Seleziona una pagina
7 marzo 2017 – Nel 232º della nascita (7 marzo 1785) ricordiamo il Poeta della città di Lecco.

La famiglia Manzoni” di Natalia Ginzburg.

Una nostra riflessione critica sulla nuova edizione Einaudi a cura di Salvatore Silvano Nigro.

L’edizione del 2016, cu­rata dal Pro­fes­sor Sal­va­tore Sil­vano Nigro.

Nota della Redazione.

L’articolo che se­gue è stato dif­fuso dal no­stro Cen­tro Studi Abate Stop­pani nel primo po­me­rig­gio del 7 marzo 2017. Nella mat­ti­nata ave­vamo con­sta­tato in­fatti che (a dif­fe­renza di Casa del Man­zoni di Mi­lano) il Co­mune di Lecco — città del Man­zoni — non aveva ri­te­nuto op­por­tuno ri­cor­dare il giorno na­tale del suo poeta nep­pure con un breve cenno.
C’è chi pensa che gli an­ni­ver­sari va­dano ri­cor­dati alle co­sid­dette ci­fre tonde: de­cen­nali e via mol­ti­pli­cando. In ge­ne­rale può es­sere un cri­te­rio sen­sato ma — come spesso ac­cade — può non es­serlo per nulla in casi par­ti­co­lari.
Bene! Da parte no­stra ri­te­niamo che il rap­porto tra Man­zoni e la città do­vrebbe in Lecco es­sere con­si­de­rato come un caso par­ti­co­la­ris­simo. Tanto da in­durre al­meno le au­to­rità co­mu­nali a ri­cor­dare — ogni anno — sia il giorno della na­scita sia quello della scom­parsa del poeta. Non ci vuole molto: se pro­prio non si rie­sce a fare di più è suf­fi­ciente un Co­mu­ni­cato Stampa, di quelli che il Co­mune rende pub­blici re­gi­stran­doli sul pro­prio sito Web e tra­smet­ten­doli alla stampa. A Lecco, an­che que­sta azione può es­sere im­por­tante per la me­mo­ria col­let­tiva della città. Così come può es­sere utile all’Assessore all’Istruzione, nel suo im­pe­gno di coor­di­na­mento tra vita cit­ta­dina e pe­da­go­gia sco­la­stica, per ri­cor­dare agli in­se­gnanti di farne al­meno una men­zione nelle classi.

Tra l’altro, il giorno della na­scita di Man­zoni pre­cede im­me­dia­ta­mente l’8 marzo, gior­nata in tutto il Mondo de­di­cata alla donna: quale mi­gliore oc­ca­sione per il­lu­strare — anno dopo anno — la fi­gura dell’elemento fem­mi­nile nella vita e nell’opera dell’autore?

A di­spetto di Ginz­burg, Man­zoni è in­fatti, nel no­stro Ot­to­cento, lo scrit­tore che ha sa­puto, con mag­giore sen­si­bi­lità e con mag­giore arte, met­tere in luce il mondo fem­mi­nile, in tutte le sue sfac­cet­ta­ture.
Le sue opere (e non solo “I Pro­messi Sposi”) sono una mi­niera di ri­fles­sioni se­rie, molto acute sul mondo fem­mi­nile, sulla donna, sulle donne. Sulla vio­lenza fi­sica o psi­co­lo­gica di cui sono spesso vit­time e an­che com­plici. Ma an­che sulla grande ca­pa­cità che hanno di rap­pre­sen­tare la spe­ranza del fu­turo. Per­ché da loro è la vita e per loro si vive.

Co­mu­nuqe, l’articolo che pro­po­niamo come no­stro pic­colo con­tri­buto a te­nere viva la me­mo­ria di Man­zoni è il com­mento a “La fa­mi­glia Man­zoni”, il li­bro di Na­ta­lia Ginz­burg, edito nel 1983 e pro­po­sto re­cen­te­mente da Ei­naudi in una nuova edi­zione, cu­rata da Sal­va­tore Sil­vano Ni­gro. Il pro­fes­sore è mem­bro del Con­si­glio Di­ret­tivo del Cen­tro Na­zio­nale Studi Man­zo­niani ed è noto ai lec­chesi an­che per al­cune sue par­te­ci­pa­zioni agli in­con­tri or­ga­niz­zati dal Co­mune di Lecco nell’annuale ci­clo di eventi de­di­cati a Man­zoni.
Il te­sto era già pronto come ca­pi­tolo di una più am­pia opera sul gio­vane Man­zoni e i suoi rap­porti con Lecco su cui il no­stro Cen­tro Studi sta la­vo­rando. Lo ri­pro­du­ciamo as­sieme alla let­tera di ac­com­pa­gna­mento con cui il 7 marzo è stato da noi dif­fuso nell’ambiente lecchese.

A mar­gine è da se­gna­lare — > vedi QUI — la rea­zione in­fan­til­mente ri­di­cola (con an­che tratti grot­te­schi) con cui la Giunta co­mu­nale di Lecco ha ri­te­nuto di do­vere ri­spon­dere all’articolo che qui sotto si pro­pone.
È istrut­tivo per com­pren­dere quanta strada vi sia an­cora da fare per­ché si af­fermi una ma­tura con­sa­pe­vo­lezza delle opportunità/necessità cul­tu­rali della città.

7 marzo 1785 – 7 marzo 2017.
232º anniversario della nascita di Alessandro Manzoni.

Let­tera aperta del Cen­tro Studi Abate Stop­pani a tutti gli in­te­res­sati alla cul­tura della città di Lecco.
__________

Gen­tili Si­gnori,
con­sta­tiamo con ram­ma­rico che nes­suna delle fi­gure isti­tu­zio­nali pre­po­ste alla cul­tura lec­chese ha ri­te­nuto op­por­tuno ri­cor­dare il 232º an­ni­ver­sa­rio della na­scita di Ales­san­dro Man­zoni. Si tratta di un’ulteriore con­ferma dell’incomprensione del va­lore unico e in­so­sti­tui­bile che la fi­gura di Man­zoni ha sia per la fi­sio­no­mia della città di Lecco sia per i ri­flessi più che po­si­tivi che po­trebbe avere — an­che sull’indotto tu­ri­stico — una ge­stione quanto meno ac­corta del pa­tri­mo­nio cul­tu­rale che la sto­ria ha re­ga­lato alla città.

Pur­troppo le Isti­tu­zioni lec­chesi di­men­ti­cano spesso il le­game straor­di­na­rio tra Lecco e il suo Poeta. Non solo: si fanno an­che in­con­sa­pe­voli e in­ge­nui so­dali di quella si­ste­ma­tica opera di di­sin­for­ma­zione che vuole as­so­ciare il nome di Man­zoni esclu­si­va­mente a quello di Mi­lano. Un’operazione cul­tu­rale av­viata da­gli in­tel­let­tuali mi­la­nesi già nel 1873 (morte di Man­zoni); fre­nata per qual­che de­cen­nio dalla vi­go­rosa azione dell’Abate Stop­pani; or­mai però in piena af­fer­ma­zione, so­prat­tutto dopo la scelta del 2014 (ope­rata dalla prima Giunta Bri­vio) di dis­so­ciare il nome di Lecco da quello di Man­zoni.
Si ri­cor­derà che fino ad al­lora, le an­nuali ras­se­gne man­zo­niane erano de­no­mi­nate “Lecco città di Man­zoni”. A par­tire dal 2014 que­sta pre­cisa espres­sione venne ab­ban­do­nata e la de­no­mi­na­zione di­venne “Lecco città dei Pro­messi Sposi”, forse in os­se­quio a qual­che stra­te­gia pro­mo­zio­nal-tu­ri­stica che — ci sem­bra — non ab­bia dato grandi risultati.

Re­cen­te­mente la casa edi­trice Ei­naudi ha pro­po­sto una nuova edi­zione (molto pub­bli­ciz­zata) del li­bro “La fa­mi­glia Man­zoni” di Na­ta­lia Ginz­burg, ap­parso in prima edi­zione nel 1983. Il li­bro di Ginz­burg è – ol­tre a molti al­tri aspetti – una ti­pica espres­sione di quel fi­lone cul­tu­rale di “ne­ga­zione” del le­game tra Man­zoni e Lecco, di cui ab­biamo già par­lato.
Per ri­me­diare in qual­che modo alla “di­men­ti­canza” del Co­mune, in que­sta gior­nata an­ti­ci­piamo al let­tore un ca­pi­tolo — de­di­cato ap­punto al li­bro di Ginz­burg — di un no­stro la­voro più am­pio sui rap­porti tra il gio­vane Man­zoni e Lecco, nel solco dell’azione con­dotta 150 anni fa, con pen­sieri e forme espres­sive di grande mo­der­nità, dall’Abate An­to­nio Stop­pani. Que­sti aveva per­fet­ta­mente colto l’opportunità per Lecco di le­garsi in­dis­so­lu­bil­mente alla fi­gura di Ales­san­dro Man­zoni, uno dei più acuti poeti della nuova Italia.

Na­ta­lia Gin­bz­burg (1916-1991). Scrit­trice di ta­lento e coin­vol­gente, è stata ne­gli Anni ’80 del se­colo scorso (quelli del co­si­detto ri­flusso po­li­tico) so­ste­ni­trice di una rap­pre­sen­ta­zione in­ti­mi­stica delle vi­cende della società.

Un successo editoriale che dura nel tempo.

Ab­biamo con­sta­tato che molti gio­vani (in par­ti­co­lare quelli meno esperti sull’argomento) leg­gono con in­te­resse il li­bro “La fa­mi­glia Man­zoni” di Na­ta­lia Ginz­burg (1983), ri­pro­po­sto più volte in que­sti tre de­cenni dall’editore Ei­naudi. Del pari, sap­piamo che nu­me­rosi do­centi uti­liz­zano il te­sto di Ginz­burg come stru­mento di­dat­tico per ap­pro­fon­di­menti sulla fi­gura di Manzoni.

