Martedì 13 novembre 2018
Lettera aperta agli Amministratori di Lecco
Sindaco Virginio Brivio
Assessore alla Cultura Simona Piazza
Lecco, 20 ottobre-20 gennaio
[di che anno / anni? – N.d.R.]
Lecco
20 ottobre-20 gennaio
[di che anno / anni? – N.d.R.]
Una mostra senza fisionomia.
Avulsa dalla cultura di Lecco.
Azzoppata da grossolani errori.
Solo velati accenni a Manzoni e a “I Promessi Sposi”.
Amnesia inspiegabile su pilastri della cultura lecchese dell’Ottocento quali lo scrittore Ghislanzoni e i pittori Todeschini e Pizzi.
Neppure UNA PAROLA sui tanti rapporti, con Manzoni e la sua opera, di molti degli artisti esposti.
Silenzio tombale sulla rassegna annuale “Lecco città dei Promessi Sposi” a metà del cui svolgimento è stata inaugurata l’esposizione “Ottocento Lombardo”.
Una mostra quindi anonima; astratta rispetto all’esperienza culturale di Lecco; inadeguata a richiamare l’attenzione sulla città.
Di tutta evidenza concepita e realizzata senza l’indispensabile apporto degli esperti della cultura del territorio.
Per “entrare in atmosfera”, il lettore ci consentirà di riportare alcune battute scambiate con la curatrice della mostra, la comunque cortese Simona Bartolena, la sera dell’inaugurazione della mostra (19 ottobre 2018).
Visitatore: come mai nella promozione della mostra non vi è alcun riferimento a Manzoni?
Bartolena: come! guardi che i pannelli sulle pareti delle cinque sale sono pieni di riferimenti a Manzoni.
Visitatore: per i pannelli, ora li leggerò (e quando sarà disponibile leggerò con interesse il catalogo) ma all’esterno non avete mai fatto riferimento al come Manzoni influì anche sulla pittura lombarda e al suo legame con Lecco, la città della sua famiglia e formazione.
Bartolena: si sbaglia, nel comunicato che io ho redatto si parla espressamente di Manzoni.
Visitatore: guardi che per il comunicato lei deve avere perso qualche passaggio: in quello ufficiale, posto sul sito del Comune di Lecco non vi è alcun riferimento a Manzoni.
Bartolena: non so, qualcuno lo avrà tolto. E poi, guardi, noi non volevamo legare l’immagine della mostra a Manzoni o a altre specificità della città di Lecco.
Visitatore: ah!!! ecco, ora capisco.
A Lecco, nel tardo pomeriggio di venerdì 19 ottobre 2018, presso il Palazzo delle Paure, è stata inaugurata «La rassegna, dal titolo L’Ottocento lombardo, curata da Simona Bartolena, col patrocinio del Comune di Lecco, prodotta e realizzata ViDi – Visit Different.» (dal Comunicato Ufficiale pubblicato l’11 ottobre 2018 sul sito Web del Comune di Lecco).
A parte l’errore sintattico (manca un “da”) e il titolo difforme (in tutte le altre comunicazioni indicato come “Ottocento Lombardo”), la rassegna/mostra, i cui manifesti, locandine, totem, annunci Web, sono inspiegabilmente incompleti (manca la natura dell’evento nonché l’anno/anni di svolgimento), si è inaugurata senza il Catalogo Ufficiale e un qualsivoglia foglio illustrativo, entrambi pervenuti solo sei giorni dopo, giovedì 25, anch’essi monchi dell’anno/anni di svolgimento.
“Ottocento Lombardo” è la seconda mostra (la prima, dell’estate 2018, è stata dedicata al fotografo Doisneau) affidata dal Comune di Lecco alla società ViDi Srl di Milano per inserire la città nel circuito (quanto meno regionale) delle esposizioni a carattere culturale, con un programma che si svilupperà attraverso altre quattro mostre da qui al 2020 (scadenza della legislatura consiliare).
Un programma di medio periodo, quindi.
Che, se condotto con il taglio anonimo e la mediocre professionalità mostrata in questa seconda prova, potrebbe rivelarsi deleterio per la fisionomia della città, già compromessa dalla debolezza più volte mostrata dall’Amministrazione comunale quanto meno nell’area della dimensione “manzoniana” della sua cultura (come esempi, vedi le nostre osservazioni su due episodi emblematici: realizzazione della App “Città dei Promessi Sposi”; gestione della trasmissione di Alberto Angela “Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi”).
