dipinti di Lotto e potrebbe essere legato alla maggiore o minore importanza per Lotto del committente — e dell’entità del compenso).
6.
La mano sinistra del Battista è veramente uno sconcio ed è curioso che nei secoli nessuno lo abbia evidenziato mentre — proprio al contrario — da più parti è stata segnalata l’abilità di Lotto nella raffigurazione delle mani.
Osservate il mignolo sinistro: tracciato alla bell’e meglio e senza alcuna apparenza di realtà, appare quasi uno scherzo o — nella migliore delle ipotesi — un appunto pittorico di cui l’artista non si è poi minimamente curato.
L’anulare è inoltre molto più robusto dell’indice, proprio al contrario della realtà anatomica.
Un non senso dopo l’altro rispetto a quel tratto di verismo che è comune comunque a tutta la pittura di quei secoli.
7.
Sotto il capezzolo destro del Battista è in evidenza una deformazione / escrescenza che potrebbe fare pensare a un caso di politelia, ovviamente impensabile.
Nella fotografia monocromatica del 1929 quel segno non è visibile; si tratta presumibilmente di un successivo danneggiamento subito dal dipinto.
Non sarebbe male che i critici Valagussa e Mazzotta, anziché ignorare queste evidenze, registrabili da chiunque, ne dessero una qualche spiegazione.
8.
Altrettante osservazioni si possono fare per la struttura fisica di Santa Caterina.
Anche se possiamo forse imputarlo a un restauro poco attento alle ombre, il capo della Santa, in generale, appare piuttosto tozzo; in altri dipinti Lotto ci ha dato una Caterina decisamente diversa, addirittura quasi una elegante ragazza-copertina (naturalmente castigata).
Ciò che maggiormente colpisce è però la sua espressione: la Santa martire, Sposa mistica, fissa il Bambino come perplessa e quasi interrogandosi su un qualche cosa, senza comunque lasciarsi minimamente distrarre dallo scoiattolo che le esce dalla piega del braccio, a parte un movimento della mano destra su cui vale la pena di soffermarsi.
9.
Se considerate con un poco di attenzione quella mano che, nella logica di una rappresentazione veristica, seppure idealizzata, deve essere la destra della Santa, vi accorgete che qualche cosa non va.
La posizione delle dita è innaturale: per disporle così come ci appaiono, la Santa avrebbe dovuto compiere una insistita pronazione dell’avambraccio e non invece il gesto istintivo quale supposto dalla situazione.
Curiosamente, se invece considerassimo quella mano come la sinistra della Madonna, protesa a fermare lo scoiattolo, allora essa potrebbe apparire abbastanza corretta e naturale.
10.
D’altra parte, se non fosse per il rosso della manica che induce il riguardante a registrarla mentalmente come la sinistra della Madonna, la mano che si appoggia quasi alla spalla del Bambino potrebbe essere benissimo la mano sinistra di Caterina.
Lo ha rilevato anche Luca Doninelli (Catalogo della mostra: p. 81):
«Caterina non osa toccare il bambino, anche se a un primo sguardo la mano che lo accarezza potrebbe apparire la sua.».
Questa di Doninelli è una osservazione del tutto condivisibile che sollecita quanto meno interrogativi (nessun altro ha però rilevato questa ambiguità ottica nella composizione).
11.
Sempre con riferimento a quella sezione del dipinto, dobbiamo rilevare che il panneggio del mantello che copre in parte avambraccio e polso sinistri della Madonna è rappresentato in modo decisamente grossolano: anziché coprire la manica della veste e formare quindi un’ombra su di essa, il panneggio sembra essere “sotto” la manica stessa.
Sotto questo profilo, il Costa-Mezzate è certo il meno riuscito dei tre esemplari.
È però possibile che le anomalie che noi vediamo ora siano il prodotto di un veramente maldestro restauro.
O anche di qualcosa di più serio: per esempio, un successivo radicale intervento strutturale, realizzato da Lotto in fretta e furia o da un artista meno abile di Lotto.
Per questo sarebbero importanti le analisi strumentali sul Costa-Mezzate: siamo certi che ci darebbero informazioni interessanti.
12.
Appena sopra abbiamo parlato dell’espressione riflessiva e interrogativa di S. Caterina.
Molto più accentuato è il senso di interrogazione e incertezza, percepibile nella espressione di Giovanni Battista.
Su questo aspetto Mazzotta, di Giovanni Battista del tutto opportunamente evidenzia (Webinar del 23-02-2021):
«lo sguardo obliquo, disingannato, tutto lottesco; lo sguardo con cui l’artista affrontava il mondo […] lo sguardo melanconico di quelli che hanno dubbi sull’esistenza e proprio per questo si fanno domande.»
Su questo altri co-autori del Catalogo hanno idee opposte.
Il già citato Luca Doninelli (p. 80, nostre evidenziazioni):
«[Giovanni Battista] il capo appena piegato in attitudine di semplicità feriale, contadina […] il suo volto buono porta i segni di una certezza suprema».
Ognuno ha le sue sensibilità: per Mazzotta lo sguardo del Battista è «obliquo e disingannato», per Doninelli il suo «volto buono porta i segni di una certezza suprema».
Da parte nostra non abbiamo difficoltà a concordare con Mazzotta che in questo coglie meglio di Doninelli il dato di realtà propostoci dal dipinto.
Pensiamo si possano individuare elementi culturali decisamente validi a sostegno di una lettura alternativa dello sguardo del Battista, e forse anche dell’intero dipinto.
Lo “sguardo obliquo” di Giovanni Battista contraddice l’assertività del cartiglio che egli mostra e può invece alludere ai dubbi del Precursore, espressi nel Vangelo [CEI Gerusalemme: Lc 7, 19-23, evidenziazioni nostre]:
«[17] La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione.
[18] Anche Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutti questi avvenimenti. Giovanni chiamò due di essi
[19] e li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?».
[20] Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?».
[21] In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi.
[22] Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella.
[23] E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!».
Prima di essere convinto dall’esperienza della vita (o dai “miracoli”, ognuno scelga ciò che gli piace) Giovanni Battista quindi DUBITA e nel Costa-Mezzate potremmo leggere il suo sguardo proprio in quel senso; così come in quel senso potremmo leggere le espressioni interrogative della Madonna e di Santa Caterina.
Ma anche dare una interpretazione del tutto naturalistica a quella che — ci si passi la libertà — potremmo definire la “espressione” dello scoiattolo, magistralmente rappresentata da Lotto come di “vivace curiosità”, proprio quella che per noi umani è la più evidente e simpatica manifestazione della natura del piccolo roditore.
Il cartiglio che Giovanni Battista reca, avvolto attorno a una croce sbilenca, retta da una mano “falsa”, non è svolto nella sua interezza.
E chi ci dice che nello svolgerlo non ci si potesse trovare di fronte a un bel punto di domanda:
«Ecce agnus Dei?»
Sia chiaro! Non vogliamo proporre una nostra interpretazione (mancano gli indispensabili elementi documentali per una valutazione seria su ciò che potessero pensare in materia sia Lotto sia i suoi committenti).
Vogliamo solo evidenziare la necessità / opportunità / obbligatorietà di vedere le cose da diversi punti di vista.
Per quanto riguarda lo scoiattolo, è da rilevare che nel Costa-Mezzate è rappresentato molto più grande di come questo piccolo roditore, tipico del continente europeo, è nella realtà.
A lato lo mostriamo nelle sue massime dimensioni reali (20 cm), proprio come lo rappresentavano allora i nostri pittori del ’500: un animaletto di taglia decisamente contenuta (meno di una mano) rispetto al grigio scoiattolo americano (30 cm), introdotto in Europa solo ai primi del Seicento.
Sul piano pittorico notiamo un intervento di restauro tirato via alla bell’e meglio:
— in 1) il rosso vinaccia della veste di S. Caterina appare essere sopra la coda dello scoiattolo mentre dovrebbe esserne sotto;
— stesso problema in 2): il bordo della veste copre il retro del cranio del roditore mentre dovrebbe esserne coperto (sia detto per inciso: l’intervento sul bruno del pelo è decisamente infame);
— in 3) il medesimo rosso traspare all’altezza del metatarso del simpatico animaletto.
Per quanto riguarda lo scoiattolo, è da rilevare che nel Costa-Mezzate è rappresentato molto più grande di come questo piccolo roditore, tipico del continente europeo, è nella realtà.
A lato lo mostriamo nelle sue massime dimensioni reali (20 cm), proprio come lo rappresentavano allora i nostri pittori del ’500: un animaletto di taglia decisamente contenuta (meno di una mano) rispetto al grigio scoiattolo americano (30 cm), introdotto in Europa solo ai primi del Seicento.
Più si guarda questo dipinto più cresce la curiosità di vederne realizzata una bella analisi strumentale.
Sicuramente ci darebbe delle grosse sorprese: altro che i piccoli ripensamenti del Boston messi in luce dalla immaginifica Goffen nel 1978.
11. Interpretazioni di ieri e dell’ultimo quarantennio.
Lo abbiamo già accennato: Valagussa e Mazzotta, curatori artistici della mostra di Lecco, nei loro interventi a commento del dipinto Costa-Mezzate, sono stati decisamente parchi di osservazioni sia sulla sua vicenda proprietaria sia sui due “cugini“ di Boston e Londra.
Sono stati invece totalmente muti sulle altre interpretazioni — vicine o meno alla loro — che in proposito si sono succedute negli ultimi decenni.
La cosa ci è parsa singolare dal momento che lo schema interpretativo cui essi fanno riferimento è stato fissato già più di quaranta anni fa da altri critici della generazione precedente alla loro.
In via preliminare riteniamo possa quindi essere utile contribuire a colmare almeno in parte questa lacuna informativa.
11.1 / Fino al 1978, sui contenuti del dipinto, silenzio sostanziale della critica.
Abbiamo visto che il dipinto di Lotto aveva colpito il critico d’arte bergamasco Pasino Locatelli ma determinandone una reazione solo epidermica.
Nel suo già citato testo del 1867, Locatelli aveva infatti definito il dipinto da lui visto in casa Camozzi come caratterizzato da “novità e bizzarria”, senza però illustrarcene bene il perché.
Nel 1953, sia la monografia di Banti e Boschetto sia la mostra di Venezia (ne abbiamo già parlato sopra), presentarono al pubblico per la prima volta il Costa-Mezzate ma senza entrare nel merito della sua narrazione.
Nel Catalogo della mostra (curato da Pietro Zampetti), citato un supposto «ritmo sempre agitato delle sue composizioni», sul contenuto del dipinto si abbozzarono solo le prime battute di un commento (p. 79):
«Si tratta della variazione di un tema che il pittore predilige, assai simile (come nota il Boschetto, p. 75) alla tavola della National Gallery di Londra, dal Lotto dipinta un anno prima.»
Rimase però nella penna di Zampetti a quale “tema” egli si riferisse:
— le “sacre donne, belle e benissimo abbigliate”, di cui aveva parlato Berenson nella sua monografia del 1895?
— oppure, l’incardinamento pittorico di “Madre + Bambino + cuscino + cassetta + cassapanca”?
— oppure, la invasiva manica rosso fuoco della veste della Madonna?
Anche nel suo momento di ufficializzazione pubblica il dipinto di Lotto non suscitò quindi particolari attenzioni.
Bisogna anche ricordare che nei commenti giornalistici a caldo e nelle riflessioni critiche successive alla mostra di Venezia 1953, ci sembra non vi sia stato neppure UN commento all’inedito ultimo arrivato nella galleria lottesca.
Qui a lato riportiamo il lungo articolo di terza pagina del Corriere della Sera del 14 giugno 1953, a firma di Leonardo Borgese, il noto e certo non miope critico d’arte del quotidiano milanese degli anni ’50.
Delle 100 opere esposte, Borgese ne cita 14 già note, ma non cita il nuovo arrivo di Costa-Mezzate che, come inedito assoluto, avrebbe dovuto attirare un commento almeno di curiosità.
Dovettero passare altri 25 anni perché il dipinto, o almeno una delle sue tre declinazioni, ricevesse una più decisa attenzione della critica d’arte.
11.2 / Lora Goffen, 1978.
Abbiamo più sopra anticipato come la critica d’arte statunitense Lora Goffen dedicasse alla versione Boston un circostanziato studio, apparso sul bollettino del Museum of Fine arts di Boston (Vol. 76 , pp. 34-41).
Richiamiamo l’attenzione su questo articolo di Goffen perché è stato il primo tentativo di vedere nella soluzione pittorica declinata da Lotto nei tre esemplari di Costa-Mezzate, Boston e Londra, la rappresentazione della Passione di Cristo.
Goffen giunse alle sue conclusioni mettendo insieme un “pacchetto” di simboli, a suo dire perfettamente integrati e sinergici:
1. Cassapanca > altare;
2. Cuscino > arredo funebre;
3. Cassetta > bara.
Nonostante la sua evidente debolezza, l’interpretazione di Goffen è stata accettata (nella sua interezza e per decenni) da gran parte della critica internazionale che la ha riproposta acriticamente nelle due importanti mostre monografiche su Lotto del 1987-88 e del 2011.
Valagussa e Mazzotta si sono adeguati a loro volta a questa interpretazione ma negandone al contempo una bella fetta.
Dei tre simboli proposti da Goffen, essi hanno infatti accettato solo quello della CASSETTA > BARA, lasciando perdere la CASSAPANCA > ALTARE e il CUSCINO > ARREDO FUNEBRE, forse ritenendoli insostenibili quando non fonte di inevitabili lazzi.
Si sono però staccati da Goffen con quello stile “dico non dico” che sembra la cifra critica di questa mostra di Lecco: il nome di Goffen non è mai stato citato nei numerosi interventi che i due curatori della mostra hanno svolto in questi mesi.
Il lettore non si sorprenda quindi se dedichiamo un certo spazio a questo studio della critica statunitense, comparso solo sul bollettino di un museo statunitense e mai tradotto in italiano, che ha però esercitato una grande influenza sulla critica lottesca.
Quanto andremo a dire su di esso sarà facilmente trasferibile alle analisi che si sono poi succedute e ancora oggi sono prevalenti.
Ci riserviamo di trattare nella sezione successiva il tema BARA (l’unico accettato e riproposto da Valagussa e Mazzotta), limitando qui la nostra analisi ai due simboli della CASSAPANCA > ALTARE e del CUSCINO > FUNEBRE.
A scanso di confusioni, ricordiamo che in questo articolo Goffen si riferiva al Santo posto alla sinistra del Bambino come a “Sant’Antonio da Padova” (Goffen svolse la sua analisi sulla versione Boston); nel 1991 Ekserdijan (noto conoscitore della pittura italiana del Rinascimento) lo identificò invece con San Nicola da Tolentino, con il consenso unanime della critica successiva: nelle citazioni che seguono abbiamo quindi sostituito i “Sant’Antonio” dei riferimenti di Goffen con altrettanti “San Nicola”, senza ulteriori segnalazioni redazionali.
11.3/ Metamorfosi di una cassapanca, divenuta “altare”.