Dal canto suo, pro­ba­bil­mente per que­sta ra­gione (ol­tre che per ono­rare i 100 anni della na­scita della scrit­trice), a fine au­tunno 2016 Ei­naudi ne ha pre­sen­tato una nuova edi­zione, a cura di Sal­va­tore Sil­vano Ni­gro, che ne ha scritto l’Introduzione e ne ha an­che par­lato po­si­ti­va­mente il 26 gen­naio scorso, nel corso di una con­fe­renza presso Casa Man­zoni di Milano.

Il pro­fes­sor Ni­gro è un’autorità in­ter­na­zio­nale nel campo de­gli studi su Man­zoni (ri­cor­diamo un suo ec­cel­lente “Man­zoni”, La­terza, 1978) ed è co­no­sciuto dai lec­chesi an­che per es­sere in­ter­ve­nuto in al­cune delle an­nuali “ras­se­gne man­zo­niane” che si svol­gono in città. An­che per que­sta nuova edi­zione Ei­naudi non sono man­cate da parte della stampa re­cen­sioni elogiative.

In­somma, il li­bro di Ginz­burg è tut­tora ap­prez­zato sia dal pub­blico sia dalla cri­tica sia dall’Accademia e ha con­qui­stato un suo po­sto nel pa­no­rama della ri­fles­sione su Man­zoni e il suo mondo. Da que­sta con­sta­ta­zione, la no­stra de­ci­sione di oc­cu­par­cene, nel qua­dro delle ri­cer­che che svol­giamo sul rap­porto tra Man­zoni e la città di Lecco: come già detto in al­tre sedi, siamo in­fatti con­vinti so­ste­ni­tori del le­game or­ga­nico tra Lecco e Man­zoni come chiave di com­pren­sione di aspetti im­por­tanti della sua per­so­na­lità ar­ti­stica e fi­lo­so­fica.
Bene! Uno de­gli ele­menti che ci ave­vano col­pito nella let­tura del li­bro di Ginz­burg alla sua prima uscita nel 1983 era la to­tale can­cel­la­zione da parte della scrit­trice del rap­porto tra Ales­san­dro e Lecco.

In­fatti, del rap­porto sto­rico della fa­mi­glia Man­zoni con Lecco e il suo ter­ri­to­rio, l’autrice ci dice solo ed escl­sui­va­mente che il ma­rito pre­scelto per Giu­lia Bec­ca­ria «Aveva una pro­prietà nei pressi di Lecco, chia­mata il Ca­leotto, dove sog­gior­nava d’estate.» (pag. 8 della nuova edi­zione), non una pa­rola di più. Ma que­sto è un aspetto che ci ri­ser­viamo di trat­tare in un’altra nota, re­la­tiva a come (dal 1873, morte di Man­zoni) è pre­sen­tato nella cul­tura ita­liana il rap­porto tra Lecco e Man­zoni, ar­ruo­lato come “mi­la­nese” a tutti gli ef­fetti, con l’ingenua ade­sione delle stesse Isti­tu­zioni lec­chesi pre­po­ste alla cultura.

In que­sta nota, ci vo­gliamo in­vece oc­cu­pare di un aspetto più ge­ne­rale del la­voro di Ginz­burg, ri­cor­dando che il no­stro Cen­tro Studi con­duce i pro­pri “ap­pro­fon­di­menti man­zo­niani” esclu­si­va­mente per una più vera co­no­scenza sto­rica del rap­porto tra Man­zoni e la sua Lecco, senza al­cuna vel­leità di en­trare in am­biti non no­stri, come la cri­tica letteraria.

La co­per­tina dell’edizione del 1983 (da Ginz­burg vo­luta con de­ter­mi­na­zione e an­che con qual­che fri­zione con la re­da­zione della casa edi­trice), esprime in modo pre­ciso l’intenzione dell’autrice di NON porre al cen­tro della pro­pria in­da­gine la fi­gura di Man­zoni ma di col­lo­carla all’interno dell’universo della nu­me­rosa e cro­no­lo­gi­ca­mente molto stra­ti­fi­cata fa­mi­glia. Già da que­sto par­ti­co­lare, il let­tore si sarà ac­corto del di­verso orien­ta­mento della nuova edi­zione del 2016, cu­rata dal pro­fes­sor Ni­gro, la cui co­per­tina è in­vece fo­ca­liz­zata esclu­si­va­mente su Alessandro.

Qual è la specificità de “La famiglia Manzoni” di Natalia Ginzburg?

È que­sta la do­manda che dob­biamo porci in via pre­li­mi­nare. At­tra­verso ol­tre quat­tro­cento pa­gine, Ginz­burg ci rac­conta un lungo pe­riodo della sto­ria d’Italia: dalla na­scita (1762) di Giu­lia Bec­ca­ria, ma­dre di Ales­san­dro, alla morte (1907) di Ste­fano Stampa, fi­glio di Te­resa, la se­conda mo­glie di Man­zoni.
Rende par­ti­co­lare il rac­conto — nelle di­chia­ra­zioni dell’autrice e an­che di molti re­cen­sori fa­vo­re­voli — l’essere co­struito sulla ci­ta­zione di brani di let­tere del co­sid­detto “epi­sto­la­rio man­zo­niano”, un de­po­sito do­cu­men­ta­rio che non ha un suo pre­ciso sta­tuto e che, quindi, per ca­pirci con il let­tore, noi ri­cor­diamo qui come l’insieme delle let­tere di Ales­san­dro, Giu­lia, En­ri­chetta, Te­resa, i pa­renti stretti.

Scrive Ginz­burg (dalle due pa­gine, senza nu­me­ra­zione, che pre­ce­dono la pag. 1 della nuova edi­zione del 2016): «Que­sto li­bro vuole es­sere un ten­ta­tivo di ri­co­struire e ri­com­porre per di­steso la sto­ria della fa­mi­glia Man­zoni, at­tra­verso le let­tere, e le cose che se ne sanno. È una sto­ria che esi­ste spar­pa­gliata in di­versi li­bri, per lo più in­tro­va­bili dai li­brai. … Non avevo mai scritto un li­bro di que­sto ge­nere, dove oc­cor­re­vano al­tri li­bri, e do­cu­menti. Avevo scritto ro­manzi nati dall’invenzione o da ri­cordi miei, e dove non mi oc­cor­reva nulla e nes­suno.»
An­cora (dal ‘Ri­svolto’, pag. 411, idem): «Avevo delle let­tere e dei li­bri. Non vo­levo espri­mere com­menti, ma li­mi­tarmi a una nuda e sem­plice suc­ces­sione dei fatti. Vo­levo che i fatti par­las­sero da sé. Vo­levo che le let­tere […] par­las­sero da sé. Pure al­cuni com­menti mi è sem­brato via via im­pos­si­bile non espri­merli. Sono quanto mai rari e brevi.»

Per­ché il let­tore non pensi a un no­stro er­rore, av­ver­tiamo che il te­sto dell’appena ci­tato “Ri­svolto”, in que­sta nuova edi­zione (che ci sem­bra per molti aspetti un vero di­spetto all’autrice — ma ci tor­niamo più avanti) è po­sto a pa­gina 411 (alla fine del li­bro), men­tre nella prima edi­zione, per espressa vo­lontà di Ginz­burg e con­tro gli usi edi­to­riali, era po­sto nel ri­svolto (per l’appunto) della co­per­tina. Era cioè il primo te­sto dell’autrice of­ferto all’attenzione del let­tore, per­ché si ca­lasse im­me­dia­ta­mente nel clima vo­luto dalla scrit­trice. Ma tor­niamo a noi.

Come da essa stessa espres­sa­mente af­fer­mato, la scrit­trice non fa grandi di­stin­zioni tra “let­tere”, “fatti” e “cose che se ne sanno”. Dalle sue pa­role emerge però con chia­rezza l’intenzione di fondo: con­si­de­rare l’epistolario Man­zoni come un grande de­po­sito, dal quale estrarre le pietre/parole con cui la­stri­care, at­tra­verso il can­tiere let­te­ra­rio, una strada lunga ben 145 anni della no­stra vita nazionale.

L’idea di Ginz­burg non è par­ti­co­lar­mente ori­gi­nale.
Pro­prio nell’ambito della ri­cerca man­zo­niana, cin­quanta anni prima di lei, lo scrit­tore e sag­gi­sta Ezio Flori aveva pub­bli­cato (Hoe­pli, 1930) il vo­lume “Ales­san­dro Man­zoni e Te­resa Stampa”.
In ol­tre 600 pa­gine Flori ri­por­tava nu­me­ro­sis­simi brani del vo­lu­mi­noso epi­sto­la­rio ine­dito di Te­resa Stampa (ol­tre 1.100 let­tere) uti­liz­zan­dole (as­sieme a let­tere di Man­zoni, delle fi­glie di que­sti, di D’Azeglio, ecc.) per de­li­neare la sto­ria del rap­porto tra Ales­san­dro e Te­resa, la sua se­conda mo­glie, e più in ge­ne­rale per evi­den­ziare i mo­menti sa­lienti della vita di Man­zoni in quella sta­gione. È una ben de­fi­nita rac­colta di ele­menti epi­sto­lari, stret­ta­mente in­trec­ciata con nu­me­ro­sis­simi e ben ar­ti­co­lati ri­fe­ri­menti storici.

Lo schema se­guito da Ginz­burg (che uti­lizza fre­quen­te­mente il la­voro di Flori, pur ci­tan­dolo solo nella ru­brica “Li­bri e ar­ti­coli con­sul­tati” e senza al­cuna par­ti­co­lare evi­den­zia­zione) è esat­ta­mente lo stesso. Ma, ri­spetto al la­voro di Flori, l’opera di Ginz­burg pre­senta dif­fe­renze non secondarie.

Salvo un breve cenno alla bio­gra­fia di Te­resa pre-Man­zoni, Flori li­mita il suo la­voro al pe­riodo che va dal ma­tri­mo­nio Man­zoni-Stampa (1837) alla morte di Te­resa (1861); ha una cura scru­po­losa nel con­no­tare cro­no­lo­gi­ca­mente le sue ci­ta­zioni, con­sen­tendo al let­tore di se­guire con fa­ci­lità l’andamento del rac­conto; ha in­fine come obiet­tivo la va­lo­riz­za­zione del Man­zoni ar­ti­sta e uomo, pur ca­dendo spesso in un’ossequio un po’ di ma­niera e in una evi­dente mi­ni­miz­za­zione de­gli aspetti psi­co­lo­gico-com­por­ta­men­tali più cri­tici del no­stro poeta.