Sulla base della nostra abituale attenzione nei confronti della città di Lecco, anche in occasione della mostra “Ottocento Lombardo” – che ci pare inadeguata a valorizzarne la cultura – riteniamo possa essere di qualche utilità la nostra “lettera aperta” inviata il 14 novembre al Sindaco Brivio e all’Assessore alla Cultura Piazza.
Lettera aperta ai Signori
• Virginio Brivio, Sindaco di Lecco,
• Simona Piazza, Assessore alla Cultura, con delega alla Comunicazione, del Comune di Lecco.
Per conoscenza
• a tutti gli interessati allo sviluppo della cultura di Lecco e del territorio lariano.
Milano, mercoledì 14 novembre 2018
Oggetto: “Ottocento Lombardo” – Un’occasione persa per lo sviluppo culturale di Lecco. Riflessioni critiche per un cambio di rotta.
Gentili Signori,
nello spirito della costante collaborazione che il nostro Centro Studi Abate Stoppani tiene a mantenere con le strutture della città preposte alla cultura, sentiamo l’obbligo di segnalarVi una serie di criticità della mostra “Ottocento Lombardo”, inaugurata venerdì 19 ottobre scorso a Palazzo delle Paure in Lecco.
In via preliminare è da segnalare che, in mancanza del Catalogo della mostra (è stato reso disponibile solo giovedì 25, sei giorni dopo l’inaugurazione) gli organizzatori della mostra non hanno ritenuto opportuno mettere a disposizione del pubblico almeno un paio di paginette nelle quali il lettore / visitatore potesse rendersi conto di cosa fosse questa esposizione, che, in mancanza delle informazioni più elementari, è parsa una vera “mostra fantasma“.
Lo stesso Comunicato Stampa ufficiale — reperibile però solo sul sito Web del Comune — ricorda 20 artisti su 48 e rimane nel vago parlando di “oltre cinquanta opere” esposte (in realtà sono 81), senza dirne altro.
Non a caso i commenti sulla mostra da parte della stampa (su carta o via Web) sono riusciti decisamente generici, riflettendo questa debolezza nell’informazione.
Cerchiamo quindi innanzitutto di capire di che si parla. I contenuti della mostra.
A fronte di questa spiacevole inadeguatezza nella comunicazione da parte degli organizzatori, può forse essere utile richiamare qualche dato di fatto ricavato da nostre osservazioni.
La mostra si sviluppa lungo cinque sale al primo piano del Palazzo delle Paure in Lecco.
Sono esposte 81 opere con 63 dipinti a olio, 7 acquerelli, 1 tempera, 5 disegni, 5 sculture.
Le 81 opere sono di 48 artisti (di alcuni dei quali sono quindi presenti più opere) e sono raggruppate in 8 sezioni concettuali.
Ecco i quarantotto artisti (il numero posto accanto al nome indica il rispettivo numero di opere presente alla mostra):
Bazzaro Ernesto (1) • Bazzaro Leonardo (1) • Bertini Giuseppe (2) • Bianchi Mosè (2) • Bisi Luigi (1) • Bouvier Pietro (1) • Calvi Ercole (1) • Canella Carlo (2) • Canella Giuseppe (1) • Carcano Filippo (3) • Carnovali Giovanni detto il Piccio (5) • Conconi Luigi (1) • Cornienti Cherubino (1) • Cremona Tranquillo (3) • Cressini Carlo (1) • d’Azeglio Massimo (2) • De Albertis Sebastiano (2) • Dovera Achille (1) • Faruffini Federico (3) • Fontana Roberto (1) • Gignous Eugenio (3) • Giuliano Bartolomeo (1) • Gola Emilio (1) • Gozzi Marco (1) • Grandi Giuseppe (2) • Hayez Francesco (9) • Induno Domenico (3) • Induno Gerolamo (2) • Longoni Emilio (1) • Mancini Carlo (1) • Mariani Pompeo (1) • Massacra Pasquale (1) • Migliara Giuseppe (1) • Molteni Giuseppe (2) • Morbelli Angelo (1) • Pagliano Eleuterio (1) • Poma Silvio (1) • Previati Gaetano (1) • Pusterla Attilio (1) • Ranzoni Daniele (2) • Rosso Medardo (1) • Segantini Giovanni (2) • Sottocornola Giovanni (1) • Spreafico Eugenio (1) • Tallone Cesare (2) • Trécourt Giacomo (1) • Trezzini Angelo (1) • Troubetzkoy Paolo (1).