Goffen premette che la tela di Lotto è un sermone sulla fede cristiana; che vi è rappresentata una “sacra conversazione” dominata dalla Passione del Cristo, a suo dire elemento inscindibile di ogni immagine della Madonna col Bambino.
La critica statunitense descrive poi il dipinto in modo abbastanza circostanziato, evidenziandone gli elementi a suo avviso simbolici.
Dà una sua particolare interpretazione metamorfica della cassapanca su cui poggia il nucleo centrale della composizione, costituito da Madonna, Bambino, cassetta, cuscino («A “Madonna” by Lorenzo Lotto», Boston, 1978, p. 34, evidenziazioni nostre):
«La Madonna col Bambino sono raffigurati con i Santi Girolamo e Nicola da Tolentino. Posizionata frontalmente e appoggiata su un tavolo, la Vergine indossa un abito rosso vivo con panneggi giallo-arancio e blu intorno alla vita e al grembo.
Il figlio si appoggia alla sua spalla mentre siede su un cuscino bianco disposto su una scatola di legno che poggia a sua volta sul tavolo [“a white cushion lying on a wooden box that rests in turn on the table”].
.
Il Bambino guarda verso San Nicola, che ricambia l’attenzione del Bambino.
A sinistra, San Girolamo regge il crocifisso che è al tempo stesso suo attributo e centro della sua concentrazione religiosa. Sullo sfondo, un panno verde posto su un lato svela un paesaggio con alberi, colline e montagne lontane.»
A parte la sfacciata forzatura su un millantato incrocio di sguardi tra Bambino e S. Nicola, da Goffen totalmente inventato (basta guardare), richiamiamo l’attenzione del lettore sul come nella critica statunitense la cassapanca sia diventata “il tavolo” [“the table”], con uno stravolgimento di un dato di realtà percepibile da chiunque.
Non stiamo avviando un Webinar di falegnameria ma la cosa non è secondaria: questa apparentemente innocua confusione terminologica è la chiave azionando la quale Goffen ci vuole, con una ammirevole dose di facondia, introdurre in una sua meravigliosa stanza delle simbologie, funzionali a un suo particolare progetto interpretativo, secondo cui “the table” simboleggerebbe un altare con tutta una serie di conseguenze a incastro.
Ma leggiamo quanto ne scrive Goffen:
«Il tavolo sostiene insieme madre e figlio non solo fisicamente ma anche simbolicamente, perché rappresenta la mensa dell’altare. Inoltre, sia la mensa che la bara sono anche visivamente associate alla Vergine, per la sua stretta vicinanza e, ancora più insistentemente, per il suo manto blu che le avvolge. […]
Altare e tomba sono infatti simboli mariani: ciascuno ospita il Cristo, e da ciascuno egli emerge: nella Nascita, nella Risurrezione e nella Transustanziazione. Questa concezione si esprime in nuce nelle parole di un inno quattrocentesco rivolto alla Vergine, “Ave fulgens archa dei” (“Ave, arca scintillante (o contenitore) di Dio”».
Questa cavalcata di Goffen tra una parola e l’altra ricorda tanto quella procedura eristica secondo cui, passando tra cento sfumature di grigio, il bianco è da considerare uguale al nero.
Ci scuserà quindi il lettore se, prima di proseguire, lo invitiamo a guardare la versione Boston analizzata da Goffen (sotto questo aspetto quasi identica alle altre due) e rispondere a questa banale domanda: l’oggetto in legno che regge il gruppo centrale del dipinto di Lotto è una cassapanca o un tavolo?
Pensiamo che ogni lettore saprà dare a colpo d’occhio la risposta giusta: è una cassapanca, di fattura piuttosto rustica!
Sul fronte del riguardante, così come sul lato adiacente alla gamba sinistra della Madonna, si vede chiaramente il pieno di due dei lati normali del manufatto (è ancora più evidente nel Costa-Mezzate).
D’altra parte sono ben visibili i chiodi di raccordo con la spessa modanatura di blocco/chiusura della cassa (anche questi meglio visibili nel Costa Mezzate), forse accettabili in una cassapanca rustica ma decisamente incompatibili con un qualsiasi tavolo, anche scalcagnato — i falegnami del Rinascimento conoscevano alla perfezione le opportune tecniche di mascheramento dei raccordi.
La sua altezza è inoltre facilmente stimabile in 45-50 centimetri, considerandone il rapporto con le gambe della Madonna: coerente appunto con una cassapanca ma una bella spanna da quella ipotizzabile per un tavolo.
Se è corretto sostenere con Goffen che nella liturgia cristiana l’altare simboleggia la mensa dell’Ultima Cena, è opportuno ricordare che tale mensa doveva ovviamente essere più alta delle panche / sgabelli su cui sedevano Cristo e i suoi apostoli.
Non solo, ma che l’altare è nella realtà della Messa una mensa del tutto particolare: su di essa un unico “commensale” (il sacerdote officiante) celebra l’eucarestia stando in piedi.
L’altare è quindi una mensa ma posta a una altezza adeguata alla funzione, quindi tendenzialmente più elevata di un tavolo su cui mangiare o scrivere da seduti (altezza standard attuale, cm 72).
Ci scuseranno gli appassionati di simbologia per questo modo di affrontare problemi interpretativi anche con il centimetro. Pensiamo però che, nell’analizzare le opere frutto della creatività artistica, compito del critico non sia presentare con pratiche illusionistiche elementi inesistenti ma guardarle con le lenti della realtà, della conoscenza tecnico-storica, della documentazione, del buon senso e dell’onestà intellettuale.
Quell’oggetto è una cassapanca!
Gabellarla per un altare è solo mal riuscito illusionismo critico.
Per concludere su questa disamina sui complementi d’arredo — lo diciamo scherzando un poco (ma non troppo) — possiamo assicurare che se il dipinto avesse avuto l’esplicito e ben riconoscibile senso indicato da Goffen, qualunque sacerdote cui fosse capitato sotto gli occhi in casa Camozzi, avrebbe certo avuto a che ridire dal vedere la Madonna seduta su un altare con una natica sola nel modo disinvolto con cui la giovane donna nei tre dipinti è accomodata sulla cassapanca predisposta da Lotto come base per la sua composizione.
Certo che, come notato dal mai citato Pasino Locatelli, quella pila formata da cassapanca, cassetta e cuscinone, a fianco e sotto la Madonna e il suo Bambino, può apparire cosa “nuova” e “bizzarra”.
Ma è con questi dati che dobbiamo confrontarci e non ne usciamo inventandoci ciò che può fare comodo forse all’affabulazione ma non alla conoscenza delle manifestazioni dell’arte.
Prima di procedere ricordiamo che come riferimenti bibliografici per il Costa-Mezzate, Goffen fa un poco di confusione.
Cita Tassi (senza dirne però l’edizione).
Poi cita il titolo dell’opera di Pasino Locatelli; ne dimentica però l’autore (povero Locatelli, cancellato urbi et orbi) e, come edizione, indica “Locatelli, 1793” (che è invece l’editore di Tassi).
A parte questi pasticci redazionali è da segnalare che oltre che i già noti Banti/Boschetto 1953 e Zampetti 1953 (è la mostra di Venezia), Goffen cita Berenson ma solo per l’edizione Phaidon 1956, ignorando il Berenson del 1895: la critica statunitense si era evidentemente accorta della incompatibilità tra la descrizione del 1895 e il Costa-Mezzate ma non volle evidentemente sollevare il problema, evidenziato da noi.
12. Lotto: cuscino e dintorni.
12.1 / Cuscino e Passione secondo Goffen.
Ma andiamo avanti con il testo di Goffen, là dove ci parla del cuscino (p. 37, evidenziazioni nostre):
«Il cuscino era stato fin dall’antichità un accessorio delle immagini della morte, e numerose tombe rinascimentali, seguendo l’esempio antico, mostravano anche l’effigie del defunto con la testa appoggiata su un cuscino. Lotto ha usato un cuscino con nappe come supporto per la testa di morto — l’effigie di ogni uomo — nel “memento mori” dei primi anni Venti, in cui un putto incorona un teschio con un serto d’alloro della vittoria.»
e ancora (idem):
«Le associazioni funeree del cuscino erano intese dai maestri veneziani del Quattrocento nelle loro tele raffiguranti la Madonna. Ad esempio, l’uso del cuscino con le nappe nella Madonna della Passione (ca. 1460) di Carlo Crivelli non lascia dubbi sul significato della connotazione funeraria. Il Bambino sta sul cuscino, racchiuso tra le braccia della madre orante. Sono accompagnati dagli Innocenti, che presentano gli strumenti della Passione. Sopra di essi, due cardellini, qui simbolici della morte di Cristo, poggiano su una ghirlanda di frutti, che comprende l’uva del Sacramento. Sullo sfondo destro, una visione telescopica del futuro sacrificio del Bambino rivela la Crocifissione dell’Adulto.»
Sintetizzando, la critica statunitense ci dice:
— siccome abbiamo esempi di opere d’arte con defunti rappresentati con il capo appoggiato a un cuscino;
— siccome Lotto attorno al 1520 ha realizzato un dipinto in cui è rappresentato un teschio posato su un cuscino;
— siccome Crivelli nel 1460 (Crivelli, non Lotto) ha realizzato un dipinto incentrato sulla Passione, con gran dovizia di simboli a ciò coerenti, e in cui il Bambino sta in piedi su un cuscinetto,
allora …
allora il cuscino su cui nel dipinto Boston di Lotto è seduto il Bambino simboleggia la Passione del Bambino.
Ci scusi il lettore ma anche in questo caso è opportuno fare un poco di ordine e collocare nella corretta dimensione la pur godibile narrazione di Goffen che in questa occasione si mostra più abile come affabulatrice che non come critica e storica dell’arte.
12.2 / Puramente suggestivo il collegamento tra il Boston e il “Putto con teschio”.
In quel dipinto di Lotto (oggi nella collezione Northumberland) appaiono simboli diversamente interpretabili: è la vittoria della morte sulla fama?
Oppure, al contrario, è la imperitura fama tra i posteri che la vince sulla morte dell’individuo?
E il teschio, disposto come siamo nel sonno, indica morte come fine assoluta oppure come passaggio a nuova vita, in un ciclo eterno?
E a chi è destinato l’alloro della vittoria? a un saggio, un poeta, un eroe? oppure è il simbolo di un martirio?
Quali le caratteristiche del committente e le sue indicazioni all’artista?
Inutile girarci intorno: non lo sapeva Goffen e non lo sappiamo neppure noi.
Mancando la documentazione necessaria a rispondere in modo serio a queste e alle molte altre possibili domande, dobbiamo anche accettare di non essere in grado di dare sempre e comunque una spiegazione a tutto.
Il che è un dato strutturale della ricerca storica; non un suo limite negativo ma — al contrario — uno stimolo ad accumulare dati e idee per conoscere sempre meglio.
Nel nostro caso però sappiamo che non è l’accostamento “teschio / cuscino” ad avere attirato l’attenzione degli artisti (questo di Lotto è un caso raro, se non unico) ma semmai l’accostamento “teschio / putto”, che infatti si ritrova in numerose opere di vario genere dove può verosimilmente richiamare l’inevitabilità della morte nonostante la esuberanza della vita e insieme l’inevitabilità della vita al di là della fissità della morte.
Ma questo che c’entra con la Passione? Non è certo la morte di Cristo a essere eccezionale — tutti gli uomini muoiono.
È eccezionale semmai che egli muoia per l’altrui salvezza, rappresentata dalla Resurrezione.
Ma nel piccolo dipinto di Lotto con “putto e teschio su cuscino” non c’è nulla né della Passione né della Resurrezione.
E nel Boston non appaiono teschi: quale sarebbe stata quindi per Goffen il legame tra il cuscino e la Passione?
In Boston la Passione è indicata esplicitamente dal piccolo crocefisso su cui lacrima San Girolamo: basta e avanza.
E allora perché Goffen ci ha voluto proporre, con modalità solo suggestive, anche il cuscino visto come funerario?
Di tutta evidenza, la pretesa in Goffen di fare del cuscino un simbolo facilmente riconoscibile della Passione di Cristo è pura fanta-critica.
12.3 / Irrilevante il riferimento di Goffen al dipinto di Crivelli.
Carlo Crivelli nel suo dipinto volle forse rappresentare la Passione in tutto il suo svolgimento; ci mise quindi dentro un bel po’ di elementi simbolici elaborati sul tema dalla cultura cristiana per potere rendere evidente il suo assunto.
Vogliamo da ciò inferire che il cuscinetto che egli raffigurò sotto i piedi del Bambino è esso stesso elemento costitutivo della Passione?
Se qualcuno proprio sente questo bisogno, faccia pure!
Ma ciò non significa necessariamente pensare alla Passione ogni volta che vediamo la Madonna con il bambino e un cuscino.
Guardate la “Madonna del cuscino verde” di Andrea Solario, coevo di Lotto: la madre allatta sorridendo il proprio figlio.
Il quale, bello comodo su un gran cuscino è intento a poppare oltre che a tenersi un piede con la mano.
Questa scena vi fa venire in mente un alcunché di mortuario?
In quel piede che il Bambino si tiene agilmente con la mano, come tutti i bambini del mondo, vogliamo magari vedere la prefigurazione del chiodo che attraverserà il piede del Cristo crocefisso?
Via, non siamo ridicoli!
È evidente a chiunque che Solario ha in quel dipinto voluto evidenziare la “umanità” del Bambino, la sua felice normalità di bimbo, a prescindere dal suo amaro destino.
Pilastri della dottrina cristiana sono sì la Passione e la Resurrezione ma anche l’umanità del Cristo, autoespressione personificata di Dio: che c’è di strano se un artista vuole rappresentare questo aspetto della dottrina?
E che dire dei tanti dipinti di altri artisti più o meno coevi di Lotto che utilizzarono il cuscino (o più cuscini) senza che nessuno si sia mai sognato di farne simboli del sacrificio del Bambino?
Qui ne diamo qualche esempio (c’è anche un Lotto, con lo stesso identico Bambino del Costa Mezzate, e il Tintoretto presentato a Lecco lo scorso anno ) ma siamo certi che il lettore saprà trovarne con facilità molti altri esempi.
Guardate la “Madonna del cuscino verde” di Andrea Solario, coevo di Lotto: la madre allatta sorridendo il proprio figlio.
Il quale, bello comodo su un gran cuscino è intento a poppare oltre che a tenersi un piede con la mano.
Questa scena vi fa venire in mente un alcunché di mortuario?
In quel piede che il Bambino si tiene agilmente con la mano, come tutti i bambini del mondo, vogliamo magari vedere la prefigurazione del chiodo che attraverserà il piede del Cristo crocefisso?
Via, non siamo ridicoli!
È evidente a chiunque che Solario ha in quel dipinto voluto evidenziare la “umanità” del Bambino, la sua felice normalità di bimbo, a prescindere dal suo amaro destino.
Pilastri della dottrina cristiana sono sì la Passione e la Resurrezione ma anche l’umanità del Cristo, autoespressione personificata di Dio: che c’è di strano se un artista vuole rappresentare questo aspetto della dottrina?