Ginz­burg ha in­vece scelto di non da­tare i brani ci­tati dalle let­tere. Le ci­ta­zioni se­guono (quasi sem­pre) una suc­ces­sione cro­no­lo­gica. Al let­tore però non ven­gono dati gli stru­menti per ve­ri­fi­carne la scan­sione. Il let­tore per­ce­pi­sce che, pa­ra­grafo dopo pa­ra­grafo, stanno pas­sando gli anni. Ma non è quasi mai in grado di ca­pire in quale anno si trovi, leg­gendo una de­ter­mi­nata ci­ta­zione, no­no­stante sia tratta da una let­tera di cui è ben nota la data.

È chiaro che non si tratta di un “er­rore” della scrit­trice ma di una sua pre­cisa scelta sti­li­stica. Ci sem­bra che Ginz­burg ab­bia vo­luto in­durre il let­tore ad ab­bas­sare le bar­riere della cri­tica ra­zio­nale e ad as­su­mere un at­teg­gia­mento esclu­si­va­mente emotivo.

Sen­tiamo quanto essa stessa dice in pro­po­sito (Mi­lano, con­fe­renza di pre­sen­ta­zione del li­bro, 16 aprile 1983 — “Il Gior­nale”, 17/04/1983): «È nei det­ta­gli che si trova rac­chiusa la vita se­greta delle cose. Vi si può leg­gere il de­stino umano esat­ta­mente come nei grandi av­ve­ni­menti».
Ecco, qui è pro­prio Ginz­burg a espri­mere con ef­fi­cace sin­tesi la de­bo­lezza strut­tu­rale del pro­prio progetto.

Di­ciamo noi: cosa sono i “det­ta­gli”? Tutto è “det­ta­glio” e nulla lo è. Po­sta in que­sti ter­mini l’espressione è senza senso.
Il pro­blema del rap­pre­sen­tare l’esperienza umana è esat­ta­mente il sa­pere or­ga­niz­zare ed evi­den­ziare “al­cuni” de­gli in­fi­niti “det­ta­gli” che la vita ci pre­senta, per giun­gere a quel “vero” che, pur nella sua ine­vi­ta­bile re­la­ti­vità, do­vrebbe co­sti­tuire l’obiettivo di ogni ri­fles­sione sul passato.

E in­fatti Ginz­burg ha evi­den­ziato al­cuni “det­ta­gli” ma ne ha do­vuto na­scon­dere mol­tis­simi al­tri, a no­stro av­viso fon­da­men­tali per­ché non si an­ni­chi­li­sca, die­tro un “les­sico fa­mi­gliare” an­co­rato a uno spe­ci­fico tipo di “det­ta­gli”, l’esperienza va­sta della grande fa­mi­glia umana.

Di­cia­molo chia­ra­mente: l’intero li­bro di Ginz­burg è una ne­ga­zione si­ste­ma­tica e con­sa­pe­vole della sto­ria, quindi an­che della sto­ria di tutti noi. Sotto que­sto pro­filo, al di là della fi­sio­no­mia per­so­nale dell’autrice, colta e sen­si­bile alle pro­ble­ma­ti­che so­ciali, il suo li­bro non è par­ti­co­lar­mente istrut­tivo.
E al­lora per­ché oc­cu­par­sene?
Per­ché pur­troppo esso è di­ven­tato come l’archetipo di un ap­proc­cio ai temi man­zo­niani che si va im­po­nendo, e che ha in sé una pre­oc­cu­pante su­per­fi­cia­lità e l’indifferenza per la realtà sto­rica — per la me­mo­ria, cioè, che la col­let­ti­vità ha di se stessa.

Per ren­dere quanto meno de­gne di at­ten­zione que­ste no­stre af­fer­ma­zioni, certo lon­tane dalle lodi che molti com­men­ta­tori hanno ri­volto al li­bro (e ri­vol­gono tut­tora), chie­diamo al let­tore di se­guirci in un ra­gio­na­mento, che prende le mosse da una se­rie di “mi­sure” del can­tiere Ginzburg.

Un deposito di 2.180 lettere.

In­nan­zi­tutto una ri­co­gni­zione sulla quan­tità delle let­tere dell’ “epi­sto­la­rio man­zo­niano”, quale do­veva es­sere nel 1982, quando Ginz­burg li­cen­ziò il suo li­bro.
Ri­cor­dando che al­cune delle ci­fre espo­ste non sono pre­ci­sis­sime (ma even­tuali lievi di­scre­panze non mo­di­fi­cano il senso del no­stro ra­gio­na­mento), que­sto il qua­dro ge­ne­rale: let­tere di Ales­san­dro (circa 1.800); di sua ma­dre Giu­lia (circa 130); della prima mo­glie En­ri­chetta (circa 100); della se­conda mo­glie Te­resa (circa 100); di fi­gli, zii, cu­gini, ecc. (circa 50). Si tratta di circa 2.180 let­tere.
Fatta una me­dia di 650 pa­role a let­tera, il de­po­sito di­spo­ni­bile per il “can­tiere” Ginz­burg, era com­po­sto quindi da circa 1.417.000 parole/pietre.

La do­manda che sorge spon­ta­nea è: quante “pie­tre” di que­sto de­po­sito sono state uti­liz­zate da Ginz­burg, per co­struire la sua lunga strada?

Per ab­boz­zare una ri­spo­sta, ab­biamo ana­liz­zato i primi due ca­pi­toli del li­bro, quelli in­ti­to­lati a Giu­lia Bec­ca­ria e a En­ri­chetta Blon­del (da pag. 7 a pag. 71), che com­pren­dono gli anni dal 1762 (na­scita di Giu­lia) al 1822 (pub­bli­ca­zione della tra­ge­dia “Adel­chi”).
In que­sti due primi ca­pi­toli, le let­tere re­la­tive a que­sto pe­riodo sono così di­stri­buite: Ales­san­dro (176); Giu­lia (86); En­ri­chetta (53); per un to­tale di 315 let­tere (ab­biamo la­sciato da parte le po­che di De­gola, Tosi, Tom­ma­seo, ecc.)
As­se­gnando una me­dia di 650 pa­role a let­tera, per que­sti due ca­pi­toli ab­biamo un to­tale di 204.750 pa­role, così ri­par­tite: Ales­san­dro (114.400 pa­role), Giu­lia (55.900), En­ri­chetta (34.450). Que­ste le “pie­tre” che erano a ma­gaz­zino, di­spo­ni­bili per Ginzburg.

Di que­ste “pie­tre” a sua di­spo­si­zione, quante ne ha usate la scrit­trice per i sessant’anni presi in esame (1762-1822)? Le ab­biamo con­tate: ha fatto ri­fe­ri­mento a 68 let­tere, con­te­nenti (at­ten­zione, par­liamo sem­pre di “me­dia”) 44.200 pa­role. E di que­ste ne ha usate 8.000.
Ginz­burg ha quindi usato il 18% del con­te­nuto delle let­tere cui ha fatto ri­fe­ri­mento. Ma sic­come le let­tere a sua di­spo­si­zione per quel pe­riodo erano 315, la per­cen­tuale delle pa­role uti­liz­zate da Ginz­burg dall’ “epi­sto­la­rio man­zo­niano” per gli anni 1762-1822 (pari, lo ri­pe­tiamo a 204.750 pa­role), è del 3,9%. Os­sia, Ginz­burg ha usato 4 pa­role su 100 dell’epistolario man­zo­niano da cui po­teva at­tin­gere.
Il che si­gni­fica che Ginz­burg ha fatto sì ri­fe­ri­mento all’epistolario man­zo­niano ma sot­to­po­nen­dolo a una cer­nita molto, molto se­let­tiva.

E nel li­bro di Ginz­burg, quanto spa­zio oc­cu­pano le ci­ta­zioni dalle let­tere, ri­ca­vate da que­sta cer­nita molto se­let­tiva? An­che qui ab­biamo preso al­cune misure.

Ginz­burg, nelle 64 pa­gine di cui si com­pon­gono i due primi ca­pi­toli in esame, ha uti­liz­zato com­ples­si­va­mente 21.677 pa­role. Di que­ste, quelle re­la­tive alle ci­ta­zioni delle let­tere sono 8.000, os­sia il 37% del to­tale. Ciò a dire che Ginz­burg ha de­di­cato il 63% del suo te­sto a espri­mere suoi pro­pri com­menti e ri­fles­sioni sulle pa­role ri­prese dall’epistolario man­zo­niano.
Il che è cosa as­so­lu­ta­mente nor­male per qual­siasi te­sto di ana­lisi e di com­mento. Ma è ben di­versa da quanto Ginz­burg ci aveva as­si­cu­rato nel “Ri­svolto”, pag. 411: «I miei com­menti … sono quanto mai rari e brevi».

Qui naturalmente nasce IL problema.

Il let­tore (che si è forse un po’ sec­cato del no­stro ri­corso alla cal­co­la­trice) ci dirà: «Non si fa la cri­tica let­te­ra­ria con le per­cen­tuali! Cari amici del Cen­tro Studi, la que­stione sta in ben al­tri ter­mini: è fon­da­men­tale sa­pere ap­prez­zare la “qua­lità” delle ci­ta­zioni, non la loro “quan­tità”.»
Il let­tore ha per­fet­ta­mente ra­gione. Ed è esat­ta­mente que­sto il punto che vo­le­vamo sollevare.

Qual è la qua­lità delle ci­ta­zioni di Ginz­burg? Os­sia, con quali cri­teri Ginz­burg ha in­di­vi­duato come si­gni­fi­ca­tive solo 68 let­tere su 315? E se­condo quali cri­teri delle 44.200 pa­role con­te­nute in que­ste 68 let­tere, ha ri­te­nuto op­por­tuno ci­tarne solo 8.000 (il 18%)?