Riassumendo, sono quindi:
26 gli artisti presenti con 1 sola opera; 9 quelli con 2 opere; 4 con 3 opere; 1 artista con 9 opere (Hayez).
Netta quindi la predominanza di Hayez, sia in termini assoluti (9 opere sulle 81 complessive) sia in relazione agli altri 47 artisti, nessuno dei quali è presente con più di tre opere.
Ci sembra che la mostra sia stata idealmente ripartita dalla curatrice in otto sezioni concettuali. Diciamo “sembra” perché tale ripartizione non è formalizzata in alcun modo in quello che viene venduto come “catalogo” della mostra (d’ora in poi lo definiremo “pseudo-catalogo”) e può essere desunta solo dai titoli degli otto pannelli distribuiti nelle cinque sale (a mostra finita non si saprà quindi più nulla di quale fosse la sua struttura interna, se non da queste nostre note).
Non essendo agevole per il visitatore comprendere dove inizia una sezione e dove un’altra, è quindi possibile che la nostra ripartizione non coincida esattamente con le intenzioni della curatrice ma è comunque utile per comprendere che oltre la metà delle opere può essere attribuito al “periodo romantico”.
Omaggio a Manzoni (2)
Hayez F. (1) • Molteni G. (1).
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Francesco Hayez e la generazione romantica (13)
Cornienti C. (1) • d’Azeglio M. (2) • Hayez F. (8) • Massacra P. (1) • Molteni G. (1).
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Vedute e prospettive (4)
Bisi L. (1) • Canella C. (1) • Canella G. (1) • Migliara G. (1).
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Sguardi sul paesaggio dal romanticismo al naturalismo (15)
Bazzaro L. (1) • Calvi E. (1) • Canella C. (1) • Cressini C. (1) • Dovera A. (1) • Gignous E. (3) • Giuliano B. (1) • Gozzi M. (1) • Mancini C. (1) • Mariani P. (1) • Poma S. (1) • Spreafico E. (1) • Tallone C. (1).
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Il Risorgimento (6)
De Albertis S. (2) • Induno D. (1) • Induno G. (1) • Pagliano E. (1) • Trezzini A. (1).
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Dalla letteratura alla vita quotidiana (6)
Bertini G. (2) • Bouvier P. (1) • Induno D. (2) • Induno G. (1).
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La scapigliatura e i suoi padri (18)
Carnovali detto il Piccio G. (5) • Conconi L. (1) • Cremona T. (3) • Faruffini F. (3) • Grandi G. (2) • Ranzoni D. (2) • Rosso M. (1) • Trécourt G. (1).
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Tendenze del naturalismo nella seconda metà del secolo (12)
Bazzaro E. (1) • Bianchi M. (2) • Carcano F. (3) • Fontana R. (1) • Gola E. (1) • Pusterla A. (1) • Sottocornola G. (1) • Tallone C. (1) • Troubetzkoy P. (1).
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Verso il divisionismo (5)
Longoni E. (1) • Morbelli A. (1) • Previati G. (1) • Segantini G. (2).
Possiamo quindi dire che circa la metà delle opere in esposizione è da riferirsi al periodo romantico.
Può essere forse di qualche interesse rilevare anche la provenienza delle opere esposte (60 delle quali segnalate come “Collezione privata”), quanto meno su quelle di cui è stata indicata (40 su 81):
Quadreria dell’800, Milano (23) • Musei Civici, Pavia (4) • Fondazione Lamberti, Codogno (2) • Palazzo Foresti, Carpi (2) • SiMUL, Lecco (2) • Accademia di Belle Arti di Brera, Milano (1) • Banco BPM, Milano (1) • Fondazione Musei, Brescia (1) • Galleria Artemoda, Milano (1) • Museo storico di Bergamo, Bergamo (1) • Palazzo Morando, Milano (1) • Tremezzina Villa Carlotta, Milano (1).
Una provenienza quindi tutta lombarda (con l’unica eccezione di Carpi) e in grandissima parte (35 opere su 40) concentrata sul triangolo Milano / Lodi / Pavia — la proiezione di Lecco sulla regione Lombardia.
La struttura che fa la parte del leone come “prestatrice” è la Quadreria dell’800 Srl (23 opere sulle 40 dichiarate), nota galleria privata di Milano, specializzata nell’Ottocento lombardo e centro di riferimento per le attività di compra-vendita nel settore.