E che dire dei tanti dipinti di altri artisti più o meno coevi di Lotto che utilizzarono il cuscino (o più cuscini) senza che nessuno si sia mai sognato di farne simboli del sacrificio del Bambino?
Qui ne diamo qualche esempio (c’è anche un Lotto, con lo stesso identico Bambino del Costa Mezzate, e il Tintoretto presentato a Lecco lo scorso anno ) ma siamo certi che il lettore saprà trovarne con facilità molti altri esempi.
Lo abbiamo già detto: dei tre simboli utilizzati da Goffen a sostegno della propria tesi, abbiamo fin qui detto dei primi due — tavolo/altare e cuscino — mostrandone la quasi nullità dimostrativa.
Evidentemente della nostra stessa opinione sono Valagussa e Mazzotta che non vi hanno fatto alcun cenno nelle loro considerazioni sul Costa-Mezzate.
Quasi a rimarcare la distanza da Goffen (ma senza nominarla) Mazzotta nel Webinar del 23-02-2021 ha fatto cenno al dipinto “Putto con teschio sul cuscino” ma solo per escluderlo dal novero dei dipinti “sacri” di Lotto e indicarlo al contrario come opera puramente “profana”.
12.4 / Ma il Bambino appare spaventato dai Santi oppure è sereno?
Sul modo con cui Lotto raffigura l’atteggiamento del Bambino nel dipinto Boston (ma questo vale anche per il Londra e il Costa-Mezzate — si ricordi che quel nucleo è praticamente identico nei tre dipinti) Goffen vuole che il lettore non veda ciò che c’è ma ciò che essa stessa gli suggerisce (ibidem, p. 40 evidenziazioni nostre):
«Il Bambino si allontana dal crocifisso di San Girolamo e si rivolge verso San Nicola, che gli tiene sopra i simbolici gigli.
[«But the Child turns away from Saint Jerome’s crucifix and toward Saint Anthony [San Nicola], who holds above him the symbolic lilies.»]
Forse lo sguardo di Cristo verso San Nicola, e la sua posa, che sembra quasi un tendere verso l’alto dal cuscino, dalla bara e dalla tavola, si riferiscono alla sua trionfante risurrezione come celebrata nella messa e alla speranza dell’uomo così per la propria redenzione.
In questo modo il dipinto di Lotto ricorda quel momento della funzione in cui il sacerdote, offrendo l’Ostia e il vino consacrati, dichiara di farlo “in memoria della passione del Signore nostro Gesù Cristo, della sua risurrezione e ascensione, e in onore della Beata Vergine Maria”».
Il lettore tenga a mente questa lettura di Goffen: secondo la critica statunitense il Bambino non è affatto spaventato e non si allontana per nulla dal Santo che è alla sua sinistra.
Anzi Goffen lo dice allontanarsi dal Santo alla sua destra (il vecchio San Girolamo) e “rivolgersi” verso quello alla sua sinistra, il gradevole giovane San Nicola che sorridendo cerca di attirarne amabilmente l’attenzione.
Vedremo più avanti come da altri critici, certo non meno quotati di Goffen, come Augusto Gentili, l’atteggiamento del Bambino sarà visto all’opposto come di allontanamento del Bambino da San Nicola in un irrefrenabile moto di spavento determinato dalle mani incrociate del Santo; nel Costa-Mezzate Gentili, Valagussa e Mazzotta (che però in questo è prudente), è invece dallo scoiattolo che sarebbe in fuga il Bambin Gesù.
Misteri della fanta-critica quando voglia sostituire l’affabulazione alla osservazione dell’opera che vorrebbe analizzare e spiegare.
Da parte nostra notiamo che il Bambino (in entrambe le versioni Boston e Londra) molto semplicemente ignora San Girolamo e orienta lo sguardo alla sua sinistra verso qualche cosa fuori dal quadro — sicuramente NON le mani incrociate di San Nicola né tantomeno il Santo stesso, che invece lo fissa con determinazione.
Qualcuno pensa seriamente che Lotto avrebbe avuto difficoltà a rappresentare il Bambino ricambiare direttamente lo sguardo con San Nicola, se questa fosse stata la sua intenzione?
O, nel Costa-Mezzate, fissare lo scoiattolo? Siamo seri!
13. Acriticamente sulla scia di Goffen la critica delle Mostre monografiche su Lotto.
13.1 / Il genio inquieto del Rinascimento in mostra a Washington / Bergamo / Parigi, 1997-98.
Vent’anni dopo l’articolo di Goffen del 1978 e 44 anni dopo la mostra di Venezia 1953, ci si occupò del dipinto al centro delle nostre attenzioni nella mostra monografica «Lorenzo Lotto. Il genio inquieto del Rinascimento», organizzata dalla National Gallery di Washington, in collaborazione con l’Accademia Carrara di Bergamo e itinerante tra Washington (2nov/1997 – 1mar/1998); Bergamo (2apr-28giug/1998); Parigi (12ott/1998 – 11gen/1999).
Nella medesima mostra vennero proposte sia la versione Costa-Mezzate sia la versione Boston.
Pur segnalando che quel titolo fu utilizzato solo per la edizione di Bergamo (a Washington la mostra era denominata «Lorenzo Lotto: rediscovered master of the Renaissance»; a Parigi semplicemente «Lorenzo Lotto, 1480-1557»), con quella iniziativa intercontinentale venne di fatto protocollato il richiamo a una supposta “inquietudine” dell’artista, facendone una parola da intendere di volta in volta eventualmente nei modi più diversi (a Lecco, per esempio, la “inquietudine” non è di Lotto ma della “realtà”, qualunque cosa ciò voglia dire).
13.2 / Nel 1997-98 Lucco segue pedissequamente Goffen e, meraviglie della carpenteria, pianta chiodi nel marmo.
Nel Catalogo ufficiale della mostra, al Costa-Mezzate e al Boston dedicò due schede Mauro Lucco, uno degli organizzatori dell’iniziativa.
Nella scheda sull’esemplare Boston, Lucco, pur esprimendosi con una certa prudenza condizionale, accettò l’elemento portante della tesi di Goffen, dandole anche una amichevole spintarella sulla questione della cassapanca.
Goffen la aveva definita “tavolo” per poterla più agevolmente innalzare al ruolo di “altare”.
Indifferente ai ben visibili chiodi Lucco fece un passo più in là parlandone senza tanti giri come di un “tavolo di marmo” (Catalogo, p. 145, evidenziazione nostra):
«Secondo la studiosa, madre e figlio stanno seduti su un tavolo di marmo che simboleggerebbe la mensa dell’altare; l’oggetto che sta sotto i piedi del Bambino Gesù è una piccola bara, che alluderebbe al suo futuro sacrificio di Redenzione; altra chiara allusione funeraria sarebbe il cuscino su cui egli posa.»
È opportuno inoltre evidenziare al lettore una molto particolare osservazione di Lucco relativa alle versioni Boston/Londra (ma la cosa vale anche per il Costa-Mezzate) che ci sembra utile riportare per esteso (Catalogo, p. 147, sottolineature nostre):
«Certo, questi esempi eccezionali del classicismo in pittura sono trasformati da Lotto sulla base di una fortissima pressura emotiva, quasi che i personaggi della scena fossero letteralmente squassati e resi folli dalla forza interna dei loro sentimenti; con un’adesione, dunque, al “vero” psicologico, prima ancora che ottico, che inevitabilmente esclude ogni legaccio di convenzione compositiva o rappresentativa.»
Il lettore dia una occhiata al dipinto di Boston e veda se gli riesce di trovare da cosa si possa ricavare che Madonna, Bambino, i due Santi («i personaggi della scena») siano «letteralmente squassati e resi folli dalla forza interna dei loro sentimenti».
È curioso come si possano infilare una dopo l’altra simili sciocchezze e non essere immediatamente messi alla berlina, in prima istanza dai propri colleghi — con queste trovate carnevalesche finisce nel ridicolo una intera e certo lodevole categoria di studiosi.
Ma fin qui abbiamo visto come Lucco abbia dato la sua interpretazione alla versione Boston; vediamo ora come egli invece presentò la versione Costa-Mezzate, di nostro più diretto interesse.
13.3 / Lucco, il Costa-Mezzate e lo scoiattolo.
Ci sembra che Mauro Lucco sia stato il primo nella critica internazionale a occuparsi con una certa ampiezza delle specificità della versione ospitata al Castello Camozzi-Vertova di Costa di Mezzate (Goffen nel suo articolo del 1978 ne aveva fatto solo un accenno bibliografico (facendo pasticci); Ekserdjian nel 1991 («A Note on Lorenzo Lotto’s Virgin and Child with Saint Jerome and Saint Nicholas of Tolentino», Journal of the Museum of Fine Arts, Boston – Vol. 3 1991, p. 87) scrisse che di esso «non si conosce la collocazione attuale»).
Queste comunque, in estrema sintesi, le idee di Lucco sul dipinto oggi esposto a Lecco:
1. È stato pubblicato da Berenson nel 1895.
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2. È “splendido” ma sottovalutato dalla critica perché poco accessibile e mal fotografato.
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3. È qualitativamente superiore alla versione di Londra e meglio conservata di quella di Boston.
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4. Con il simbolo dello scoiattolo indica il percorso salvifico dell’umanità attraverso il sacrificio di Cristo.
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5. La “preveggenza” dello scoiattolo è un consolidato lascito del naturalista-storico Plinio.
Lucco ritrova inoltre gli elementi della supposta “inquietudine” di Lotto non nella vicenda biografica dell’artista (come accennato da altri commentatori) ma in una condizione psicologica collettiva che avrebbe riguardato, verso il 1520, aree rilevanti della Val Padana (Catalogo, p. 127, evidenziazioni nostre):
«L’andamento fortemente divergente delle teste della Madonna e del Bambino, lo scarto fra le dimensioni del capo del Battista e di santa Caterina, l’accentuazione della direttrice diagonale verso la profondità, dalla faccia illuminata della cassetta di legno al Precursore, e l’atteggiamento della Vergine che si volge ostentatamente a guardare fuori del campo figurativo, verso l’osservatore del dipinto, conferiscono a quest’ultimo un senso di instabile equilibrio, di inquietudine, quasi di irrisolto nodo emotivo. Ciò vale a trovargli giusta collocazione in quegli episodi di scarto dalla norma classica (quando non di consapevole negazione di questa, sulla scorta di una maggiore pressura emozionale) esplosi quasi contemporaneamente in più luoghi della Val Padana, sul finire del secondo decennio del Cinquecento.»
Ci rammarichiamo che Lucco non ci abbia detto, anche in poche parole, in cosa consistessero gli “scarti dalla norma classica […] esplosi in Val Padana”.
Sarebbe stato forse un promettente avvio per inserire Lotto nel suo contesto storico, un corretto orientamento spesso trascurato dalla critica d’arte.
13.4 / Uno scoiattolo per constatare nel Bambino il Redentore dell’Umanità.
Passiamo ora a vedere come Lucco si pone rispetto alla presenza dello scoiattolo, certo uno degli aspetti particolari del dipinto ma segnalato — unico in 130 anni — solo da Locatelli nel 1867 (Catalogo, p. 125, evidenziazioni nostre):
«Nella piega della manica, poi, la santa [Caterina] tiene uno scoiattolo, la cui mobilità cerca di schermare con la mano destra. Tale presenza non è facilmente spiegabile, se non facendo riferimento alle credenze sulla vivace intelligenza e previdenza dell’animaletto, ricordate da fonti come Plinio il Giovane e Vincenzo de Beauvais […]. In questo caso, esso simboleggerebbe la previdenza di chi, vedendo il Bambino Gesù, ne comprenderebbe il destino salvifico di Redentore dell’umanità e si affiderebbe totalmente a lui, come fa in effetti la santa Caterina, che lo tiene in braccio. Ma la mancanza di fonti testuali rende tale interpretazione del tutto aperta; e non si può certo escludere che Lotto abbia voluto inserire lo scoiattolo per conferire al suo dipinto un tocco ulteriore di grazia e di vivacità innocente.»
Nell’interrelazione “Bambino / scoiattolo / Caterina” Lucco vede quindi la rappresentazione di una constatazione serena del “destino salvifico del Redentore dell’Umanità” da parte di tutti i credenti, a cominciare dalla Santa Caterina stessa.
Coerentemente, Lucco non vede affatto nel Bambino moti di spavento nei confronti dello scoiattolo come premonitore della sua tragica morte.
Di ben diversa opinione un altro critico d’arte, altrettanto esperto e stimato, anch’egli collaboratore nella stesura del Catalogo della mostra itinerante Washington, Bergamo, Parigi del 1997-98.
Parliamo di Augusto Gentili che ha espresso una diversa visione del significato simbolico della versione Costa-Mezzate.
13.5 / Augusto Gentili su Boston e su Costa-Mezzate: l’assertività al comando.
A proposito dei due dipinti “gemelli” (Boston e Londra) e del Costa-Mezzate, Gentili ha fatta sua la visione generale espressa nel 1978 da Goffen attraverso il pacchetto semiologico “cassapanca – altare / cassetta – bara; cuscino funerario” (Catalogo, p. 39):
«A illustrazione e sostegno del “filo rosso” tematico costituito per numero sterminato di interventi da pre-visione, preannuncio, pre-figurazione della Passione […] Lotto chiama un corredo stupefacente di selezionati segnali, regolarmente disposti in tagli di iconografia e d’impaginazione rinnovati o del tutto originali.
Le bare firmate. Sono piccole: non sono per il futuro e per il Cristo adulto ma per il presente e per il Cristo bambino, non per la figurazione storica ma per la prefigurazione concettuale, non per la narrazione di un episodio ma per la meditazione di un modello.
Nella composizione testimoniata dai dipinti di Londra, Boston e Costa di Mezzate (cat. 24, 18), il Bambino sta sopra un grande cuscino funerario, il cuscino sta sopra la piccola cassa, la cassa sta sopra la mensa del sacrificio.»
A questa generale accettazione del punto di vista di Goffen, Gentili ha però derogato con proprie osservazioni dissonanti, espresse con un deciso piglio assertivo (ibidem, evidenziazioni nostre):
«Nei primi due dipinti [ndr: Londra e Boston], a sinistra c’è Girolamo che ha già a disposizione una croce completa di crocifisso; dall’altra parte c’è Nicola da Tolentino, che spaventa il Bambino portando le mani al petto in segno di croce e lo induce a ritrarsi tra le braccia della madre.
Nel terzo [ndr: il Costa-Mezzate] c’è il Battista adulto, con la croce e il cartiglio che già annuncia il sacrificio dell’agnus; e il Bambino si sottrae a Caterina perché questa ha con sé uno scoiattolo, che da Plinio a Vincent de Beauvais mantiene la caratteristica di prevedere le tempeste.»
Incurante del ridicolo, Gentili vede quindi il Bambino come reattivamente impaurito dalle mani incrociate del sorridente San Nicola mentre Goffen lo presenta per nulla spaventato da chicchessia e anzi avviato a compiere serenamente la propria missione salvifica.