È fa­cile ri­spon­dere.
Come tutti gli scrit­tori che si oc­cu­pano di sto­ria (e la vi­cenda man­zo­niana è parte forte della sto­ria, qua­lun­que so­fi­sma ca­te­go­riale si vo­glia uti­liz­zare), dall’infinita massa di “fatti” a di­spo­si­zione, Ginz­burg ha com­piuto una cer­nita. Fun­zio­nale non a co­struire della vi­cenda della fa­mi­glia Man­zoni uno svol­gi­mento il più pos­si­bile vi­cino alla “ve­rità” ma a for­nire ele­menti a sup­porto di una sua pro­pria vi­sione della sto­ria (e della fa­mi­glia Man­zoni).
Non a “far par­lare i fatti”, come ci ha detto nel “Ri­svolto” (pag. 411), ma a par­larne essa stessa, uti­liz­zando “certi” fatti e can­cel­lan­done al­tri.

Osservazioni di metodo di professori e commentatori.

Que­sta evi­dente de­bo­lezza strut­tu­rale dell’approccio di Ginz­burg era già stata evi­den­ziata in modo cri­tico nel 1983, all’uscita della prima edizione.

Nella cro­naca della con­fe­renza di pre­sen­ta­zione, te­nuta da Ginz­burg il 16 aprile 1983, la gior­na­li­sta Ti­ziana Abate aveva ri­por­tato una di­chia­ra­zione di Luigi Banfi, do­cente di Let­te­ra­tura ita­liana alla Sta­tale di Mi­lano, se­condo cui Ginz­burg: «dice di aver la­vo­rato so­pra delle te­sti­mo­nianze reali. Ma quali? E scelte al po­sto di quali al­tre? Senza con­tare che, come lei stessa ha af­fer­mato, sono state al­quanto rimaneggiate.»

Con­ti­nuava la gior­na­li­sta: «Sì, pa­rec­chie delle let­tere sono state ri­scritte — ha con­fes­sato Na­ta­lia Ginz­burg … Ma si è trat­tato più che al­tro di una “so­pra­scrit­tura”: at­mo­sfere e stati d’animo ne sono sca­tu­riti me­glio.» (“Il Gior­nale”, 17/04/1983 — a lato l’articolo — clic­cando so­pra si ingrandisce).

Ginz­burg non aveva ap­prez­zato l’articolo e aveva chie­sto a Mon­ta­nelli (di­ret­tore de “Il Gior­nale” di pub­bli­care la sua ri­spo­sta, che qui sotto ci­tiamo per in­tero (ne sal­tiamo solo le ri­ghe ini­ziali, me­ra­mente introduttive):

Clic­care so­pra per ingrandire:

• Il Gior­nale, 29 aprile 1983 (ru­brica “La pa­rola ai let­tori”, pag. 27)

• Il Gior­nale, 17 aprile 1983, pag. 16.

«La si­gnora Ti­ziana Abate af­ferma che io avrei “ri­scritto” o “ri­ma­neg­giato” le let­tere fa­mi­liari del Man­zoni, con­te­nute nel mio li­bro. Af­ferma la si­gnora Abate: “Sì, pa­rec­chie delle let­tere sono state ri­scritte – ha con­fes­sato Na­ta­lia Ginz­burg ecc. ecc. – ma si è trat­tato piu che al­tro di una so­pra­scrit­tura … ”».
La si­gnora Ti­ziana Abate ha ca­pito luc­ciole per lan­terne. lo non ho “con­fes­sato” niente non avendo niente da con­fes­sare. lo ho detto sem­pli­ce­mente che avevo ri­co­piato a mano le let­tere, per aver l’impressione di scri­verle io. Quando erano in fran­cese le ho tra­dotte. Ma le let­tere sono tutte au­ten­ti­che e io non ne ho toc­cato o so­sti­tuito una sil­laba. Né mai avrei osato farlo. Poi­ché pos­siedo le fo­to­co­pie de­gli ori­gi­nali, ne posso dare am­pia te­sti­mo­nianza. L’affermazione della si­gnora Ti­ziana Abate sna­tura com­ple­ta­mente il senso del mio la­voro. La prego dun­que di vo­ler pub­bli­care que­sta let­tera sul suo quotidiano.»

Mon­ta­nelli pub­blicò la let­tera di Ginz­burg il 29 aprile (vedi poco so­pra l’originale da in­gran­dire), sotto il ti­tolo de­ci­sa­mente schie­rato “Man­zoni «so­pra­scritto»”, as­sieme alla re­plica della gior­na­li­sta Abate, la quale ri­ba­diva quanto già pub­bli­cato, in modo ab­ba­stanza secco:

«Non ri­tengo di aver preso “luc­ciole per lan­terne” nel re­so­conto della pre­sen­ta­zione a cui fa ri­fe­ri­mento la si­gnora Ginz­burg. Solo un fi­lo­logo po­trebbe sta­bi­lire quale dei ter­mini “ri­scrit­tura, tra­scrit­tura, so­pra­scrit­tura” (quest’ultimo usato espres­sa­mente dalla si­gnora Ginz­burg) possa de­fi­nire la sua “ope­ra­zione letteraria”.»

In realtà, nella sua re­plica un po’ stiz­zita, Ginz­burg aveva eluso il pro­blema vero, sol­le­vato da Banfi e dalla gior­na­li­sta. Nes­suno aveva so­ste­nuto che, delle let­tere, lei avesse “so­sti­tuito an­che una sil­laba”.
Il com­mento cri­tico era ri­volto al fatto che estrarre da mi­gliaia di let­tere solo al­cune frasi e farne un “col­lage”, te­nuto in­sieme dalla pro­pria scrit­tura, può pre­starsi a mille ma­ni­po­la­zioni di fatto, pur ri­ma­nendo nel qua­dro di un ri­spetto for­male del te­sto. Cosa che è av­ve­nuta mi­gliaia di volte, e av­viene tut­tora, con in­tenti meno di­gni­tosi di quelli ar­ti­stici per­se­guiti dalla scrittrice.

D’altro lato an­che un com­men­ta­tore pa­cato — ma molto ad­den­tro alle te­ma­ti­che man­zo­niane — come don Um­berto Co­lombo (“La Pro­vin­cia di Cre­mona”, 16 no­vem­bre 1983 – l’originale può es­sere in­gran­dito) commentava:

«I giorni e le opere del Man­zoni of­frono la ten­ta­zione d’accostarsi a quelle “re­gioni”, molto in­ti­ma­mente sof­ferte e sem­pre me­di­tate, per sve­lare agli al­tri ciò che si crede d’avere “in­ven­tato” — per usare un ter­mine pre­ciso, caro al Man­zoni — o ri­sen­tito in sé. Ten­ta­zione da non re­spin­gere se si ha una pa­rola vera da do­cu­men­tare. Ma se si ag­giun­gono le estra­neità o, peg­gio, se si tra­la­sciano di pro­po­sito sag­gezze e ric­chezze, si in­vita al frain­ten­di­mento, con­fi­nante con l’errore. A volte, s’affaccia una se­conda ten­ta­zione ne­ga­tiva: per sfug­gire la la­bo­rio­sità dell’esplorazione della per­sona, si ri­corre a clas­si­fi­ca­zioni fa­cili ed esterne. Con chia­rezza: Na­ta­lia Ginz­burg in “La fa­mi­glia Man­zoni” ha ce­duto alle due ne­ga­tive ten­ta­zioni.
Pur­troppo molti in­cauti re­cen­sori non si sono ac­corti e hanno ap­plau­dito: “Lo stu­dio è am­mi­re­vole per la cura ri­go­rosa dell’indagine e la do­vi­zia della do­cu­men­ta­zione”; “Per­sone ed eventi ven­gono de­scritti nella loro in­te­rezza, senza che nulla della loro quo­ti­diana vi­cenda sia tra­scu­rata”; la Ginz­burg ha in­ter­ro­gato i do­cu­menti “senza opi­nioni pre­con­cette”. Ec­ce­tera. Si ca­pi­sce: o non si co­no­sce l’epistolario man­zo­niano o ci si ag­giu­sta se­condo la moda. Del che — spero — non può es­sere con­tenta la stessa Ginzburg.»

E lo stu­dioso con­clu­deva (non ci­tando le sue pro­prie mol­tis­sime opere sul Manzoni):

«Se, in­fine, si legge l’elenco dei “Li­bri e ar­ti­coli con­sul­tati”, su­bito si av­verte la va­sta di­men­ti­canza di molti al­tri che hanno cer­cato di in­ten­dere i se­greti della fa­mi­glia Man­zoni: An­ge­lini, Ulivi, Bo­gnetti, To­nelli, Ab­biati, Por­tier, Pie­mon­tese, Chiari, Pe­troc­chi, Ra­dius, Apol­lo­nio… E re­sta la do­manda: va­leva la pena di rac­co­gliere, mu­ti­lando, una lunga se­rie di let­tere (la parte più va­lida del li­bro, co­mun­que, no­no­stante le no­te­voli as­senze), per pre­sen­tare, ideo­lo­gi­ca­mente già pre­co­sti­tuito, uno spac­cato di fa­mi­glia con la pre­tesa “di ri­co­struire e di ri­com­porre per di­steso la sto­ria della fa­mi­glia Manzoni”?»

I “fatti” come li racconta Ginzburg.

Pag. 12: «Ma nel no­vem­bre del 1794, Ce­sare Bec­ca­ria morì all’improvviso … Anna Barbò, sua ve­dova, de­cise di trat­tare un ac­cordo con la fi­glia­stra; e Giu­lia venne ad avere molto di ciò che chie­deva. Partì con Carlo Im­bo­nati, per Pa­rigi, nell’autunno del 1796. Nel mag­gio di quell’anno, erano en­trati i fran­cesi a Mi­lano, al co­mando di Na­po­leone … Giu­lia, a Pa­rigi, vi­veva fe­lice. Aveva fi­nal­mente tutto quello che le era fin al­lora man­cato. Era li­bera. Vi­veva con un uomo che amava e che l’amava, in una grande città dove il fatto che essi non fos­sero uniti in ma­tri­mo­nio non creava pro­blemi. Vi­veva con un uomo d’animo no­bile e di na­tura ge­ne­rosa. Vi­veva con un uomo bello — Carlo Im­bo­nati era bello —, ricco, am­mi­rato e sti­mato da tutti. Abi­ta­vano in una bella casa, in un bel quar­tiere, in place Ven­dôme. Ave­vano molti amici. Il suo pro­prio co­gnome, Bec­ca­ria, d’improvviso le piac­que es­sendo noto a tutti nei cir­coli cul­tu­rali e mon­dani. Era ac­colta ovun­que cor­dial­mente e fe­sto­sa­mente. Ognuno ri­cor­dava la fi­gura di suo pa­dre, e il fa­moso li­bro “Dei de­litti e delle pene”.»