La stessa galleria che (1993 e 1995) ha promosso e organizzato due edizioni di una mostra intitolata “Ottocento Lombardo”, esattamente come quella inaugurata a Lecco venerdì 19 ottobre 2018.
Come già visto, il sistema museale di Lecco su 81 opere presenti alla mostra è stato coinvolto solo per 2 dipinti.
Uno di questi è “Naviglio a Ponte San Marco” di Segantini, “prestato” da un privato alla città (fino all’aprile 2020) e già visto a Milano nella mostra “Segantini, ritorno a Milano” (Palazzo Reale, settembre 2014 – gennaio 2015) con altre 120 opere dell’artista.
L’altro è il ben noto “Ritratto di Alessandro Manzoni”, attribuito a Giuseppe Molteni, da anni esposto al Museo Manzoniano di Lecco (su cui nulla si dice nei testi introduttivi delle storiche dell’arte Simona Bartolena e Susanna Zatti).
I presupposti “strategici” del ciclo di sei mostre previsto fino al 2020
Ciò detto, è forse opportuno ricordare anche che, dopo la mostra «Robert Doisneau, pescatore d’immagini» (23 giugno-30 settembre 2018), «Ottocento Lombardo» è la seconda iniziativa culturale promossa e organizzata da ViDi Srl, la società privata cui il Comune di Lecco ha affidato la promozione e l’organizzazione triennali (2018-2020) di sei eventi culturali (tre mostre fotografiche; tre mostre di pittura) da tenersi a Palazzo delle Paure.
Così come giova ricordare che i presupposti dell’affidamento “con rischio di impresa” di queste attività cultural-espositive a una società privata sono stati ribaditi con chiarezza in varie occasioni.
Da ultimo proprio nel corso della inaugurazione del 19 ottobre a Palazzo delle Paure.
Sindaco Virginio Brivio:
«Il sindaco, nel suo saluto iniziale, ha sottolineato la speranza che Lecco diventi una città di riferimento entro il panorama lombardo degli eventi culturali » (Gianfranco Colombo, La Provincia di Lecco, 20 ottobre 2018);
«Ci piacerebbe – ha affermato il primo cittadino – che qualcuno venisse a Lecco per vedere mostre e non solamente per le bellezze naturali.» (LeccoFM).
Assessore Simona Piazza:
«Inauguriamo la prima mostra di pittura promossa da ViDi a Lecco, un’esposizione fortemente voluta perché legata al nostro territorio, tanto che, alcune delle opere esposte sono custodite nelle collezioni permanenti dei nostri musei.
Diventa così la mostra anche un’opportunità di raccontare al grande pubblico una parte della ricchezza culturale della nostra città, sia artistica, sia letteraria.» (Comunicato Stampa del Comune di Lecco, 11 ottobre 2018).
«Non si tratta del “solito” pacchetto preconfezionato che gira per l’Italia, ma di una ricerca originale ed unica.» (Gianfranco Colombo, La Provincia di Lecco, 20 ottobre 2018).
Stando a quanto espresso con così lodevole chiarezza da Brivio e Piazza si ritiene quindi che l’affidamento alla società milanese ViDi Srl garantisca:
• prodotti culturali originali;
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• concepiti in sinergia con la storia e le caratteristiche culturali della città di Lecco;
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• realizzati in modo da consolidare il nome di Lecco al di fuori dell’immediato territorio lariano;
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• tali da stimolare l’interesse e l’afflusso su Lecco di un maggior numero di turisti culturali, quanto meno dall’area lombarda;
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• strutturati per valorizzare le “importanti testimonianze” custodite nei Musei della città;
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• in grado di rendere patrimonio collettivo le ricchezze anche letterarie della città di Lecco.
È certo un’impostazione corretta: per attirare su Lecco l’attenzione e l’empatia quanto meno dei lombardi è obbligatorio puntare sulla specificità di Lecco e del suo territorio.
E ciò (lo ha ribadito il Sindaco Brivio) non solo per le bellezze naturali della città ma anche per la sua storia culturale.
D’altro lato, cosa potrebbe auspicare l’amministratore di una comunità se non la valorizzazione delle sue specificità e l’esaltazione della sua unicità?
È un discorso che comprende chiunque, soprattutto a fronte dell’attuale rilevante offerta di mostre d’arte, e proprio sull’Ottocento.
Non sfugge infatti che dal 26 ottobre 2018 al 17 marzo 2019 (proprio contemporaneamente alla mostra di Lecco) si svolge a Milano la mostra “Romanticismo”, con 200 opere, curata dal decano dei critici dell’arte ottocentesca, Ferdinando Mazzocca, con introduzioni storico-critiche dello stesso Mazzocca e di Susanna Zatti (che firma anche uno dei due saggi a commento della mostra di Lecco).