In realtà, basta guardare i tre dipinti con i propri occhi per constatare che il Bambino non manifesta nessunissimo spavento: come da poco svegliato, è appoggiato mollemente alla madre e gira lo sguardo senza fissarlo su alcunché, in quell’atteggiamento un po’ svagato che è facile cogliere in ogni infante e che Lotto ha benissimo rappresentato.
13.6/ Bare o normali contenitori in legno?
“Bare firmate” — Lo stuzzicante e già citato titolino utilizzato da Gentili ci dà l’occasione di riprendere il tema della CASSETTA / BARA, uno dei tre simboli proposti da Goffen per vedere nel pacchetto semiologico la rappresentazione della Passione di Cristo.
Abbiamo già evidenziato l’inconsistenza degli altri due simboli richiamati dalla studiosa statunitense: la cassapanca – altare e il cuscino mortuario.
È ora opportuno sottoporre a esame il simbolo CASSETTA / BARA, da Gentili accettato come parte del pacchetto simbolico a tre punte di Goffen ma in Valagussa e Mazzotta indicato come unico riferimento al “sacrificio del Cristo”, secondo loro rappresentato nel Costa-Mezzate (così come in Boston e Londra).
Ricordiamo che, in coerenza con lo stile adottato per questa mostra di Lecco, i due critici non hanno mai detto perché a loro avviso quella cassetta di legno dovrebbe essere vista come una bara per il Bambin Gesù.
Dobbiamo quindi pensare che accettino i presupposti dimostrativi di Goffen.
13.7 / Una bara fuori misura.
Nel suo articolo del 1978 Lora Goffen aveva infatti dato una qualche spiegazione.
Audacemente, aveva cercato di sostenere la sua tesi “CASSETTA DI LEGNO = BARA” facendo ricorso a una unica motivazione, basata su una supposta somiglianza.
Goffen (op. cit., p. 37, traduzione ed evidenziazioni nostre):
«Per dimensioni e tipologia, la scatola di legno – probabilmente di pino – suggerisce la bara di un bambino.
Si tratta, infatti, di una versione in scala ridotta, anche nella sua modanatura, del sarcofago che riceve il Cristo morto nella sepoltura del Lotto, firmata e datata 1512, e ora nella Pinacoteca Civica di Jesi.»
Tutto qui: secondo Goffen la cassetta è da considerare una bara perché presenta modanature somiglianti a quelle disegnate dieci anni prima da Lotto nel sarcofago di Jesi ma “in scala ridotta”, ossia: sono le stesse ma più piccole.
Domanda facile: ragazzi, cosa sono le modanature?
Risposta del solito sveltone con Wikipedia:
«Una modanatura è una fascia sagomata secondo un profilo geometrico, continuo per tutta la sua lunghezza, che si trova nel mobilio o nella decorazione architettonica, con la funzione decorativa di sottolineare la suddivisione in parti dell’oggetto, oppure di mediare il passaggio tra due superfici disposte ad angolo, per esempio per le parti sporgenti.»
È abbastanza chiaro no?
Se frugate nei dipinti di Lotto e dei suoi colleghi, dovunque trovate elementi architettonici o di arredamento lì trovate anche modanature: da sempre ben note ad architetti, artisti e falegnami, sono infatti elementi che viaggiano assieme, vuoi per ragioni funzionali vuoi per ragioni estetiche.
13.8 / Solo vaga, discontinua e parziale la somiglianza delle modanature.
Cominciamo intanto con dire che l’affermazione di Goffen (e quindi di Gentili e di Valagussa / Mazzotta) è una grandissima balla che si poteva cercare di spacciare quando era ancora difficile procurarsi fotografie almeno discrete dei dipinti: le modanature del sarcofago di Jesi e della cassetta di Boston NON SONO affatto somiglianti nel senso proprio del termine — basta guardarle senza le critiche fette di salame sugli occhi.
Quelle del livello superiore del sarcofago Jesi e di Boston, possono apparire simili ma solo a una prima superficiale occhiata.
Ma se le confrontate con la opportuna attenzione, la somiglianza va a farsi benedire: sono entrambe a quattro ordini ma la configurazione di ogni ordine è nettamente diversa.
Guardate il secondo ordine dall’alto: in Jesi è sottile, in Boston molto più spesso: Il quarto ordine in Jesi è compatto, in Boston con scanalatura.
Inoltre, se confrontate Jesi con Costa-Mezzate, la somiglianza non esiste proprio, essendo Costa-Mezzate a tre ordini.
E guardate poi le modanature alla base dei manufatti: sono tutte nettamente diverse.
Un bel guaio per l’assunto secondo cui le tre versioni Boston, Londra e Costa-Mezzate recherebbero il medesimo messaggio: accettando l’impostazione di Goffen ne verrebbe l’assurdo di un messaggio differenziato per ogni dipinto a seconda della configurazione delle modanature, una indicibile sciocchezza.
In breve, queste modanature presentano ovvie analogie in quanto, molto semplicemente, appartenenti alla medesima categoria ornamentale ma non possono certo essere prese come “modelli simbolici”.
13.9 / Stesse modanature in dipinti “profani”.
Per Goffen (e quindi Gentili, Valagussa, Mazzotta) modanatura richiama necessariamente il tema religioso della Passione di Cristo.
Si dà però il caso che Lotto abbia raffigurato lo stesso tipo di modanature anche in dipinti del tutto “profani”.
1. / Il “Ritratto di gentiluomo”, è dedicato da Lotto a tutt’altro tema: c’è di mezzo forse un amore deluso, la sopraggiunta maturità per un giovane scavezzacollo, ecc. ecc. ma certo non la Passione di Cristo.
Lì potete vedere poggiata sul tavolo (questa volta sì, è un tavolo, cui il giovane si appoggia) una cassetta di legno che nessun critico si è mai sognato di considerare una bara, per bambini o meno.
E in effetti è una cassetta in cui forse deporre oggetti preziosi o comunque da tutelare con una delle chiavi poggiate sul suo coperchio.
Questa cassetta del gentiluomo è molto più vicina, come struttura, alle cassette dei tre dipinti di Costa-Mezzate, Boston e Londra di quanto non sia il sarcofago della Deposizione di Jesi citato da Goffen.
2. / E guardate l’altro dipinto di Lotto, il ritratto di “Messer Febo”: l’effigiato è appoggiato a un mobiletto con modanature che possono richiamare le modanature delle cassette del tris Costa-Mezzate, Boston e Londra e ancor più quelle del sarcofago di Jesi.
Ma dobbiamo vedere in questa rappresentazione che Lotto ci fa di Messer Febo, una prefigurazione di una sua morte tragica?
Attenzione! Va bene non fermarsi alla superficie e cercare nelle opere di Lotto eventuali messaggi non così evidenti a un primo sguardo ma non bisogna cadere nel ridicolo!
E quindi?
Quindi, siccome il presupposto di Goffen è solo il tentativo di una sfarfalleggiante suggestione, lo stesso devesi dire della sua supposta conseguenza.
Che quella cassetta voglia indicare una bara è una pura fantasia di Goffen, sposata senza uno straccio di motivo da legioni di fanta-critici, tra cui i nostri curatori artistici della mostra di Lecco.
I quali però mai hanno detto perché a loro avviso quella cassetta debba essere considerata una bara (non hanno mai neppure accennato alla ipotesi interpretativa di Goffen, pur avendone fatta propria una parte significativa).
Di certo avranno moltissime ragioni più serie per sostenere il loro punto di vista: siamo ansiosi di esserne resi partecipi.
Per Goffen (e quindi Gentili, Valagussa, Mazzotta) modanatura richiama necessariamente il tema religioso della Passione di Cristo.
Ma ovviamente Lotto ha raffigurato lo stesso tipo di modanature anche in dipinti del tutto “profani”.
1. / Il “Ritratto di gentiluomo”, è dedicato da Lotto a tutt’altro tema: c’è di mezzo forse un amore deluso, la sopraggiunta maturità per un giovane scavezzacollo, ecc. ecc. ma certo non la Passione di Cristo.
Lì potete vedere poggiata sul tavolo (questa volta sì, è un tavolo, cui il giovane di appoggia di fianco) una cassetta di legno che nessun critico si è mai sognato di considerare una bara, per bambini o meno.
E in effetti è una cassetta in cui forse deporre oggetti preziosi o comunque da tutelare con una delle chiavi poggiate sul suo coperchio.
Questa cassetta del gentiluomo è molto più vicina, come struttura, alle cassette dei tre dipinti di Costa-Mezzate, Boston e Londra di quanto non sia il sarcofago della Deposizione di Jesi citato da Goffen.
2. / E guardate l’altro dipinto di Lotto, il ritratto di “Messer Febo”: l’effigiato è appoggiato a un mobiletto con modanature che possono richiamare le modanature delle cassette del tris Costa-Mezzate, Boston e Londra e ancor più quelle del sarcofago di Jesi.
Ma dobbiamo vedere in questa rappresentazione che Lotto ci fa di Messer Febo, una prefigurazione di una sua morte tragica?
Attenzione! Va bene non fermarsi alla superficie e cercare nelle opere di Lotto eventuali messaggi non così evidenti a un primo sguardo ma non bisogna cadere nel ridicolo!
E quindi?
Quindi, siccome il presupposto di Goffen è solo il tentativo di una sfarfalleggiante suggestione, lo stesso devesi dire della sua supposta conseguenza.
Che quella cassetta voglia indicare una bara è una pura fantasia di Goffen, sposata senza uno straccio di motivo da legioni di fanta-critici, tra cui i nostri curatori artistici della mostra di Lecco.
I quali però mai hanno detto perché a loro avviso quella cassetta debba essere considerata una bara (non hanno mai neppure accennato alla ipotesi interpretativa di Goffen, pur avendone fatta propria una parte significativa).
Di certo avranno moltissime ragioni più serie per sostenere il loro punto di vista: siamo ansiosi di esserne resi partecipi.
13.9 / Stesse modanature in dipinti “profani”.
Per Goffen (e quindi Gentili, Valagussa, Mazzotta) modanatura richiama necessariamente il tema religioso della Passione di Cristo.
Si dà però il caso che Lotto abbia raffigurato lo stesso tipo di modanature anche in dipinti del tutto “profani”.
1. / Il “Ritratto di gentiluomo”, è dedicato da Lotto a tutt’altro tema: c’è di mezzo forse un amore deluso, la sopraggiunta maturità per un giovane scavezzacollo, ecc. ecc. ma certo non la Passione di Cristo.
Lì potete vedere poggiata sul tavolo (questa volta sì, è un tavolo, cui il giovane si appoggia) una cassetta di legno che nessun critico si è mai sognato di considerare una bara, per bambini o meno.
E in effetti è una cassetta in cui forse deporre oggetti preziosi o comunque da tutelare con una delle chiavi poggiate sul suo coperchio.
Questa cassetta del gentiluomo è molto più vicina, come struttura, alle cassette dei tre dipinti di Costa-Mezzate, Boston e Londra di quanto non sia il sarcofago della Deposizione di Jesi citato da Goffen.
2. / E guardate l’altro dipinto di Lotto, il ritratto di “Messer Febo”: l’effigiato è appoggiato a un mobiletto con modanature che possono richiamare le modanature delle cassette del tris Costa-Mezzate, Boston e Londra e ancor più quelle del sarcofago di Jesi.
Ma dobbiamo vedere in questa rappresentazione che Lotto ci fa di Messer Febo, una prefigurazione di una sua morte tragica?
Attenzione! Va bene non fermarsi alla superficie e cercare nelle opere di Lotto eventuali messaggi non così evidenti a un primo sguardo ma non bisogna cadere nel ridicolo!
E quindi?
Quindi, siccome il presupposto di Goffen è solo il tentativo di una sfarfalleggiante suggestione, lo stesso devesi dire della sua supposta conseguenza.
Che quella cassetta voglia indicare una bara è una pura fantasia di Goffen, sposata senza uno straccio di motivo da legioni di fanta-critici, tra cui i nostri curatori artistici della mostra di Lecco.
I quali però mai hanno detto perché a loro avviso quella cassetta debba essere considerata una bara (non hanno mai neppure accennato alla ipotesi interpretativa di Goffen, pur avendone fatta propria una parte significativa).
Di certo avranno moltissime ragioni più serie per sostenere il loro punto di vista: siamo ansiosi di esserne resi partecipi.
13.10 / Curioso poi il riferimento di Goffen (e di Gentili, Valagussa e Mazzotta) alle dimensioni della cosiddetta “bara”.
Non bisogna essere esperti spedizionieri o falegnami per rendersi conto che, data la dimensione molto ridotta (la cassetta termina contro la coscia della Madonna), è veramente impensabile che Lotto abbia voluto rappresentarvi una bara assolutamente incongrua con la realtà.
I committenti si sarebbero messi a ridere: un conto è immaginare la Madonna volare nei cieli, un conto accettare come bara una cassetta in cui potevano trovare posto tutt’al più le gambotte belle toste del Bambino.
D’altra parte è proprio l’abc della simbologia: se voglio rappresentare una bara facendone il contenitore per la morte del Bambino, o la faccio della dimensione giusta o la faccio proprio in miniatura: nessun pittore anche alle prime armi seguirebbe una incongrua via di mezzo.
13.11/ La soluzione del resto ce la indica lo stesso Lotto.
Nel Costa-Mezzate (lo proponiamo qui sotto) abbiamo marcato con un cerchietto una fessura verticale posta al centro del lato lungo della cassetta (non compare né in Boston né in Londra, probabilmente per restauri sbadati — o bene orientati da Goffen (scherziamo naturalmente).
Crediamo che anche chi ha meno dimestichezza con scrigni e bauletti può facilmente convenire che si tratta della fessura per la chiave di una serratura.
Riteniamo altamente improbabile che Lotto abbia voluto inventarsi una “bara per bimbo“ a prova di curiosi o ladri: che quindi quella cassetta rappresenti esattamente ciò che è — non certo una bara di improbabili dimensioni.
Ma basta con le sciocchezze di Goffen e compagnia, e andiamo avanti.
14. Tornando agli scoiattoli …
Abbiamo visto come la costruzione concettuale attorno ai tre dipinti di Costa-Mezzate, Boston e Londra, suggerita per prima da Goffen nel 1978, è stata poi condivisa da altri noti critici che vi hanno però immesso proprie valutazioni, in contrasto con la stessa Goffen.
Le divergenze si sono manifestate con maggior evidenza sull’atteggiamento del Bambino: Goffen lo vedeva come positivamente attivo e teso al compimento della propria missione salvifica.
Altri — al contrario — hanno attribuito al Bambino un atteggiamento di reazione impaurita di fronte alla enunciazione del proprio tragico destino, espressa:
— o dalle mani incrociate di San Nicola, viste come annuncianti esplicitamente la crocifissione (Boston e Londra);
— o dallo scoiattolo, visto come preveggente di tempesta > morte (Costa-Mezzate).
È quindi giunto il momento di lasciare la bottega del falegname e di spostarci nel regno animale.