Ab­biamo ri­preso in­te­gral­mente le pa­role con cui Ginz­burg pre­senta al let­tore que­sto epi­so­dio della saga dei Man­zoni (im­por­tante per i fu­turi ri­svolti pa­tri­mo­niali). Il let­tore — cre­diamo qua­lun­que let­tore — ne ri­cava di Giu­lia un’impressione di leg­ge­rezza un po’ va­cua, di di­stacco ir­re­spon­sa­bile dalla vita quo­ti­diana, di stra­nia­mento tem­po­rale e spa­ziale (ri­leg­gete le pa­role di Ginz­burg). Quella Giu­lia, che sap­piamo avere, a tren­ta­quat­tro anni, un’esperienza sen­ti­men­tale e di vita ben strut­tu­rata, ap­pare dalle pa­role di Ginz­burg come un’adolescente un po’ in­ge­nua, persa in un so­gno rosa, in un paese incantato.

Ma il let­tore da que­ste pa­role ha ri­ca­vato qual­che cosa di “utile”? Ha quanto meno im­pa­rato a co­no­scere un po’ me­glio Giu­lia, la donna che tanta in­fluenza ebbe sulla vita di Ales­san­dro? Pen­siamo di no! Ed era que­sto l’unico modo di pre­sen­tare quel mo­mento della vita della fa­mi­glia Man­zoni? An­che qui pen­siamo di no, e pro­viamo a con­di­vi­dere con il let­tore il no­stro pensiero.

Su Giulia Beccaria e Carlo Imbonati a Parigi, altri “fatti” — ma ignorati da Natalia Ginzburg.

Poco prima di par­tire per Pa­rigi, Im­bo­nati ven­dette la pro­prietà della Ca­val­la­sca (San Fermo della Bat­ta­glia, Como) per 150.000 lire (circa 15 mi­lioni di euro at­tuali). Forti di que­sta somma (ol­tre alle di­spo­ni­bi­lità di Giu­lia – 65.000 Euro al mese, 780.000 all’anno — prov­ve­dute da Don Pie­tro, a se­guito della se­pa­ra­zione del 1792), ap­pena giunti a Pa­rigi nell’autunno del 1796, in Piazza Ven­dôme, la cop­pia diede vita a un “sa­lotto”, che molto ra­pi­da­mente as­sunse una co­lo­ri­tura che non pos­siamo che de­fi­nire “po­li­tica”.

Tra la se­conda metà del 1796 e la prima del 1797, si de­fi­ni­sce la fi­sio­no­mia della nuova Re­pub­blica Ci­sal­pina, creata dal ge­ne­rale Bo­na­parte per il mi­glior an­da­mento della lotta della Re­pub­blica Fran­cese con­tro una parte con­si­stente dell’Europa.
Emer­gono su­bito i con­tra­sti tra il go­verno fran­cese e la neo-Re­pub­blica ita­liana, per il ca­rico delle con­tri­bu­zioni for­zose e il pre­do­mi­nio to­tale della Fran­cia in ogni scelta importante.

Ri­tratto di Giu­lia Bec­ca­ria, ese­guito a Pa­rigi verso il 1796 da Ma­ria Co­svay, un’artista spe­cia­liz­zata in “por­traits char­man­tes”. Si noti la dif­fe­renza dell’espressione ri­spetto a quanto ci mo­stra il qua­dro di un paio di anni prima (da pres­so­ché tutti er­ro­nea­mente at­tri­buito ad An­drea Ap­piani), che così de­scrive la stessa Ginz­burg: «Ha una fac­cia dura, os­suta e stanca. Guarda nel vuoto.»

Pa­rigi im­pone a Mi­lano un trat­tato po­li­tico-com­mer­ciale molto pe­sante per i ci­sal­pini, che cer­cano di re­si­stere.
So­prat­tutto i Se­niori (l’assemblea di per­so­na­lità del ceto me­dio-alto mo­de­rato lom­bardo, come Pie­tro Verri e Giu­seppe Pa­rini, il vec­chio isti­tu­tore di Im­bo­nati) si op­pon­gono. Tal­ley­rand, Mi­ni­stro de­gli Af­fari Esteri di Fran­cia, li mi­nac­cia di “de­por­ta­zione in Africa se si fos­sero op­po­sti alle di­ret­tive di Parigi”.

Mel­chiorre Gioia così de­fi­niva il reale con­te­nuto del trat­tato: «pas­serò sotto si­len­zio il tri­buto an­nuo di 18 mi­lioni di fran­chi [era l’equivalente di quanto l’Austria im­po­neva ai suoi do­mini lom­bardi] ma l’illimitata li­bertà di com­mer­cio tra la Fran­cia e la Rep. Ci­sal­pina, ri­chie­sta nel trat­tato … po­trebbe in breve as­sor­bire le più ne­ces­sa­rie der­rate della Ci­sal­pina, e dare un tale crollo alle di lei ma­ni­fat­ture da ri­durre istan­ta­nea­mente mi­gliaia di mani all’inazione»;
e con­ti­nuava: «che un’armata Fran­cese re­sti nella Ci­sal­pina col pre­te­sto di pro­teg­gerla; che tutte le di lei forze siano co­man­date da Ge­ne­rali spe­diti dalla Fran­cia; che que­sta es­sendo in guerra, in guerra pa­ri­menti sia la Ci­sal­pina, senza che la Fran­cia s’obblighi ad egual con­di­zione … que­sto è pro­pria­mente il trat­tato del lupo coll’agnello.»
A Ma­re­scal­chi scri­veva Melzi d’Eril su que­sto con­tra­sto: «Da Mi­lano …. calma si­mile a quella della tomba; più i “ri­mossi” che i “pro­mossi” con­tenti; somma l’angustia pe­cu­nia­ria; nes­suna l’attività dei com­pensi; im­pos­si­bile la du­rata si­mul­ta­nea di un po­tere mi­li­tare il­li­mi­tato nei bi­so­gni come nelle vo­glie, e di un po­tere ci­vile, per pa­ra­lisi con­fer­mata, a ca­rico solo e gra­vis­simo, non a di­fesa e protezione.»

Per mesi i rap­pre­sen­tanti ci­spa­dani fanno la spola tra Mi­lano e Pa­rigi, ma alla fine, l’8 giu­gno 1798, de­vono fir­mare il trat­tato.
Nelle fre­quenti per­ma­nenze a Pa­rigi dei rap­pre­sen­tanti ci­spa­dani, l’abitazione di Im­bo­nati-Bec­ca­ria di­venta un punto di ri­fe­ri­mento (ve ne sono am­pie te­sti­mo­nianze). Di­ven­tano fre­quen­ta­tori del “sa­lotto” di M.me Bec­ca­ria po­li­tici e fun­zio­nari in mis­sione non­ché il per­so­nale di stanza a Pa­rigi, in rap­pre­sen­tanza della nuova Re­pub­blica Ci­sal­pina: Ma­re­scal­chi e Melzi d’Eril, per ci­tare solo due per­so­na­lità che, ne­gli anni im­me­dia­ta­mente suc­ces­sivi, avranno un ruolo im­por­tante nella vita di Giu­lia e del fi­glio (e non par­liamo dell’ospitalità di re­la­zione — e an­che di pura sus­si­stenza — che la cop­pia Giu­lia-Im­bo­nati ac­cor­da­rono nel 1799 agli im­mi­grati ita­liani, fug­giti da Mi­lano per il breve rien­tro de­gli au­striaci, tra cui C. A. Bossi, C. Botta, G. B. So­mis, G. Com­pa­gnoni, V. Monti, ecc. ecc.).

Se­condo voi, di che di­scu­te­vano i no­stri ci­sal­pini quando si tro­va­vano nel “sa­lotto” di M.me Bec­ca­ria? Era di certo un luogo gra­de­vole (Im­bo­nati era un ospite non me­schino) ma an­che un am­biente adat­tis­simo per scam­biarsi senza ti­mori idee, do­cu­menti, co­no­scenze. Dove in­con­trare, in modo di­screto, rap­pre­sen­tanti po­li­tici fran­cesi, non ne­ces­sa­ria­mente del go­verno in ca­rica.
Pen­sate che lì chiac­chie­ras­sero solo di pas­seg­giate sui boul­vard? dell’ultima can­tante alla moda? del com­me­dio­grafo di suc­cesso? O so­prat­tutto di come te­nere la barra di­ritta tra le ten­denze ra­di­cali in agi­ta­zione in pa­tria e l’aggressività ra­pace della Fran­cia vit­to­riosa? Chiun­que può darsi la ri­spo­sta giusta.

È del tutto na­tu­rale che la cop­pia Bec­ca­ria-Im­bo­nati si tro­vasse fin dai primi mesi a es­sere un ir­ri­nun­cia­bile punto di ri­fe­ri­mento de­gli ita­liani a Pa­rigi, per tutte le pro­ble­ma­ti­che po­li­ti­che, so­prat­tutto per quelle che ri­chie­de­vano per­corsi non uf­fi­ciali e fil­trati dai rap­porti personali.

Giu­lia e Im­bo­nati vi­ve­vano loro mal­grado que­sta si­tua­zione?
Pen­siamo pro­prio di no e ri­te­niamo anzi che i due com­pa­gni di vita non si tro­vas­sero a di­sa­gio nello svol­gere que­sto ruolo. Che, al con­tra­rio, ne aves­sero po­sto le basi fin dall’inizio. Ve­diamo perché.