14.1 / Qualche richiamo allo scoiattolo nella pittura rinascimentale.
In tutte sue esposizioni pubbliche Valagussa ha esplicitamente affermato che la presenza dello scoiattolo nella pittura rinascimentale è insolita; come esempio riportiamo quanto da lui detto alla inaugurazione della mostra di Lecco il 5-12-2020 (evidenziazioni nostre):
«il Bambino improvvisamente si agita, quasi si spaventa, e sembra gettarsi tra le braccia della madre. Proprio perché ha visto improvvisamente apparire una presenza insolita, uno scoiattolo, che non è assolutamente frequente nei dipinti dell’epoca.»
Si tratta di una presa di posizione abbastanza curiosa.
Se infatti è chiaro che non in tutti i dipinti del Rinascimento i pittori infilassero uno scoiattolo, è altrettanto chiaro che il piccolo roditore è comunque rappresentato in un certo numero di dipinti, sia a carattere religioso sia profano.
Nulla di strano: allora lo scoiattolo godeva di una certa simpatia come animaletto di compagnia sia per i bimbi sia per le signore che lo tenevano al guinzaglio (poveri scoiattoli!) con collari anche di pregio.
Comunque anche ai nostri tempi lo scoiattolo continua a godere di grande popolarità: basti pensare alla serie di qualche decennio fa con Cip e Ciop o la attuale godibilissima versione di Scrat, lo scoiattolo-topo nell’era glaciale.
Tornando a noi, francamente non abbiamo compreso perché Valagussa abbia scelto questa linea di minimizzazione di un dato di fatto.
Anche perché egli è giunto al punto di non ricordare mai che proprio a Lotto si deve uno dei dipinti in cui lo scoiattolo ha un ruolo di primo piano, seppure con un senso tutto diverso da quello suggeritoci da Valagussa per il dipinto Costa-Mezzate: non vivace preveggente ma dormiglione e indifferente agli accadimenti della vita: l’uomo indica lo scoiattolo che se la dorme e nell’altra mano reca un cartiglio “homo nunquam” — l’uomo non deve mai fare come quel poltrone (Museo dell’Ermitage, Pietroburgo).
Curioso il connotato che ne ha invece dato in un commento-lampo Mazzotta (Webinar del 23 febbraio 2021) che ne ha visto il simbolo della “fedeltà” — senza però spiegarci il perché di questa sua scelta in solitaria controtendenza (è fedele per pigrizia?).
Nel Catalogo ufficiale della mostra Mazzotta si è comunque posto sulla stessa linea di Valagussa, non accennando mai né al dipinto di Lotto dell’Ermitage né ai dipinti di artisti coevi a Lotto (o di anni a lui vicini), in cui lo scoiattolo è ben presente, come chiunque può verificare con una facile indagine (solo a titolo di esempio mostriamo opere “profane” di Giovanni Carriani, Francesco Montemezzano, Bartolomeo Traballesi, nonché il pannello dello Studiolo di Federico da Montefeltro in Urbino, di qualche decennio precedente a Lotto).
14.2 / Scoiattoli in quantità invece per Gentili.
Ma a lui piacciono o “provvidenti” o “preveggenti” di disgrazie.
La censura da parte di Valagussa e Mazzotta sugli “altri” scoiattoli nella pittura rinascimentale è tanto più curiosa in quanto il già citato Augusto Gentili (la fonte della loro tesi scoiattolo = preveggenza della Passione di Cristo), ha invece battuto la strada opposta, sostenendo che lo scoiattolo non solo è una presenza niente affatto rara nella pittura coeva a Lotto ma è invece presente nei dipinti “profani” come simbolo della “provvidenza” e una costante come “preveggente” dei dipinti in cui è raffigurata la Passione di Cristo.
Per l’aspetto “provvidenza” rimandiamo al suo scritto, e ci occupiamo qui solo di quella relativa alla supposta “preveggenza” dello scoiattolo.
Molto opportunamente Gentili ha voluto fissare un riferimento concettuale forte affermando che lo scoiattolo come preveggente è un simbolo ben radicato nella cultura rinascimentale.
La Sezione 15 che segue è dedicata a mostrare come questo assunto di Gentili è destituito di qualunque fondamento e può essere preso come esempio della più audace fanta-critica d’arte.
15. I supposti fortissimi lasciti culturali di Plinio il Vecchio.
Abbiamo già visto sopra come nel Catalogo della mostra itinerante del 1997-98, Augusto Gentili desse una sua lettura precisa del Costa-Mezzate:
«[…] il Bambino si sottrae a Caterina perché questa ha con sé uno scoiattolo, che da Plinio a Vincent de Beauvais mantiene la caratteristica di prevedere le tempeste.»
Il senso di questi riferimenti bibliografici, nel 1997-98 solo accennati da Gentili, è stato sviluppato dallo stesso nel 2000 in un suo articolo (“Lotto, Cariani e storie di scoiattoli” — Venezia Cinquecento, Lug./Dic. 2000, pp. 5-38), negli anni successivi ampiamente e favorevolmente citato dalla critica lottesca.
Di questo articolo di Gentili ci occupiamo quindi qui di seguito, seppure solo per la parte relativa alla fama, dichiarata da Gentili come generalmente riconosciuta almeno dal primo Medio Evo, dello scoiattolo come preveggente delle tempeste e, quindi, con facile traslato metaforico, della Passione di Cristo.
È tanto più utile cercare di avere le idee chiare su questo tema in quanto lo scoiattolo e il suo presunto ruolo predittivo della passione di Cristo è il secondo (e ultimo) elemento su cui Valagussa e Mazzotta basano la loro interpretazione del dipinto di Lotto.
Anche in questo caso è da rilevare che in nessuna delle loro apparizioni pubbliche i due curatori della mostra di Lecco hanno mai fatto cenno al fatto che già da tempo, prima di loro, altri brillanti e stimati critici e storici dell’arte avevano dedicato parecchio spazio a questo tema: non è un granché dal punto di vista del metodo e della condivisione delle conoscenze.
Sarebbe inoltre interessante verificare quanto del dibattito su questo aspetto della mostra sia noto ai 300 studenti, istruiti dalla Curia di Lecco per svolgere il loro ruolo di “ciceroni“ alla mostra stessa nel quadro dei programmi scuola-lavoro, ecc.
15.1 / Gentili su Plinio e Vincent de Beauvais.
Gentili ci introduce alla sua tesi “scoiattolo” = “preveggente di tempesta” citando due opere:
— la “Historia Naturalis” di Plinio il Vecchio;
— lo “Speculum naturale” di Vincent de Beauvais.
Lo stesso Gentili liquida però abbastanza sbrigativamente de Beauvais [ndr: 1190-1264] e il suo “Speculum naturale” [ndr: prima edizione a stampa, Strasburgo 1476] rilevando che l’enciclopedista francese si limita a riportare il testo di Plinio, aggiungendovi solo un paio di sue solo curiose notazioni di pura fantasia (diciamo noi che Vincent de Beauvais riporta le poche parole di Plinio ma senza accentuarne assolutamente un supposto ruolo di “preveggente”).
Di fatto Gentili quindi si limita alla citazione di Plinio, a suo dire più che autorevole nella cultura rinascimentale.
Ma vediamo come Gentili presenta la cosa (p. 7, sottolineature nostre):
«Per “funzionare” come tale, il simbolo deve essere rigorosamente codificato e quindi assolutamente riconoscibile da chi possegga gli strumenti culturali d’accesso al codice.
Il pittore del Cinquecento non può inventare simboli, perché i simboli a sua disposizione sono già ampiamente ma anche stabilmente definiti nel ricchissimo repertorio ormai costituito dalla tradizione (antica, medievale, umanistica; scritta e figurata; “sacra” e “profana”).
Il pittore non può distaccarsi dalla tradizione, perché le sue immagini risulterebbero incomprensibili.»
[…]
«La tradizione testuale sullo scoiattolo è estremamente semplice, precisa, concisa, ed è sempre la stessa, come è tipico della tradizione simbolica, che è fortemente e istituzionalmente conservatrice.
Tutto comincia da un breve passo della Naturae historia di Plinio […], dove si dice (traduco letteralmente dal latino quattro righe):
“Gli scoiattoli prevedono la tempesta, e allora, otturata la tana dalla parte dove spirerà il vento, praticano aperture dalla parte opposta; per il resto è la coda assai pelosa a far loro da coperta. Per alcuni d’inverno è provveduto il cibo; per altri, invece del cibo, il sonno”.
Tutto qui. (Preciso subito che il conclusivo riferimento al sonno dipende dal fatto che i naturalisti antichi credevano che d’inverno gli scoiattoli andassero in letargo come gli orsi: il che è ovviamente falso. Invece è vero che gli scoiattoli sono assai infastiditi dal vento e dal maltempo).
La frase di Plinio già fissa l’elemento fondamentale per la codificazione simbolica: lo scoiattolo è capace di previsione, prevede il futuro, in particolare un minaccioso futuro di tempesta.»
Con quest’ultima affermazione — decisamente perentoria e da leggere comunque alla luce di ciò che egli stesso ci ha detto sulle condizioni necessarie perché un simbolo possa “funzionare” — Gentili vuole suggerire al lettore di oggi che ai primi del ’500 quella unica frase dedicata da Plinio agli scoiattoli (composta in latino da quindici parole) fosse così diffusa e autorevole da rendere assiomatico l’abbinamento “scoiattolo-preveggenza” per chi allora vedesse il dipinto di Costa-Mezzate.
Diciamo subito che questa è una delle più grosse corbellerie mai sentite e che la realtà documentale sullo scoiattolo nella cultura rinascimentale non è per nulla nei termini suggeriti dal pur facondo studioso (e dagli organizzatori della mostra di Lecco) e che sul significato dello scoiattolo nel dipinto di Costa-Mezzate è quindi opportuno vagliare altre ipotesi.
15.2 / Un simbolo rapidamente consumatosi?
Sappiamo bene come l’abbinamento “scoiattolo-preveggenza” non sia ai nostri giorni per nulla scontato.
I visitatori della mostra di Lecco (e prima di loro quelli che, a partire dal 1953, lo hanno potuto ammirare esposto al pubblico) vedono nello scoiattolo una semplice curiosità: proprio ciò che Lucco definiva “un tocco ulteriore di grazia e di vivacità innocente” — espressione giudicata da Gentili addirittura come “indicibile”.
Indicibile o no, di fatto, perché oggi possa affacciarsi alla mente del pubblico l’idea che lo scoiattolo simbolizzi la preveggenza della Passione del Bambino, è indispensabile l’intervento insistito di fior di specialisti della critica e della storia dell’arte che lo ripetano in lungo e in largo e ne facciano anzi l’oggetto principale dell’attenzione.
Non a caso l’alter ego di Lotto nella mostra di Lecco, il pittore Giovanni Frangi, ha dedicato gran parte dei 10,5 mq di tela da lui esposti a fianco del dipinto di Lotto proprio allo scoiattolo; non a caso sul totale delle illustrazioni riportate sul catalogo della mostra, ben il 47% sono dedicate allo scoiattolo.
Sappiamo anche che fino alla mostra itinerante del 1997-98 (nel Catalogo della quale si è per la prima volta parlato in una pubblica mostra del piccolo roditore) nessuno dei critici e degli osservatori nei secoli precedenti, parlando di quel dipinto di Costa-Mezzate, aveva mai fatto neppure un accenno allo scoiattolo, se non Berenson nella terza edizione della sua monografia lottesca del 1955 (lo abbiamo ampiamente discusso sopra).
Solo Locatelli nel 1867 lo aveva citato, ma anch’egli senza farne assolutamente il “preveggente” della Passione di Cristo e, comunque rimanendo, a tutt’oggi e per incomprensibili ragioni, perfettamente ignorato dalla critica.
Evidentemente ciò che secondo Gentili era assolutamente acquisito ai primi del ’500 si è poi svaporato nella cultura italiana ed europea, facendo dimenticare a tutti che “scoiattolo” voleva simboleggiare necessariamente “preveggenza”.
Resta da vedere se, effettivamente, ai primi del ’500 le cose stessero come sostiene Gentili.
Dobbiamo cioè cercare di capire quale potesse essere il reale peso dell’appunto di Plinio sullo scoiattolo come preveggente, almeno nella cultura del nostro Paese.
Anticipato che la nostra risposta è “UGUALE a ZERO”, chiediamo quindi al lettore di seguirci con un po’ di pazienza in un breve excursus su Plinio, la sua opera e lo scarno riferimento che vi si trova allo scoiattolo.
15.3 / L’enciclopedia naturalistica di Plinio.
L’opera “Historia Naturalis” di Plinio abbraccia moltissimi temi della realtà naturalistica, con ampie incursioni in quelle aree dell’attività umana che vi sono strettamente connesse, per esempio, l’architettura e l’arte.
L’intera opera si compone di 37 Libri per circa 408.000 parole.
Al mondo degli “animali terrestri” è dedicato il Libro VIII, che ne conta circa 13.000.
Per dare un’idea un po’ grossolana, ma forse non inutile, del peso dei diversi argomenti nel Libro VIII, ricordiamo che sui 60 animali citati nell’indice, all’elefante Plinio dedica circa 2.000 parole; al leone 1.200; ai ricci 195; allo scoiattolo 23, che risulta tra quelli cui Plinio dedica meno spazio.
Prendendo dal Manoscritto della “Naturalis Historia” dall’Abbazia di Saint-Vincent di Le Mans (metà del XII sec. Le Mans, Médiathèque Louis Aragon, ms. 263, f. 10v.) qui sotto evidenziamo la frase dedicata allo scoiattolo da Plinio, che secondo Gentili (e quindi anche Valagussa e Mazzotta) sarebbe alla base della consolidata tradizione, vivissima anche negli anni di Lotto, secondo cui lo scoiattolo era visto immancabilmente come predittore della Passione di Cristo.
Naturalmente ciò non ha un diretta correlazione con la “qualità” dello spazio dedicata a ogni singolo animale: in questa area della sua enciclopedia Plinio dà infatti molta corda all’aspetto favolistico.
Per esempio, nel paragrafo immediatamente precedente a quello dedicato allo scoiattolo, 67 parole sono dedicate al leontofono e al come i leoni che lo mordano muoiono avvelenati dalla sua urina; e altre 40 parole alla descrizione di come l’urina delle linci si cristallizzi istantaneamente, trasformandosi in ambra.
Il problema è che il leontofono, pur essendo riuscito a entrare nei bestiari medioevali, è animale di pura invenzione. Così come di pura invenzione è il raccontino sulla pipì delle linci.
Nelle 23 parole dedicate allo scoiattolo, fortunatamente, Plinio non si lascia andare a riferire strane balle (di cui egli stesso in parte sicuramente rideva) ma si limita ad esporne un paio di caratteristiche vicine alla realtà: la cura dedicata al nido in caso di precipitazioni, l’uso protettivo della coda.
E però a questo punto opportuno riportare:
— il testo latino utilizzato da Gentili (il quale lo ha preso dal testo proposto nella edizione Einaudi «Gaio Plinio Secondo, “Storia Naturale”, 1983»);
— la traduzione proposta da A. Borghini, E. Giannarelli, A. Marcone, G. Ranucci nella stessa Einaudi;
— la traduzione proposta da Gentili che ha ritenuto “insoddisfacente” la versione Einaudi.
Plinio, Naturalis historia, Liber VIII – 58:
«Provident tempestatem et sciuri obturatisque, qua spiraturus est ventus, cavernis ex alia parte aperiunt fores. De cetero ipsis villosior cauda pro tegumento est. Ergo in hiemes aliis provisum pabulum, aliis pro cibo somnus».
Traduzione Einaudi, 1983 (evidenziazioni nostre):
«Prevedono le tempeste anche gli scoiattoli e, dopo aver tappato le loro tane nella direzione in cui soffierà il vento, aprono un passaggio da un altro lato. Quanto al resto, hanno come rivestimento una coda piuttosto pelosa. Dunque, per l’inverno, alcuni animali fanno provvista di cibo, per altri invece il sonno prende il posto del nutrimento.»
Traduzione Gentili, 2000:
«Gli scoiattoli prevedono la tempesta, e allora, otturata la tana dalla parte dove spirerà il vento, praticano aperture dalla parte opposta; per il resto è la coda assai pelosa a far loro da coperta. Per alcuni d’inverno è provveduto il cibo; per altri, invece del cibo, il sonno».
Come il lettore può verificare, tra le due versioni c’è una profonda differenza: in quella Einaudi sia nell’iniziale “anche” che nella locuzione “alcuni animali” della frase finale, lo scoiattolo viene posto in relazione con le altre realtà naturalistiche illustrate da Plinio nei paragrafi precedenti.
Nella versione Gentili questa relazione viene invece cancellata: ignorato l’“anche” (in latino, la “et” della prima frase); non esplicitato il sottinteso “animali” dell’ultima frase, invece opportunamente evidenziato nella versione Einaudi che non a caso Gentili definisce “insoddisfacente”.
15.4 / Lo scoiattolo nell’insieme della enciclopedia pliniana.
È infatti opportuno chiarire subito che la frase finale del breve periodo citato da Gentili (“Per alcuni d’inverno è provveduto il cibo; per altri, invece del cibo, il sonno”), non si riferisce a osservatori diversi che avrebbero manifestato idee diverse intorno allo scoiattolo — come egli vuole suggerire — ma è la sintesi di diverse considerazioni sviluppate da Plinio nei paragrafi precedenti, riguardanti ALTRI animali.
Plinio non ci dice infatti nulla né delle eventuali scorte di cibo da parte dello scoiattolo per il periodo invernale né del suo eventuale sonno/letargo.
Sullo scoiattolo Plinio ci dice solo ed esclusivamente due cose:
— che, presentendo il temporale, l’animaletto interviene a modificare la struttura della sua “tana” (che in realtà è un “nido”»);
— che utilizza la sua folta coda come protezione.
In realtà, l’uso della coda come protezione (dalla pioggia come dal sole o come elemento mimetico) è un effettivo uso del proprio corpo da parte dello scoiattolo.
È la ragione per la quale i greci (tra questi Aristotile) lo definivano come quello che “si fa ombra con la coda” senza alcun riferimento a sue eventuali doti di preveggente.
Per quanto riguarda l’uso in Gentili del termine “tana”, è opportuno ricordare che in italiano questo lemma indica un pertugio/rifugio scavato sotto terra, mentre il latino “caverna” indica genericamente una “cavità”, da specificare ulteriormente in base al contesto (in italiano “caverna” ne ha mantenuto solo uno dei possibili significati come cavità orizzontale, più ampia che profonda, a interrompere la pendice di un rilievo).
Nel contesto della frase pliniana “caverna” va inteso come “nido”.
A noi è ben noto (ma ancor più doveva esserlo ai tempi di Plinio) che gli scoiattoli non usano “tane” scavate nella terra.
I loro rifugi sono: nell’inverno, le cavità nei tronchi degli alberi; nel resto dell’anno, invece i nidi che essi costruiscono sulle cime più alte, là dove, tra i “nemici” dello scoiattolo, solo la martora riesce a spingersi per impadronirsene (cosa che fa spesso e volentieri).
Là, sugli ultimi esili rami degli alberi, lo scoiattolo costruisce con grande perizia nidi di ottima fattura, tali da resistere ai temporali più violenti.
Ed è proprio perché ha il nido sulla cima degli alberi, dove è avvertibile il più debole soffio di vento, che lo scoiattolo sente avvicinarsi la tempesta e percepisce da dove verranno le più forti folate di vento.
E allora, lo scoiattolo si mette immediatamente al lavoro: chiude il nido e ne lascia aperto solo un piccolo foro di 3-4 centimetri per i suoi spostamenti; e su quel piccolo foro costruisce uno spiovente che impedisca all’acqua di entrare.
Per la verità, quindi, bisognerebbe ricordare lo scoiattolo come abile e positivo carpentiere, pronto ad affrontare e risolvere le avversità, piuttosto che come annunciatore di disgrazie.
15.5 / Concatenazione di idee.
È noto che Plinio, a lungo ufficiale di cavalleria in Germania e amministratore, storico e politico prima e più che ricercatore, compilò la sua enciclopedia non tanto a partire da sue dirette osservazioni ma intrecciando informazioni eterogenee tratte da autori greci e latini.
E ciò con criteri decisamente non sistematici ma spesso solo per associazione di idee o concatenando a dati di realtà elementi favolistici, lontani da qualsiasi considerazione anatomica o morfologica o etologica.
D’altra parte ciò che può attrarre nell’opera pliniana è proprio il suo continuo oscillare fra realtà e leggenda e nel suo passare dall’accreditare le balle più evidenti alla esposizione razionale di fatti ben documentati.
Come esempio di questa procedura, ricordiamo proprio i capitoletti precedenti il VIII-58 (dedicato alla martora e allo scoiattolo).
Lì Plinio parla di animali che per l’inverno vanno in letargo (e cita l’orso); oppure, prevedendo il freddo e la neve, fanno scorta di cibo (e cita il riccio).
In entrambi i casi, a questi dati di realtà, Plinio aggiunge elementi chiaramente favolistici: per l’orso dice che la madre definisce la struttura dei cuccioli informi appena partoriti, leccandoli; per i ricci che per difendersi dalla cattura si inondano della propria urina.
Agganciandosi a questo uso del corpo da parte di orso e riccio, Plinio passa senza soluzione di continuità a parlare dell’inesistente leontofono (che a sua volta userebbe della propria urina come difesa).
Passa poi alla lince la cui urina si trasformerebbe in pietre di colore rosso (ambra).
Passa poi al tasso che gonfierebbe la pelle per impedire i morsi dei cani e i colpi degli uomini.
Arriva infine allo scoiattolo che prevederebbe il mal tempo (come il riccio) e (come il tasso) usa una parte del corpo (la coda) come protezione.
Si comprende quindi che la traduzione / interpretazione di Gentili astrae completamente dal contesto enciclopedico e nomenclatore in cui è inserita la frase di Plinio sullo scoiattolo.
Solo con questa non corretta procedura egli può invitare il lettore a intendere non che “alcuni animali” vanno in letargo, mentre “altri animali” fanno provvista di cibo (come scrive Plinio) ma che “alcuni uomini” pensano che lo scoiattolo vada in letargo mentre “altri uomini” pensano che faccia scorta di cibo — ovviamente cosa del tutto diversa.
Appare chiaro che anche il dato della “preveggenza” dello scoiattolo (enunciata con le quattro parole “Provident tempestatem et sciuri”) non va intesa come una indicazione particolare di Plinio relativa al solo scoiattolo ma è da inserire nella lunghissima serie di animali a suo avviso caratterizzati dalla medesima “capacità di preveggenza”.
15.6 / In Plinio è solo lo scoiattolo o “preveggenti” sono tanti altri animali?
Leggiamo dal Libro VIII di Plinio (traduzione Einaudi, evidenziazioni nostre):
«(42) Ci sono ancora migliaia di fatti da narrare, dal momento che la natura stessa a moltissimi animali ha dato la capacità di osservare il cielo e di indicare in anticipo, chi in un modo e chi in un altro, i venti, la pioggia, le tempeste, argomento che è immenso da svolgere, come quello dei legami degli uomini con le singole bestie.
Dunque essi preannunciano pure i pericoli, non soltanto con le loro viscere ed i loro intestini, alla cui interpretazione si affida una grande parte dei mortali, ma anche con altri segni. I topi se ne vanno via in anticipo quando c’è minaccia di crolli; i ragni sono i primi a cadere con le loro tele. Osservare gli uccelli per trarne auspici è diventata un’arte presso i Romani ed il collegio dei sacerdoti ha raggiunto una grande potenza.»
[…]«133 (56) Anche i ricci preparano il cibo per l’inverno: dopo essersi rotolati sopra i frutti che giacciono per terra, li infilano con le loro spine e, tenendone ancora un altro in bocca, li portano nelle cavità degli alberi. Essi ancora, nascondendosi nella loro tana, annunziano in anticipo il cambiamento del vento, dall’aquilone all’austro.»
[…]
«184 (71) In Egitto un bue viene adorato come un dio; lo chiamano Api. […] Ha due templi, che chiamano talami, che servono agli Egizi per trarne profezie: è lieto presagio se il bue è entrato nel primo, se è entrato nell’altro annuncia rovine.»
Cap. XVIII:
«Dagli animali: dai pesci : dagli uccelli.
LXXXVII. (87) Anche gli animali danno dei presagi: i delfini che giocano su un mare tranquillo annunciano vento dal lato da cui vengono, e lo stesso quando fanno schizzare l’acqua; i medesimi delfini, se il mare è agitato, annunziano la bonaccia. Il calamaro che volteggia fuori dall’acqua, le conchiglie che si attaccano, i ricci di mare che si fissano o che si zavorrano di sabbia sono indizi di tempesta. Anche le rane che gracidano più del solito e le folaghe che gridano al mattino, e gli smerghi e le anatre che si puliscono le piume col becco annunziano il vento; lo stesso fanno gli altri uccelli acquatici se corrono in gruppo, e le gru che si affrettano verso l’interno, gli smerghi e i gabbiani che fuggono i mari o gli stagni. Le gru che in silenzio volano in alto annunziano bel tempo, e così pure la civetta che grida durante la pioggia (a ciel sereno, invece, essa annuncia tempesta), ed i corvi che gracchiano con una sorta di singulto e si scuotono ininterrottamente; ma se invece di tanto in tanto trattengono la voce si prevedono pioggia e vento. Le taccole che ritornano tardi dalla pastura annunciano il maltempo, ed anche gli uccelli bianchi quando si riuniscono in gruppo, e gli uccelli di terra quando lanciano strida contro l’acqua e se ne spruzzano, in special modo la cornacchia; così pure la rondine quando vola talmente vicina all’acqua da colpirla spesso con l’ala, e gli uccelli che abitano sugli alberi quando cercano riparo nei loro nidi; e le oche se infastidiscono con un continuo schiamazzo, e l’airone triste in mezzo alla sabbia.»
[…]«Dai quadrupedi.
(88) E non è strano che gli uccelli acquatici, o tutti quanti gli uccelli, sentano i presagi atmosferici: le stesse indicazioni dànno le greggi che saltellano e giocano con indecorosa licenza, e così i buoi che annusano il cielo e si leccano contropelo, ed i lerci maiali quando lacerano dei mannelli di fieno destinati ad altri, e le api che se ne stanno nascoste con una pigrizia contraria alla loro operosità, e le formiche che vanno correndo qua e là o trasportano le loro uova, e infine i vermi della terra che escono dai loro buchi.»
Quindi, oltre allo scoiattolo, topi, ragni, uccelli, ricci di terra, buoi, delfini, calamari, conchiglie, ricci di mare, ranocchi , folaghe, smerghi, anitre, gru, civette, corvi, mulacchie, cornacchie, rondini, oche, ardee, buoi, porci, formiche, lombrichi fanno parte a pieno titolo del “bestiario preveggente” di Plinio.
E abbiamo scorso solo 2 dei 37 Libri di cui si compone l’opera pliniana.
Come ognuno può constatare, allo scoiattolo come “preveggente” Plinio non dedica più spazio o rilievo che agli altri 27 animali ugualmente dotati di “preveggenza” che compaiono qua e là nella sua lunga e spesso confusa elencazione.
Ma, nei secoli successivi, cosa era rimasto di questo rapido accenno pliniano allo scoiattolo?
15.7 / Plinio nel mondo antico.
Plinio è uno degli scrittori latini che ebbe buona fortuna anche nei secoli successivi alla morte, sia con la trasmissione del suo testo (cosa comunque complessa e costosa) sia soprattutto attraverso antologie più o meno centrate su questo o quell’argomento specifico sia attraverso centoni che in forma rapida ne tramandassero gli elementi più immaginifici e ritenuti di maggiore interesse.
Gaio Giulio Solino, scrittore romano vissuto fra la prima metà e la fine del III secolo d.C. ci ha lasciato una sua opera — Collectanea rerum memorabilium — che ha avuto una lunga fortuna per tutto il Medio Evo e che richiama elementi della Naturalis historia di Plinio e delle opere di Pomponio Mela, Svetonio, Varrone.
Della Historia di Plinio, Solino condensa alcuni dei temi organizzando i singoli fatti secondo criteri diversi e cercando di accorparli su base geografica.
Riprende brani soprattutto dal III al XIII libro — tra questi quindi il Libro VIII dedicato agli animali di cui ci siamo appena occupati — seguendo il gusto di Plinio: parla quindi a lungo di elefanti, rinoceronti, ippopotami, cavalli, leoni, orsi.
Parlando degli animali che nella trattazione di Plinio sono vicini alla frase sugli scoiattoli, parla di quelli che usano parti del corpo per difendersi, come le istrici che lancerebbero gli aculei contro l’assalto dei cani ma non segue fino in fondo l’associazione di idee di Plinio e tace sullo scoiattolo.
Solino riprende il tema dell’urina della lince che si trasformerebbe in ambra (notazione favolistica che in Plinio precede di poche righe la citazione dello scoiattolo) ma del nostro roditore non dice una parola.
Ricorda gli egiziani per la capacità di interpretare i comportamenti degli animali ma anche in questo caso non compie nessun ponte con il discorso dei segnali predittivii lanciati dagli animali e diffusamente elencati da Plinio e quindi anche in questo caso nulla dice sullo scoiattolo.
Nel suo testo di circa 30.000 parole si riferisce in 9 occasioni a caratteristiche notevoli riscontrabili nella coda di animali reali o di fantasia: lupi, leoni, rettili, scimmie, ippopotami, fenici, camaleonti, elefanti, manticore.
Della coda dello scoiattolo, però, neppure una parola.
Possiamo ben dire che a distanza di tre secoli dall’opera di Plinio, lo scoiattolo e le sue presunte doti di preveggenza erano poco considerati o degni di menzione.
15.8 / Nella iconografia medievale.