Pierre-Louis Roe­de­rer (1754-1835), nei primi mo­menti di af­fer­ma­zione di Bo­na­parte in Ita­lia (più o meno nei pe­riodo di cui qui trat­tiamo) svi­luppò una in­tensa cam­pa­gna con­tro le ru­be­rie del ge­ne­rale e del suo gruppo di­ri­gente, in sin­to­nia con gli ita­liani che cer­ca­vano di re­si­stere (con scarso suc­cesso) alla spo­glia­zione fran­cese. Poco dopo, ele­mento di punta de­gli ideo­logi, fu at­tivo nel colpo di Stato del bru­maio 1798 che aprì la strada al Con­so­lato e poi all’Impero di Na­po­leone. A dif­fe­renza del gruppo de­gli ideo­logi fre­quen­tato anni dopo da Man­zoni, Roe­de­rer si legò mani e piedi a Na­po­leone, ser­ven­dolo fino alla sua ca­duta (fu an­che Mi­ni­stro dgli Esteri presso il Re­gno di Na­poli, te­nuto da Giu­seppe Bonaparte).

Beccaria: un nome di bandiera.

In coin­ci­denza con il loro ar­rivo, con un’operazione di co­mu­ni­ca­zione molto ef­fi­cace, si sta­bi­li­rono rap­porti di­retti tra le ten­denze mo­de­rate della po­li­tica fran­cese e le ana­lo­ghe della po­li­tica ita­liana, rap­pre­sen­tate dai Verri, dai Pa­rini, dai Ma­re­scal­chi, dai Melzi d’Eril.
Va da sé che fa­ceva da col­lante la me­de­sima esi­genza di mo­de­rare la cre­scente af­fer­ma­zione dei gruppi mi­li­tari fran­cesi. Que­sti, at­tra­verso i molti anni di guerre a li­vello eu­ro­peo, sta­vano af­fer­man­dosi come i pa­droni as­so­luti della po­li­tica, met­tendo in scacco i po­li­tici tra­di­zio­nali, che ave­vano av­viato la ri­vo­lu­zione e ri­schia­vano ora di pie­gare il gi­noc­chio o di cor­rere seri pericoli.

Tra que­sti ul­timi vi era Pierre-Louis Roe­de­rer, già se­gre­ta­rio (1790) dell’Assemblea Co­sti­tuente e po­li­tico in­fluente (il 10 ago­sto 1792 men­tre la folla in piazza chie­deva la morte di Luigi XVI, Roe­de­rer gli di­ceva con­ci­tato: «Vo­stra Mae­stà non ha cin­que mi­nuti da per­dere; l’unica si­cu­rezza è l’Assemblea Na­zio­nale» (il Re gli ri­spose «E al­lora muo­via­moci in fretta»). Roe­de­rer sarà ne­gli anni suc­ces­sivi un fe­dele di Na­po­leone (nel 1802 con Tayl­le­rand sten­derà la Co­sti­tu­zione della Re­pub­blica Ita­liana e sarà poi Mi­ni­stro delle Fi­nanze del Re­gno di Na­poli, con Giu­seppe Bonaparte).

Ma nel 1796 è molto vi­cino al gruppo de­gli “ideo­logi” (Ca­ba­nis, De Tracy, So­phie de Con­dor­cet, ecc., gli stessi che nel 1805, quando vi fa­ceva parte an­che Fau­riel, Ales­san­dro Maz­noni fre­quen­terà as­si­dua­mente). Ed è de­ci­sa­mente ostile al gio­vane ge­ne­rale Bonaparte.

Il 25 lu­glio 1796, sul suo “Jour­nal de Pa­ris”, Roe­de­rer chiede un «con­trollo più stretto sulla ri­scos­sione e im­piego dei con­tri­buti im­po­sti nei paesi oc­cu­pati» af­ferma che «Bo­na­parte la­vora solo per se stesso e non per la Re­pub­blica» che «non rende conto dei con­tri­buti im­po­sti all’Italia» e che «si oc­cupa solo di cir­con­darsi di con­ni­venti e di ar­ric­chirsi».
Quando Im­bo­nati e Giu­lia ar­ri­vano a Pa­rigi, di­ven­tano im­me­dia­ta­mente og­getto delle sue attenzioni.

Ai primi del 1797, la ti­po­gra­fia di pro­prietà di Roe­de­rer pub­blica una nuova edi­zione in fran­cese dell’opera di Ce­sare Bec­ca­ria “Dei de­litti e delle pene”, se­condo la tra­du­zione fat­tane nel 1766 da Mor­re­let e ar­ric­chita da un ine­dito di Je­remy Ben­tham (su que­sto ine­dito di­remo di più in al­tra occasione).

Roe­de­rer si muove sulla stessa lun­ghezza d’onda di Pie­tro Verri. Que­sti, nel di­cem­bre 1796, come mem­bro dei Se­niori di Mi­lano, aveva lan­ciato un ap­pello per­ché si in­nal­zasse un grande mo­nu­mento a Bec­ca­ria (morto nel 1794): «Dov’e il se­pol­cro dell’immortal Bec­ca­ria? Qual mo­nu­mento di ri­co­no­scenza avete eretto, o mi­la­nesi, a quel su­blime ge­nio che fra le te­ne­bre co­muni osò il primo slan­ciarsi e in­di­care il gran pro­blema della scienza so­ciale, la mas­sima fe­li­cità di­visa sul mag­gior numero?»

Il 20 mag­gio 1797, sul “Jour­nal de Pa­ris”, esce una cro­naca bene evi­den­ziata: «una donna, già no­te­vole per la sua bel­lezza, ha at­ti­rato su di sé tutti gli sguardi per la viva pas­sione con cui ha pro­po­sto un brin­disi al li­be­ra­tore dei Mi­la­nesi, all’invincibile Bo­na­parte … Si è su­bito sa­puto che essa è la fi­glia di un ce­le­bre fi­lo­sofo, un uomo di ge­nio e un amico dell’umanità, di Bec­ca­ria, e che essa è de­gna di es­serlo per l’amore che porta alla li­bertà. Tutti gli sguardi si sono ri­volti a essa; da ogni parte le sono stati of­ferti mazzi di fiori. Ella ha ri­ce­vuto que­sti do­ve­rosi omaggi con una mo­de­stia e una gra­zia che l’hanno resa an­cora più bella.»
Come si vede, per la Bec­ca­ria (e Im­bo­nati) un vera di­chia­ra­zione d’amore po­li­tico. Ri­pe­tuta po­chi giorni dopo.

Il 28 mag­gio, Roe­de­rer in­via a Giu­lia Bec­ca­ria una co­pia del li­bro di Ce­sare, fre­sco di stampa, con una let­tera di accompagnamento:

«Sono lieto, si­gnora, di of­frirvi una nuova edi­zione dell’opera “Dei de­litti e delle pene“, del vo­stro il­lu­stre pa­dre … poi­ché voi amate la li­bertà e la fi­lo­so­fia, vi ve­drete an­che ciò che egli ha fatto per in­tro­durre trent’anni fa a Mi­lano, l’amore della li­bertà e della fi­lo­so­fia … Voi po­tete con­sta­tare, si­gnora, che molto tempo prima dell’unione della Re­pub­blica lom­barda alla no­stra, voi ave­vate già ac­qui­sito dei di­ritti in Fran­cia. Oso dirvi, a nome di tutti gli amici del ta­lento, della fi­lo­so­fia e dell’umanità, che voi ap­par­te­nete at­tra­verso vo­stro pa­dre alla grande fa­mi­glia che gli amici della fi­lo­so­fia e della li­bertà hanno for­mato a Pa­rigi cinquant’anni fa, e che ora vanno rin­ser­rando più che mai i le­gami che li hanno uniti.»

Roe­de­rer certo non par­lava per pe­ri­frasi e an­dava dritto al cen­tro del pro­blema. Ma le di­chia­ra­zioni di sim­pa­tia po­li­tica verso la cop­pia mi­la­nese continuano.

Il 29 mag­gio, Roe­de­rer pub­blica sul “Jour­nal de Pa­ris” una lunga pre­sen­ta­zione del li­bro di Bec­ca­ria, con la quale ri­ba­di­sce la sin­to­nia po­li­tica con i li­be­ral-mo­de­rati della Cisalpina:

«Non è senza in­te­resse sot­to­li­neare che quanti sono an­cora at­tivi de­gli amici e col­la­bo­ra­tori di Bec­ca­ria — i Verri, i Lam­ber­ten­ghi, i Lon­ghi — oc­cu­pano oggi i primi po­sti della nuova re­pub­blica: ciò che fa bene au­gu­rare del suo de­stino, e spiega la tran­quil­lità di cui essa ha go­duto fin dai suoi primi mo­menti, i più dif­fi­cili che po­tesse vivere».

Più espli­citi di così, Roe­de­rer e com­pa­gni non po­te­vano es­sere. Di tutta evi­denza, ap­pare chiaro che Im­bo­nati e Giu­lia Bec­ca­ria non si sot­trae­vano certo a que­ste espli­cite di­chia­ra­zioni di unità d’intenti tra ten­denze vi­cine sul piano po­li­tico, in op­po­si­zione al Bo­na­parte, or­mai astro na­scente della po­li­tica fran­cese.
In ter­mini a noi più fa­mi­liari, pos­siamo ben dire che essi a Pa­rigi svol­ge­vano una vera e pro­pria at­ti­vità di lobby, a fa­vore de­gli in­te­ressi italiani.

Dei de­litti e delle Pene”, pub­bli­cato nel 1764, aveva su­sci­tato im­me­dia­ta­mente un grande in­te­resse tra gli in­tel­let­tuali fran­cesi che ne vi­dero però al­cune de­bo­lezze in ter­mini di co­mu­ni­ca­zione. Mo­rel­let fu quindi in­ca­ri­cato di farne una tra­du­zione in fran­cese adatta a una dif­fu­sione in­ter­na­zio­nale. No­no­stante la ver­sione di Mo­rel­let fosse molto di­versa dall’originale come strut­tura espo­si­tiva, Bec­ca­ria ac­cettò di buon grado l’intervento fran­cese che, si­cu­ra­mente, con­tri­buì a farne uno dei te­sti po­li­tico-giu­ri­dici più conosciuti.