In alcuni codici miniati troviamo qua e là — tra i tanti animali reali e immaginari — anche lo scoiattolo ma mai rappresentato nella sua supposta attitudine predittiva.
Riportiamo tre esempi a titolo puramente indicativo: si tratta di manoscritti del Medio Evo o custoditi in ambienti religiosi, noti centri di cultura (nei quali quindi sarebbe stata resa una attenzione particolare a un eventuale legame simbolico tra lo scoiattolo e la passione di Cristo) o dedicati alla lettura dei Salmi, quindi con una stretta attinenza con i temi della religione cristiana.
15.9 / Bestiario di Aberdeen.
È un manoscritto miniato inglese del XII secolo: nel quadro della Creazione degli animali di terra (Genesi 1,20-24), lo scoiattolo è rappresentato intento a sgranocchiare noci o nocciole, senza alcuna indicazione di attitudini alla preveggenza; è in compagnia del coniglio che si mostra più attento rispetto al Creatore.
15.10 / Salterio di Luttrell.
Commissionato da Sir Geoffrey Luttrell (Regno Unito), scritto e illustrato su pergamena nel 1320-1340.
Anche qui troviamo lo scoiattolo: né la sua attitudine né la fisionomia della donna cui è associato riportano ad alcunché di predittivo; tantomeno il testo della pagina di cui è ornamento: si tratta di un brano tratto dai Salmi 16 e 17, senza alcun riferimento alla Passione di Cristo:
Saturati sunt filiis, et dimiserunt reliquias suas parvulis suis.
Ego autem in justitia apparebo conspectui tuo; satiabor cum apparuerit gloria tua.
Diligam te, Domine, fortitudo mea.
Dominus firmamentum meum, et refugium meum, et liberator meus. Deus meus adjutor meus, et sperabo in eum; protector meus, et cornu salutis meae, et susceptor meus.
Laudans invocabo Dominum,
[hanno figliuoli in abbondanza, e lasciano il resto de’ loro averi ai loro fanciulli.
Quanto a me, per la mia giustizia, contemplerò la tua faccia, mi sazierò, al mio risveglio, della tua sembianza.
L’Eterno è la mia rocca, la mia fortezza, il mio liberatore; il mio Dio, la mia rupe, in cui mi rifugio, il mio scudo, il mio potente salvatore, il mio alto ricetto.
Io invocai l’Eterno ch’è degno d’ogni lode e fui salvato dai miei nemici]
14.10 / Salterio di Luttrell.
Commissionato da Sir Geoffrey Luttrell (Regno Unito), scritto e illustrato su pergamena nel 1320-1340.
Anche qui troviamo lo scoiattolo: né la sua attitudine né la fisionomia della donna cui è associato riportano ad alcunché di predittivo; tantomeno il testo della pagina di cui è ornamento: si tratta di un brano tratto dai Salmi 16 e 17, senza alcun riferimento alla Passione di Cristo:
Saturati sunt filiis, et dimiserunt reliquias suas parvulis suis.
Ego autem in justitia apparebo conspectui tuo; satiabor cum apparuerit gloria tua.
Diligam te, Domine, fortitudo mea.
Dominus firmamentum meum, et refugium meum, et liberator meus. Deus meus adjutor meus, et sperabo in eum; protector meus, et cornu salutis meae, et susceptor meus.
Laudans invocabo Dominum,
[hanno figliuoli in abbondanza, e lasciano il resto de’ loro averi ai loro fanciulli.
Quanto a me, per la mia giustizia, contemplerò la tua faccia, mi sazierò, al mio risveglio, della tua sembianza.
L’Eterno è la mia rocca, la mia fortezza, il mio liberatore; il mio Dio, la mia rupe, in cui mi rifugio, il mio scudo, il mio potente salvatore, il mio alto ricetto.
Io invocai l’Eterno ch’è degno d’ogni lode e fui salvato dai miei nemici]
15.11 / Salterio di Ormesby.
Prende il nome da Robert di Ormesby, sottopriore del Priorato della Cattedrale di Norwich negli anni 1330 (Regno Unito).
Qui lo scoiattolo è in funzione esplicitamente erotica: comunque sempre intento a sgranocchiare qualche cosa, in braccio alla donna è coerente con lo sparviero tenuto sul braccio dell’uomo il quale avanza in modo molto esplicito una richiesta di una unione, più o meno matrimoniale.
Il testo della pagina è estratto dal Salmo 101 — Preghiera di un afflitto che è stanco e sfoga dinanzi a Dio la sua angoscia:
«Percussus sum ut foenum, et aruit cor meum, quia oblitus sum comedere panem meum.»
(È stato colpito il mio cuore e s’è inaridito come erba; trascuro di prendere perfino il cibo.)
Se proprio si vuole, è forse possibile trovare un qualche legame con il testo immaginandolo collegato alla richiesta di scambio amoroso, avanzata più che esplicitamente dall’uomo — ma certo non con un qualche carattere predittivo dello scoiattolo o con la Passione di Cristo.
15.12 / Ancora nel Medio Evo, con i “fabliaux”.
L’esplicito senso erotico dello scoiattolo evocato nel Salterio di Ormesby appena citato non è un caso isolato.
Nella letteratura francese dei secoli XI e XII, per esempio, troviamo uno sboccato raccontino in prosa rozzamente versificata, titolato “De l’escureul” (manoscritto 7218), riportato nel IV Volume dei “Fabliaux et contes des poètes françois des XI, XII, XIII, XIV et XVe siècles”, pubblicato a metà ’700 dal filologo Étienne Barbazan (a lato l’edizione Parigi, 1808) che raccoglie 160 composizioni.
I ‘fabliaux’ medioevali, nei secoli successivi a lungo trascurati anche per il loro carattere marcatamente popolare, sono altrettanto importanti delle più citate a scuola ‘chansons de geste‘ per comprendere gli aspetti della vita e della mentalità comuni più diffusi nei secoli del Medioevo.
Appartengono alla cultura francese ma non bisogna essere specialisti per comprendere l’importanza che lo sviluppo dei diversi rami letterari dei cugini d’oltralpe ebbe per lo sviluppo della nostra lingua e del nostro gusto letterario.
I ‘fabliaux’ erano composizioni, parte in prosa, parte in versi, che venivano recitati da attori-musicisti durante i mercati e le fiere annuali, per secoli unici momenti di aggregazione sociale interregionale nella diffusione della cultura in tutta Europa (ricordate come il padre di Francesco d’Assisi fosse un mercante che frequentava le fiere francesi e vi si arricchiva tanto da ricordarle anche dando il nome al figlio).
Naturalmente i narratori itineranti, venivano ingaggiati anche per rallegrare i momenti di convivialità nei castelli dell’aristocrazia e nei palazzi della borghesia facoltosa.
La morale, certo non particolarmente raffinata, che sta alla base di questi racconti recitati, era espressione comunque della borghesia nascente a livello europeo come riflesso della concentrazione della popolazione nelle città.
I personaggi rappresentati sono infatti coppie di borghesi, domestici, nobili decaduti, chierici di vario livello.
Nel racconto in rima di cui ci occupiamo, lungo cinque pagine, il protagonista è uno scoiattolo che pende tra le gambe del giovane Robin, molto tenero nei confronti di una bella ragazza di buona famiglia, che secondo la madre non dovrebbe assolutamente mai pronunciare la parola che indica il “palo” che sta tra le gambe dei maschi di casa.
La ragazza sembra non capire bene la questione.
Il giovane Robin, di bella presenza, anch’egli di buona famiglia e già esperto del mondo, profitta della ingenuità (o presunta tale) della giovane per presentarle il suo “scoiattolo”.
La invita ad accarezzarlo, e ad accoglierlo in sé perché nel suo ventre l’animaletto possa trovare le noci che lei ha mangiato poco prima, ecc., ecc.
È forse l’unico dei fabliaux riportati da Barbazan nei quali l’atto sessuale viene descritto in dettaglio e si conclude con l’invito caloroso della giovane a Robin perché lo scoiattolo torni presto a cercare in lei le noci che gli piacciono tanto.
A dire il vero, per i nostri gusti la composizione non è un granché ed è comunque molto lontana dalla raffinatezza di un Boccaccio.
È però da considerare che quel richiamo decisamente popolare allo scoiattolo / membro maschile doveva essere certo diffuso nella coscienza generale.
Molto più di quanto non fosse quello di una “preveggenza” del piccolo roditore, ci pare assolutamente assente nei secoli precedenti il Rinascimento.
15.13 / Nella trasmissione dell’opera di Plinio.
Naturalmente potete trovare il riferimento allo scoiattolo nei manoscritti che hanno presentato, commentato ed emendato il testo di Plinio al termine del Medio Evo.
Per chi voglia usare la propria testa, è gratuitamente a disposizione di tutti — anche dei professori critici d’arte — un utilissimo sito Web a cura del MIUR con molto materiale di prima mano sull’opera di Plinio — Oltre Plinio.
Grazie a questo spazio abbiamo potuto abbastanza velocemente constatare che la nostra ipotesi secondo cui l’idea di Gentili di una tradizione consolidata dello scoiattolo come preveggente (grazie all’autorità goduta nei secoli da Plinio), è una semplice suggestione / invenzione senza alcuna base documentale: possiamo definirla una chiacchiera da bar universitario ma nulla più.
In realtà, tra il Trecento e il Quattrocento l’autorità di Plinio in campo artistico fu rilevante e la sua opera venne spesso presa come punto di riferimento.
Ciò riguardò però quelle parti dell’opera dedicate dallo scrittore comense alla storia della pittura o alle tecniche pittoriche.
Per esempio si occupò del testo di Plinio — e con molta intensità — Petrarca.
Il poeta acquistò infatti un manoscritto (oggi conservato a Parigi presso la Bibliothèque Nationale, “Caii Plinii Secundi historiae naturalis libri triginta septem, ms. Paris. Lat. 6802”) sul quale appuntò una serie di passi.
Il testo acquistato da Petrarca (lo prestò anche a Boccaccio) non era un granché e lo stesso poeta si lamentò della bassa qualità della trascrizione e dei tanto evidenti errori.
Comunque il poeta si sforzò di comprendere con precisione alcune parti dell’opera di Plinio, in particolare dei libri XXXV-XXXVI, dedicati alla trattazione dei colori minerali e del marmo nei quali Plinio riporta elementi riguardanti la storia della pittura e tocca elementi di un certo interesse per la teoria dei colori, delle luci e delle ombre, della relazione tra pittura, scultura, architettura ecc.
Questo materiale servì a Petrarca per la stesura del suo “De remediis utriusque fortunae”, nel quale dedica un certo spazio ai problemi della produzione artistica.
È quasi inutile dire che della citazione in tre parole di Plinio circa la “preveggenza” dello scoiattolo, o circa lo scoiattolo in generale, in tutta la produzione di Petrarca non troviamo nessunissima traccia.
15.14 / Traduzioni dell’opera di Plinio in volgare.
Con la rapida affermazione della stampa tipografica (quindi nella seconda parte del Quattrocento) poterono essere diffuse le prime traduzioni in lingua italiana dell’opera di Plinio.
Landino: traduzione fedele, nessuna enfasi sullo scoiattolo.
Caio Plinio Secondo «De la historia naturale: dal latino ne la volgar lingua per il dottissimo huomo messere Christoforo Landino fiorentino tradotta: Nuovamente con grandissima diligenza corretto: e da infiniti errori purgato. Aggiuntovi anchora di nuovo le sue figure a tutti i libri convenienti.»
La traduzione di Cristoforo Landino è importante per la sua qualità ed ebbe una larga diffusione con numerose ristampe dopo la prima del 1476, uscita a Venezia; teoricamente quindi poterono consultarla con una certa facilità sia lo stesso Lotto sia i suoi numerosi committenti.
Accompagnano il testo di Landino, illustrazioni poste a inizio dei 37 libri.
Qui proponiamo sia il frontespizio della traduzione di Landino sia l’inizio del Libro VIII, dedicato agli animali terrestri.
Come il lettore può verificare, nell’incisione sono rappresentati alcuni animali esotici da ricordare per svariati motivi (leone, cammello, elefante (evidenziandone l’uso della proboscide come doccia) ma non lo scoiattolo, evidentemente non considerato da Landino come particolarmente significativo per un qualche evidente motivo.
Ecco comunque il testo nella traduzione di Landino per la parte di nostro interesse:
Dall’Indice:
«Leontofano: Lynce, martora, Scoiattoli, lib. 8 cap. 38. car. 54»
Dal testo:
«Sciuri da noi chiamati Scoiattoli prevegono e venti e sempre turano quella parte del covile donde el vento ha a trare e aprano la parte opposita: hanno la coda molto velluta e usonla in luogo di copritura.»
Come si vede, Landino ha tradotto opportunamente “tempestas” con “vento” e ha indicato con buona precisione le modifiche al nido apportate dallo scoiattolo appena si rende conto che sta arrivando una perturbazione; ricordato anche l’uso della coda: nessuna enfasi sulla “preveggenza” dell’animaletto.
15.15 / Le mende di Ermolao Barbaro.
Si potrebbe anche pensare che, se non nelle traduzioni almeno nei commenti all’opera di Plinio, in epoca rinascimentale vi sia stato un fiorire di osservazioni sul ruolo dello “scoiattolo preveggente”, come indicato dal naturalista comense.
Abbiamo quindi cercato anche in quella direzione e naturalmente ci siamo imbattuti in un commento filologico a Plinio che ebbe alla fine del ’400 (quindi vicino al 1522, quando Lotto mise in scena lo scoiattolo nel Costa-Mezzate), una grandissima diffusione e influenza.
Si tratta delle “Castigationes Plinianæ” scritte da Ermolao Barbaro il Giovane (1454 – 1493) nella quale l’umanista compì un notevole sforzo per emendare il testo di Plinio dagli errori a suo dire inseriti dalle generazioni di copisti che nei secoli ne avevano tramandato l’opera.
L’impegnativo lavoro di Ermolao (morì prematuramente di peste a Roma immediatamente dopo la pubblicazione dell’opera) si inseriva nel dibattito nato dalle critiche condotte al testo di Plinio da parte delle correnti più innovative della sempre più affermantesi tendenza scientifica: molti cultori delle scienze mediche mettevano, per esempio, in luce i palesi errori riscontrabili nell’opera di Plinio nel campo di loro interesse.
Ermolao, con le sue mende, intendeva ribattere alle critiche mosse a Plinio indicando come molti degli errori imputati a Plinio fossero dovuti a cattive letture e trascrizioni da parte dei copisti.
Si tratta quindi di un lettore molto attento a Plinio e interessato alla sua difesa.
Nelle oltre 300 pagine del suo testo troviamo a p. 202 (Basilea, 1534) un riferimento anche al brevissimo passo pliniano riguardate lo scoiattolo.
Ricordate il testo latino che abbiamo già riportato?
Dopo il riferimento alla sensibilità dello scoiattolo rispetto ai temporali, Plinio ricorda l’attitudine del roditore a usare una parte del suo corpo per difendersi: «De cetero ipsis villosior cauda pro tegumento est.».
Ermolao ritiene che quel “De cetero ipsis” debba invece leggersi come “Detectis ipsi”, nel senso che (queste le parole di Ermolao) “Quotidies sub dio sunt, atque non sub tecto, cauda ipsis pro tecto est, atque umbra” [ndr: « quando si trovano all’aperto e non al coperto, si riparano con la propria coda”].
Ermolao quindi si occupa delle abitudini etologiche dello scoiattolo, senza fare alcuna menzione delle sue presunte caratteristiche predittive.
15.16 / Ancora su Ermolao Barbaro ma con Poliziano, la bella con il suo vivace “scoiattolo”, la vecchia.
Si diceva sopra come nei “Fabliaux” del Medio Evo francese lo scoiattolo fosse goliardicamente inteso come simbolo del pene.
Non sappiamo francamente quanto fossero diffuse queste composizioni sempre scanzonate e spesso a doppio senso.
Sappiamo invece che era molto conosciuta in Italia — e proprio negli anni in cui operava Lotto — una composizione del poeta Poliziano nella quale allo scoiattolo veniva assegnata la stessa funzione.
Se ne potrebbe fare a meno tanto è conosciuto Poliziano ma non è mai male rinfrescarsi la memoria (è la figura alla destra di chi guarda nel noto affresco del Ghirlandaio, assieme a Tadino, il conosciutissimo traduttore di Plinio che abbiamo poco sopra citato).
Poliziano, letterato e filologo, fu uno dei più importanti intellettuali della seconda metà del ’400: precettore della famiglia dei Medici, segretario personale del Magnifico e professore presso lo Studio Fiorentino, è considerato il più brillante poeta del suo tempo, nonostante la brevità della vita (morì nel 1494 per una improvvisa febbre — chi dice avvelenato — a soli 40 anni, nel corso della crisi della famiglia Medici poco dopo la morte del Magnifico).
Si distinse come grande conoscitore della cultura classica latina e greca e si impegnò (in tandem con Ermolao Barbaro di cui abbiamo appena detto qui sopra), in una difesa molto vivace dell’opera di Plinio, attaccato dalle nuove tendenze scientiste.
Si dedicò anche (immaginiamo per diporto) alla stesura di composizioni di taglio decisamente pornografico.
Abbiamo di Poliziano un’ode in quaternari giambici nota come “In puellam suam”.
È una composizione amorosa, con scoperti doppi sensi erotici, che ebbe allora una grandissima diffusione e mantiene tuttora, a distanza di mezzo millennio, un posto di primo piano nella memoria della cultura pagana rinascimentale.
Proprio ai primi versi dell’ode, Poliziano cita lo scoiattolo (sciurus), ma con tutt’altro significato che l’essere preveggente:
“Puella qua lascivior | Nec virginis blande sinu | Sciurus usque lusitans”
(non è più spensierato / lascivo uno scoiattolo che si rotola nel grembo di una giovane donna).
Ne diamo i primi 10 versi:
In puellam suam
Puella delicatior
Lepuscolo et cunicolo,
Coaque tela mollior
Anserculique plumula;
Puella qua lascivior
Nec vernus est passerculus,
Nec virginis blande sinu
Sciurus usque lusitans;
Puella longe dulcior
Quam mel sit Hyblae aut saccarum.
Comunque vogliate tradurre, sono più che evidenti gli scoperti rimandi al sesso, consentiti dalla frequente molteplicità di significato nella lingua latina: anche per Poliziano lo scoiattolo rappresenta esplicitamente il membro maschile:
Fanciulla [amante] più graziosa [libidinosa]
di un leprottino [simbolo di Venere] e di un coniglietto [pop., vulva]
più morbida di un tessuto di Coo [velo trasparentissimo in voga tra le cortigiane]
e delle piume di un anatroccolo [simbolo erotico];
fanciulla di cui più spensierato [lascivo]
non è nemmeno un passerotto [pop., pene] in primavera,
né uno scoiattolo [idem] che si rotola nel grembo [incavo/sesso] di una ragazza;
fanciulla molto più dolce
di quanto possa esserlo il miele ibleo o lo zucchero.
Poliziano compose questa ode con espliciti intenti erotico-goliardici, appena camuffati sotto il tono elegante del suo ricercato latino.
Immediatamente a fianco di questa ode dedicata alla sua vivace giovane amante (Puella), Poliziano ne compose un’altra, intitolata invece al suo opposto, una vecchia (Anus) che Poliziano dipinge con i peggiori colori dello scherno: una composizione a due corni, quindi, non proprio apprezzabile per il nostro gusto attuale.
Nelle enciclopedie si tende a non presentare questa seconda parte dedicata alla vecchia brutta e spregevole, forse per non dare spago alle tendenze goliardiche degli studenti di ogni luogo che ne trarrebbero certo spunto per epigrammi non cortesi rivolti alle professoresse già in là con gli anni.
Ma grazie a Silvia Rizzo (“Poliziano, Puella e Anus”, Italia Medioevale e Umanistica, vol. LVII, 2016) sappiamo che al tempo di Poliziano questa seconda composizione andava necessariamente assieme all’altra dedicata alla bella e lasciva giovane amante — ed era molto apprezzata anche dagli intellettualoni:
«La Hill Cotton ha segnalato una lettera ad Ermolao Barbaro, allora ambasciatore veneziano a Milano, del nunzio pontificio Iacopo Gherardi da Prato, scritta da Milano il 13 gennaio 1489, in cui i due carmi sono menzionati insieme in un poscritto scherzoso:
“Vale. Politiani quoque puellam, si placet, remitte; anum, si mavis, retine, vel Galeazio fovendam concede; sed hec iocor.”
[“Ti saluto. Rimandami anche, per favore, la fanciulla di Poliziano; la vecchia, se preferisci, tientela, oppure dalla da riscaldare a Galeazzo; ma scherzo”.]»
[Ndr: “Galeazzo” era Gian Galeazzo Sforza di Milano, noto per gli smodati appetiti carnali].
15.17 / Riassumendo: Gentili ci ha raccontato solo una bella favola!
Sullo scoiattolo come preveggente, nella cultura rinascimentale i riferimenti, pliniani e non, stanno infatti a ZERO.
Dalla documentazione che abbiamo potuto trovare con una ricerca necessariamente non definitiva ma comunque almeno indicativa del dato di realtà, possiamo asserire che, sulla scia della tradizione medievale, nella cultura diffusa rinascimentale “scoiattolo” rappresentava l’organo sessuale maschile, senza alcun riferimento a una sua presunta capacità di preveggenza.
È però certo possibile che Gentili e i suoi sodali Valagussa e Mazzotta abbiano pacchi di riferimenti favorevoli alla loro comune tesi dello scoiattolo preveggente come simbolo consolidato nella cultura rinascimentale: saremo più che disponibili a prenderne atto e a farne la opportuna pubblicità proprio da questo nostro sito.
Documenti però, non chiacchiere, per favore!
16. Conclusioni.
Nelle prime righe di questa nostra Nota abbiamo segnalato che, appena informati del progetto “Capolavoro per Lecco 2020” proposto dalla Curia di Lecco e incentrato sul dipinto Costa-Mezzate di Lorenzo Lotto, ci eravamo riproposti in prima istanza di verificarne la qualità critico-culturale.
Analizzando l’iniziativa con la dovuta attenzione, ci siamo resi conto della sua estrema debolezza sotto diversi punti di vista che abbiamo esposto con dovizia di particolari e documenti nel corso della Nota e di cui qui richiamiamo alcuni elementi generali.
16.1 / Debolezza strutturale dell’iniziativa, orientata tutta su una unica interpretazione.
In primo luogo gli organizzatori, con Valagussa e Mazzotta (i due curatori artistici della mostra) hanno incredibilmente taciuto su quanto negli ultimi 130 anni si è detto sul dipinto di Lotto, dandone da parte loro una interpretazione esclusivamente religiosa, certo funzionale alla missione della Curia (il promotore dell’iniziativa e anche il suo garante economico-organizzativo) ma zoppa per quanto attiene alla realtà storica che ha visto interpretazioni di tutt’altro genere.
Per la serie di dipinti di Lotto cui appartiene anche il Costa-Mezzate in questi mesi esposto a Lecco, fior di intellettuali dell’Ottocento come Pasino Locatelli, Bernhard Berenson, Gustavo Frizzoni hanno evidenziato come sotto la forma di richiami religiosi, fosse rinvenibile un lato tutto mondano, scrivendo di “eleganza”, “fascino” e giungendo a definire “birichini” gli sguardi di Madonne e Sante.
Perché non si è detta neppure UNA parola su queste diverse visioni dell’opera di Lotto?
Le mostre pubbliche che godono anche del patrocinio e dell’appoggio economico delle Istituzioni civili DEVONO essere aperte alla pluralità delle interpretazioni; altrimenti è opportuno che si svolgano nelle sedi religiose o politiche di chi le promuove, dove possono ovviamente essere presentate come si vuole.
Se la mostra di un dipinto, qualunque esso sia, si svolge al Palazzo delle Paure di Lecco, sede espositiva ufficiale del Comune, è profondamente diseducativo e contro ogni criterio che si cancelli un pezzo di storia che riguarda quel dipinto solo perché eventualmente non funzionale agli obiettivi ideologici del proponente.
16.2 / Fasullo il riferimento a Berenson.
Il secondo aspetto che è emerso dall’analisi del dipinto è che uno dei suoi più importanti riferimenti bibliografici è assolutamente fasullo — il termine appartiene al linguaggio popolare ma esprime bene la sostanza del problema.
Gli organizzatori della mostra e i suoi due curatori artistici hanno indicato in Berenson 1895 la prima pubblicazione del dipinto, quando invece Berenson nella sua monografia lottesca descrisse di evidenza un ALTRO dipinto.
Nella Prima Parte della Nota abbiamo dato ampia illustrazione di questa nostra tesi, riteniamo tanto inedita quanto solida nelle argomentazioni e nelle conclusioni.
Ne risulta gravemente compromessa non tanto la credibilità dell’autografia del dipinto da parte di Lotto (a questo aspetto potrà forse essere data risposta seria solo quando potremo disporre delle opportune analisi strumentali e della reale storia proprietaria del dipinto) quanto l’impalcatura critica della mostra.
Con quale faccia organizzatori e curatori possono parlare di un “capolavoro per Lecco” quando del dipinto in questione non sanno dire altro che vaghi e omissivi “si dice”, “forse”, “probabilmente”, preferendo tacere anche sulla sua proprietà?
Noi abbiamo posto apertamente e in modo documentato un problema di analisi critica su un pilastro bibliografico del dipinto: i suoi proprietari, gli organizzatori, i due curatori artistici della mostra sono in grado di rispondere in modo altrettanto documentato dimostrando una eventuale inconsistenza della nostra analisi?
Se sì! ci impegnamo a darne ampio risalto su questo nostro sito e a fare pubblica ammenda.
Se no! essi devono prenderne atto e riconoscere pubblicamente — per rispetto del pubblico, si intende — che sotto questo profilo si impone quanto meno una profonda riflessione.
16.3 / Inesistenti i presupposti storico-documentali della stessa interpretazione religiosa.
La interpretazione religiosa del dipinto di Lotto esposto a Lecco è relativamente recente.
Nella seconda parte dell’Ottocento (lo abbiamo già ricordato) era predominante una valutazione assolutamente profana, basata sul fasto dell’abbigliamento delle Madonne e delle Sante proposte da Lotto in quel periodo (1521-23) e sul loro atteggiamento, certo non chiassoso ma evidentemente tutto mondano.
Nei decenni successivi illustri critici (Venturi, Banti, Boschetto, Zampetti) preferirono non pronunciarsi sui contenuti e mantenere il silenzio su fasto suntuario ed espressioni di fascino femminile, limitandosi a osservazioni più o meno anodine sullo “stile” di Lotto.
Solo a partire dal contributo di Goffen nel 1978 su una delle versioni del Costa-Mezzate (Boston) si imboccò la strada della valutazione del dipinto di Lotto in chiave tutta religiosa.
Da allora, schiere di critici si misero sulla scia tracciata da Goffen e pensarono, dissero, scrissero che nei tre dipinti di Lotto (di cui fa parte il Costa-Mezzate) è rappresentata la Passione del Cristo; lo testimonierebbero una messe di simboli: i Santi (Girolamo, Nicola da Tolentino, Giovanni Battista, Caterina d’Alessandria) ma anche l’altare, la bara, il cuscino funebre e, nel Costa-Mezzate, lo scoiattolo; sopra tutto e tutti la paura manifesta del Bambino.
I rappresentanti più noti di questa vulgata sono stati Lucco, Gentili e Fracassi.
Tra questi si è imposto per facondia Gentili che ha scommesso tutto sullo scoiattolo e sul suo supposto ruolo di predittore di tragedie, da lui detto solidamente piantato nell’immaginario collettivo rinascimentale dal lascito culturale del comense/romano Plinio il Vecchio.
I due curatori artistici della mostra, Valagussa e Mazzotta, pur mantenendo un profilo basso (e giungendo a non nominarli mai), hanno imboccato la strada tracciata da Goffen e Gentili ma scegliendo fìor da fiore: del lascito di Goffen hanno taciuto su altare e cuscino tenendo per buona solo la bara; di Gentili si sono tenuti stretti lo scoiattolo, il suo millantato posto nella cultura rinascimentale, il Battista (quest’ultimo, diciamo noi, è l’unica figura del dipinto a potere essere considerato un simbolo univoco).
Per l’atteggiamento del Bambino Valagussa e Mazzotta hanno preferito aderire alla versione tragica, abbandonando Goffen e seguendo Gentili.
Per Goffen il Bambino era infatti serenamente pronto al sacrificio; sulla scia del mai nominato Gentili, per essi invece il Bimbo è impaurito dallo scoiattolo; si ritrae; si rifugia nelle braccia della Madre presentendo il tragico suo destino e col piedino preme sulla bara che lo accoglierà.
Una commovente narrazione!
Peccato che nessuno dei simboli richiamati da Goffen e da Gentili regga a un minimo di analisi storica.
Ne abbiamo nella Parte Seconda della Nota dato un ampio saggio che riteniamo sufficientemente esaustivo e di cui è inutile qui riprendere gli argomenti.
Ricordiamo solo la gherminella di Gentili sulla presenza dello scoiattolo “predittore” nella cultura rinascimentale come portato del lascito pliniano: è una favola godibile ma senza il minimo fondamento documentale.
Nel Medio Evo e nel Rinascimento italiano ed europeo lo scoiattolo è unanimemente richiamato come simbolo scherzoso e popolare del membro maschile, senza che sia rinvenibile UN SOLO richiamo alla sua presunta capacità predittiva: anche in questo caso abbiamo sostenuto la nostra tesi con documenti facilmente verificabili da chiunque.
Anche in questo caso, se gli organizzatori della mostra e i due suoi curatori artistici sono in grado di mostrare una nostra fallacia e ignoranza, ben vengano i loro chiarimenti: faremo loro festa, dandone ampia pubblicità.
Attendiamo fiduciosi!
Caro lettore, grazie per la pazienza e alla prossima.