Non pen­siamo certo che Giu­lia fosse in grado di avere in po­li­tica la pro­fon­dità di al­tre donne del suo tempo ma do­veva cer­ta­mente es­sere molto ef­fi­cace nel suo ruolo di in­trat­te­ni­trice e sa­peva si­cu­ra­mente oc­cu­pare la scena an­che con suc­cesso, dando via li­bera alla sua pas­sio­na­lità — co­mun­que sem­pre ben am­mi­ni­strata (ci sem­bra di ve­derla, al tea­tro, tra la folla dei po­li­tici e dei mi­li­tari, sfo­de­rare quel fa­scino, an­che spi­ri­toso, che sanno avere — quando ne hanno vo­glia — le donne della Mi­lano di ieri e di oggi).

E Im­bo­nati, in tutto ciò che ruolo giuo­cava, ol­tre a quello di pa­drone di casa, ricco, bello e di­stinto?
Stiamo la­vo­rando (ci aiu­tano amici di Pa­rigi) per tro­vare ele­menti di fatto, che va­dano a in­fran­gere la cappa di si­len­zio e di in­vi­si­bi­lità che pesa da più di due­cento anni su que­sta fi­gura, an­che gra­zie alla fu­ria epistolar/piroclastica di Ales­san­dro e di Giu­lia, che vol­lero can­cel­lare ogni trac­cia di quel loro pas­sato. La do­cu­men­ta­zione che lo ri­guarda — a parte il te­sta­mento con cui rese ricca Giu­lia Bec­ca­ria e i Man­zoni — è pra­ti­ca­mente nulla.

Per dare però un’idea della fi­sio­no­mia del di­sce­polo di Pa­rini nella ca­pi­tale fran­cese, pos­siamo ri­pren­dere un brano poco noto di Sten­d­hal, l’autore de “Il Rosso e il Nero”, de “La Cer­tosa di Parma”, ecc., uf­fi­ciale na­po­leo­nico, a lungo nell’amministrazione fran­cese, buon co­no­sci­tore dell’Italia (“Cor­re­spon­dance ine­dite” con In­tro­du­zione di Pro­sper Mé­ri­mée, Pa­ris, Mi­chel Lévy Frè­res Edi­teurs, 1855, vol. 2, p. 16, tra­du­zione no­stra): «lm­bo­nati era uno di quei geni po­tenti (meno rari, credo, in Ita­lia che in tutti gli al­tri Paesi d’Europa), ai quali la pru­denza, as­so­ciata all’assenza to­tale di va­nità, sug­ge­ri­sce il si­len­zio … È l’esistenza di uo­mini della forza di Im­bo­nati che, ai miei oc­chi, fa dell’Italia uno dei primi paesi del mondo. Sono gli uo­mini della forza di Im­bo­nati che, a Mi­lano, osa­rono re­si­stere a Na­po­leone nel pieno della sua po­tenza, e re­spin­gere una legge da lui pro­po­sta al corpo le­gi­sla­tivo del Re­gno d’Italia.»
Qui Sten­d­hal si ri­fe­ri­sce a un epi­so­dio del lu­glio 1805 (quindi im­me­dia­ta­mente dopo la morte di Im­bo­nati) e il brano in cui è in­se­rita la frase so­pra ri­por­tata è denso di er­rori pac­chiani (per es. Giu­lia viene detta “so­rella” di Ce­sare Bec­ca­ria) ma il senso del suo ap­prez­za­mento sulla fi­sio­no­mia reale del com­pa­gno di Giu­lia è ab­ba­stanza chiaro e pro­ba­bil­mente ri­flet­teva una opi­nione che non era solo dello scrit­tore francese.

Libertà letteraria e realtà storica.

Sul tra­sfe­ri­mento di Giu­lia e Im­bo­nati a Pa­rigi ab­biamo ap­pena espo­sto una se­rie di “fatti”, ri­ca­vati da “libri, che non si tro­vano dai li­brai”, che ap­par­ten­gono all’universo di “ciò che se ne sa” (sono le pa­role di Ginz­burg); ab­biamo an­che ci­tato una let­tera.
La stessa pro­ce­dura se­guita da Ginz­burg, quindi, ma con un al­tro ta­glio e al­tri obiet­tivi. Noi ab­biamo usato molto spa­zio, ma non siamo ro­man­zieri. Ginz­burg, con la sua sen­si­bi­lità ar­ti­stica, lo avrebbe fatto con po­che e ben scelte pa­role.
Dai fatti da noi ci­tati, ab­biamo per­ce­pito che la Giu­lia vera non era certo un’intellettuale con una vi­sione ap­pro­fon­dita della so­cietà e della po­li­tica (pen­siamo per es. a So­phie de Con­dor­cet, di ben al­tra sta­tura ed espe­rienza) ma che a Pa­rigi essa seppe espri­mere pro­ba­bil­mente il me­glio di sé, com­pren­dendo di vi­vere un mo­mento ec­ce­zio­nale, sotto tutti gli aspetti.
Del tutto di­versa dall’immagine di tonta fe­li­ce­mente in­con­sa­pe­vole che ne ha vo­luto dare Ginzburg.

Sia chiaro! Non è che noi ab­biamo una par­ti­co­lare sim­pa­tia per Giu­lia Bec­ca­ria. Tutt’altro. Ma ci sem­bra che Ginz­burg ne ab­bia vo­lu­ta­mente al­te­rato la reale fi­sio­no­mia per per­se­guire il pro­prio pro­getto ar­ti­stico-cul­tu­rale.
Va bene! Ognuno fa un po’ quello che gli pare. Ma la cri­tica, ma gli spe­cia­li­sti, ma gli in­tel­let­tuali di va­glia che si oc­cu­pano di que­stioni man­zo­niane (ne ab­biamo tanti) do­vreb­bero met­tere in luce que­sti aspetti. E non pre­stare il pro­prio ta­lento a che si af­fer­mino come po­si­tive — e da imi­tare — me­to­do­lo­gie di ana­lisi sto­rica che ci por­tano in­vece molto lon­tani dai man­zo­niani “vero” e “utile”.

Ginz­burg vo­leva pre­sen­tarci una certa Giu­lia, “quella” Giu­lia, un po’ sva­nita, un po’ su­per­fi­ciale, un po’ “cro­naca rosa”. Aveva bi­so­gno di fare no­stra la per­ce­zione di quel tipo di donna per­ché emer­gesse con mag­giore evi­denza la Giu­lia de­gli anni suc­ces­sivi. La Giu­lia del riav­vi­ci­na­mento alle con­ven­zioni mo­de­rate dell’ambiente mi­la­nese e alla re­li­gione cat­to­lica. La Giu­lia un po’ be­ghina, e a tratti grot­te­sca, della ma­tu­rità, che oc­cupa tanta parte del suo li­bro.
La Giu­lia pre­sen­tata da Ginz­burg è per­fet­ta­mente fun­zio­nale a evi­den­ziare un Ales­san­dro ca­rat­te­riz­zato solo da idio­sin­cra­sie, pro­blemi psi­chici (in realtà ne aveva pa­rec­chi) da ego­ti­smi scon­cer­tanti nei con­fronti della mo­glie e dei fi­gli.
Met­tendo in om­bra — anzi can­cel­lando — quell’altro Ales­san­dro, uomo di pen­siero e d’arte, che tanto ha dato alla no­stra cul­tura e che è tut­tora tanto im­por­tante per le ra­dici di ri­fe­ri­mento della no­stra Lecco. Que­sto al­tro Ales­san­dro, per Ginz­burg non esi­ste quasi. E ciò col­loca il suo li­bro in una di­men­sione par­ti­co­lare, forse in­te­res­sante sul piano sti­li­stico, ma cer­ta­mente ina­de­guato per una più pro­fonda com­pren­sione della realtà manzoniana.

Quindi, que­sto li­bro di Ginz­burg me­rita di es­sere letto, o no? Il let­tore avrà a que­sto punto ca­pito che non ne siamo en­tu­sia­sti. Pure pen­siamo che la sua let­tura possa es­sere di una qual­che uti­lità, pur­ché ac­com­pa­gnata da al­tre let­ture e col­lo­cata nella sua di­men­sione sto­rica (Ginz­burg lo ha scritto nel pieno dell’onda del “ri­flusso”). Quindi, sug­ge­riamo di leg­gerlo, ma con con­sa­pe­vo­lezza delle sue ca­rat­te­ri­sti­che e dei suoi li­miti strut­tu­rali. Ma so­prat­tutto con­si­gliamo di leg­gerlo nella prima edi­zione del 1983, quella cu­rata dalla stessa au­trice.
La nuova edi­zione, pre­sen­tata re­cen­te­mente da Ei­naudi, è in­fatti non de­gna della Ginz­burg, in­tel­let­tuale di razza che ci ha re­ga­lato tante opere di ot­timo li­vello. Per con­clu­dere, due pa­role su que­sto aspetto.

Più che un omaggio, un dispetto a Natalia Ginzburg.

L’editore Ei­naudi ha pre­sen­tato la nuova edi­zione (uscita alla fine del 2016) come “me­mo­ria per il cen­te­na­rio della na­scita di Na­ta­lia Ginz­burg”. Un omag­gio quindi a una sua acuta con­su­lente cul­tu­rale e in­sieme au­trice di lar­ghi suc­cessi edi­to­riali.
L’intenzione è stata però tra­dita dal ri­sul­tato. Que­sta se­conda edi­zione pre­senta in­fatti tali tra­vi­sa­menti nei con­te­nuti, cat­tiva qua­lità tec­nica, er­rori ma­dor­nali di com­po­si­zione, da ap­pa­rire più che un omag­gio, un vero di­spetto alla me­mo­ria dell’autrice. Ve­diamo al­cuni di que­sti aspetti.

La co­per­tina – Nell’edizione del 1983 la so­vra­co­perta del vo­lume ri­por­tava un ac­que­rello (di Er­ne­sta Le­gnani Bisi, coeva di Ales­san­dro) nel quale è raf­fi­gu­rata tutta la fa­mi­glia Man­zoni, come era nel 1823 – dalla nonna Giu­lia di ses­san­tuno anni a Vit­to­ria, l’ultima nata, di ap­pena un anno.

Que­sta il­lu­stra­zione era stata ac­cu­ra­ta­mente scelta da Ginz­burg, come la più vi­cina all’idea por­tante dell’opera, così come essa stessa aveva vo­luto ri­mar­care (“Ri­svolto”, pag. 411) «Il pro­ta­go­ni­sta di que­sta lunga sto­ria fa­mi­gliare non vo­levo fosse Ales­san­dro Man­zoni. Una sto­ria fa­mi­gliare non ha un pro­ta­go­ni­sta; ognuno dei suoi mem­bri è di volta in volta il­lu­mi­nato e ri­so­spinto nell’ombra. Non vo­levo che egli avesse più spa­zio de­gli al­tri; vo­levo che fosse vi­sto di pro­filo e di scor­cio, e me­sco­lato in mezzo agli al­tri, con­fuso nel pol­ve­rio della vita gior­na­liera.»
In ef­fetti l’illustrazione della Bisi sem­bra fatta a mi­sura di que­sta pro­spet­tiva: al cen­tro dell’osservazione è la fa­mi­glia nel suo in­sieme, Man­zoni ha solo un lieve mag­gior spicco ri­spetto alle al­tre fi­gure. Il tono dell’illustrazione è uni­forme, pa­cato, senza ef­fetti particolari.

Pur­troppo, in que­sta edi­zione 2016, l’editore ha gio­cato un brutto tiro alla sua più pre­sti­giosa au­trice (e al suo cu­ra­tore, im­ma­gi­niamo), ri­pren­dendo la pes­sima scelta già fatta in pre­ce­denti rie­di­zioni del li­bro. In co­per­tina, al po­sto dell’acquerello della Bisi, com­pare in­fatti un ri­tratto di Man­zoni nel 1805, opera di un ano­nimo in­glese. Nel ri­tratto, a tinte forti, com­pare il bu­sto di un Man­zoni ai­tante e ro­man­tico, gli oc­chi al cielo, in posa me­lo­dram­ma­tica da pri­mat­tore. La fa­mi­glia è scom­parsa. Vi è solo Ales­san­dro, do­mi­na­tore unico della scena. Per di più raf­fi­gu­rato a vent’anni, quando non aveva nep­pure co­min­ciato a pen­sare a una fa­mi­glia. Esat­ta­mente il con­tra­rio di ciò che Na­ta­lia Ginz­burg aveva vo­luto e rea­liz­zato nell’edizione del 1983.

Ab­biamo detto che lo scherzo è stato si­cu­ra­mente giuo­cato an­che al cu­ra­tore Sal­va­tore Ni­gro.
Nella sua “In­tro­du­zione” alla nuova edi­zione, in­fatti, il pro­fes­sore ri­chiama con in­tri­ganti pa­role l’attenzione del let­tore pro­prio sull’acquerello della Bisi: «Il ri­tratto della nu­me­rosa fa­mi­glia Man­zoni trac­ciato dal ba­rone fran­cese ri­corda senza vo­lerlo un di­se­gno ac­que­rel­lato di Er­ne­sta Bisi che, nel 1823, in breve spa­zio aveva fatto del ce­le­bre gruppo di fa­mi­glia un sog­getto pae­sag­gi­stico in pen­denza e ter­raz­zato … L’araldizzazione ve­ge­tale della Bisi agi­sce sulla com­pli­cità im­ma­gi­na­tiva della scrit­tura di Na­ta­lia Ginz­burg» (pag. VI) e an­cora: «La fa­mi­glia Man­zoni ar­rivò in li­bre­ria alla fine di gen­naio del 1983. Il ri­svolto era fir­mato dall’autrice. In so­vra­co­perta por­tava l’acquerello della Bisi» (pag. VIII).
Ci ap­pare un mi­stero la ra­gione per cui la pre­sti­giosa Ei­naudi ab­bia vo­luto fare uno sgarbo così pe­sante a un suo sto­rico au­tore e a uno dei più pre­sti­giosi stu­diosi di Man­zoni su cui pos­siamo con­tare in Italia.

So­pra: l’edizione del 1983 con la co­per­tina vo­luta da Ginz­burg re­cante il pa­stello, opera del 1824, di Er­ne­sta Le­gnani Bisi, coeva di Man­zoni.
Sotto: la co­per­tina dell’edizione del 2016 — tutt’altra cosa.

Ventuno errori (accertati) di ortografia sono veramente troppi.

Tanti sono gli er­rori di com­po­si­zione emersi a una let­tura ri­volta solo ai con­te­nuti (siamo certi che una ri­let­tura da “cor­ret­tore di bozze” ne au­men­te­rebbe il nu­mero). Gli er­rori di com­po­si­zione sono ri­con­du­ci­bili al fatto che del te­sto fi­nale, prima della stampa, non è stata fatta nes­suna ri­let­tura seria.

Gli er­rori creano a volte ef­fetti co­mici. Già a pag. 11 la frase «Nel 1788 era morta Ma­netta» ci aveva messo sul chi vive, ma nel li­bro il nome Ma­rietta di­venta “Ma­netta” per ben al­tre quat­tro volte (pag. 124, 126, 127, 205). E poi, a pag. 158: «che ve­niva da star 4 o 5 ore al sole tra­fe­lato e stanco» di­venta «che ve­niva da star 405 ore tra­fe­lato e stanco»

Op­pure (pag. 99) «Era il po­vero D. Eu­sta­chio da al­cuni anni pe­rio­di­ca­mente 2 o 3 volte sor­preso da bron­chi­tidi» di­venta «pe­rio­di­ca­mente 203 volte sor­preso da bron­chi­tidi». Gli er­rori di com­po­si­zione com­por­tano an­che al­te­ra­zioni nei co­gnomi. I “mar­chesi Cac­cia-Piatti”, di­ven­tano “mar­chesi Cac­cia-piatti” (pag. 190, 207); men­tre (pag. 164) la si­gnora “Eu­ph­ro­sine Planta”, di­venta “Eu­ph­ro­sine Pianta”; Brusù [come i Man­zoni chia­ma­vano Bru­su­glio], di­venta “Bru­sii” (pag. 67).

Non è ri­spar­miata nep­pure la ma­dre di D’Azeglio. A pag. 175, nella prima edi­zione essa gli scrive: «non vo­glio che ogni tua let­tera sia un’epistola ma ogni 4 o 5»; ma nella nuova i nu­meri si am­pliano e la ma­dre si trova a scri­vere «un’epistola ma ogni 405».
Nella bi­blio­gra­fia, “Ezio Flori” (il più con­sul­tato dalla Ginz­burg) di­venta “Ezio Fiori”.
La­sciamo an­dare gli al­tri re­fusi: il let­tore ha ca­pito che in que­sto la­voro, la casa edi­trice Ei­naudi ha de­fi­ni­ti­va­mente ab­ban­do­nato il ri­gore che ne aveva fatto una delle più pre­sti­giose case edi­trici, note a li­vello in­ter­na­zio­nale per la cura e la se­rietà dei pro­pri lavori.

È quasi d’obbligo con­clu­dere con un brano di una let­tera scritta da Leone Ginz­burg (il ma­rito di Na­ta­lia, uc­ciso dai nazi-fa­sci­sti a Roma nel 1944) a Giu­lio Ei­naudi: «Voi vi pro­po­nete di stam­pare senza che io veda delle bozze in cui ci sono, per nomi geo­gra­fici o per ter­mini tec­nici, va­rie espres­sioni in so­speso; per di più, vo­lete che io non ri­legga nep­pure un la­voro, certo fatto con grande co­scienza e mi­glio­rato con­si­de­re­vol­mente, ma pur sem­pre sog­getto a di­stra­zioni… che voi non po­tre­ste ri­pa­rare. Voi mi mi­nac­ciate di con­ti­nuare la com­po­si­zione su un te­sto non ri­vi­sto da me. La mi­nac­cia la fate a Voi stessi. Non cre­diate che le Vo­stre edi­zioni si ven­dano per­ché lo Struzzo è sim­pa­tico alla gente: si ven­don per­ché sono ac­cu­rate e leg­gi­bili: quando ci siano li­bri mezzi cor­retti e mezzi scor­retti, quando il ri­spetto del let­tore venga meno, il let­tore Vi abbandonerà.».

Per que­sta sua te­nace ade­sione alla se­rietà e con­tro la sciat­te­ria in­tel­let­tuale, Leone Ginz­burg era da al­cuni con­si­de­rato come pos­se­duto dall’acribia (oggi si di­rebbe “un pre­ci­sino”), ma è un esem­pio che dob­biamo te­nere nel cuore e nella mente sia per la cul­tura sia per la no­stra vita collettiva.

Ri­cor­diamo che Leone Ginz­burg è stato an­che un ap­pas­sio­nato esti­ma­tore di Man­zoni. Tra il 1943 il 1944, men­tre si tro­vava al con­fino in Abruzzo, compì studi ap­pro­fon­diti su Ales­san­dro e su “I pro­messi sposi”, in vi­sta di una edi­zione Ei­naudi sulle opere va­rie di Man­zoni.
Su Man­zoni stese an­che il primo ab­bozzo di un sag­gio di grande re­spiro nel quale met­teva in luce la straor­di­na­ria ca­rica ci­vile del ro­manzo e la sua per­ma­nente ca­pa­cità di orien­tare e di istruire di fronte alle scelte com­plesse della vita in­di­vi­duale e col­let­tiva. Que­sto sag­gio andò pur­troppo per­duto ma siamo certi che ne sa­rebbe emerso un Man­zoni ben di­verso da quello che ha vo­luto rap­pre­sen­tarci sua mo­glie Natalia.

Un Man­zoni de­gno di es­sere ri­cor­dato, come fac­ciamo noi oggi, ce­le­brando il 232º della sua na­scita, nella città di Lecco, che egli con­si­derò sem­pre la sua vera e in­di­men­ti­ca­bile patria.

♦♦♦