Ovviamente è una mostra che si sovrappone in parte a quella di Lecco, presentando anche i medesimi artisti per il periodo romantico.
Anche a Milano protagonista è Hayez e il curatore Fernando Mazzocca (che ha più volte evidenziato nei suoi lavori l’apporto di Manzoni anche allo sviluppo dell’arte figurativa) ha opportunamente messo in mostra – in una apposita sezione, titolata «Manzoni e i personaggi dei Promessi Sposi» — alcune delle più famose tele di argomento manzoniano (a Lecco “città dei Promessi Sposi” ciò è stato appositamente escluso per ragioni inconoscibili).
Quindi è certo molto sensata l’idea strategica, espressa da Brivio e Piazza, che a Lecco la mostra dovesse puntare su un elemento che solo Lecco ha: il suo rapporto previlegiato sia con il suo più noto cittadino, l’uomo Manzoni, sia con l’opera – “I Promessi Sposi” – che ha posto la città lariana all’attenzione internazionale.
Non vorremmo che il lettore ci prendesse per pedanti se sentiamo l’opportunità di ricordare che, in riferimento all’Ottocento, la «ricchezza culturale, sia artistica che letteraria della città di Lecco», di cui parla molto opportunamente l’Assessore Piazza, ruota attorno a cinque nomi.
Nel campo letterario:
• il poeta Alessandro Manzoni e il suo “I Promessi Sposi”. Non per nulla Lecco chiama ufficialmente il suo annuale mese dedicato a Manzoni “Lecco, città dei Promessi Sposi” (fino al 2014 era più opportunamente “Lecco, città di Manzoni”);
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• l’Abate Antonio Stoppani (sistematizzatore e innovatore della geologia italiana, nonché scrittore ben noto per “Il Bel Paese”);
.• Antonio Ghislanzoni (scrittore fecondo, librettista di opere di Verdi e altri grandi della musica, celebri in tutto il mondo).
Nel campo delle arti figurative:
• Giovan Battista Todeschini (nella sala consigliare di Lecco è in bella vista un suo ottimo ritratto dell’Abate Stoppani). A lato un ritratto della madre dell’artista, Lucia Stoppani Todeschini.
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• Carlo Pizzi (considerato “il più importante paesaggista lecchese”, cui è dedicata l’intera Sala V della Galleria Comunale d’Arte di Lecco). A lato una sua veduta di Malgrate da Lecco, con i monti di Valmadrera sullo sfondo.
Una valutazione negativa: disattese le direttive del Sindaco Brivio e dell’Assessore alla Cultura Piazza in una impressionante manifestazione collettiva di dissociazione culturale.
Diciamo subito che per quanto riguarda i presupposti sopra ricordati — ossia il coinvolgimento e la valorizzazione nella mostra del patrimonio artistico e letterario di Lecco — la nostra valutazione sull’esposizione a Palazzo delle Paure è purtroppo negativa.
La mostra “Ottocento Lombardo” presenta infatti non solo una serie di criticità di fatto da non sottacere – ma soprattutto ci pare che né coinvolge né valorizza Lecco e il suo territorio.
I riferimenti al suo patrimonio artistico e letterario sono pressoché nulli e quei pochi rinvenibili qua e là — lo diciamo con dispiacere — sono insignificanti.
Da segnalare che in nessun modo (né sugli strumenti a stampa o Web, né nella conferenza di inaugurazione, né sullo pseudo-catalogo, o sui pannelli all’interno della mostra), si è ritenuto di fare anche solo un accenno all’annuale rassegna culturale “Lecco città dei Promessi Sposi” (venerdì 12 ottobre — sabato 10 novembre 2018) che «costituisce la più importante manifestazione italiana dedicata ad Alessandro Manzoni e un evento fondamentale per la comunità di Lecco e per il suo territorio» (dal Comunicato del Comune di Lecco del 28 settembre 2018).
Ci troviamo di fronte quindi a una impressionante manifestazione di dissociazione culturale che ha coinvolto Amministrazione comunale, organizzatori e curatore storico-artistico della mostra.
Ci rendiamo conto di esprimere una valutazione che non piacerà agli organizzatori della mostra e alla sua curatrice (nonché agli Amministratori comunali che ne hanno sostenuto l’azione) ma riteniamo sia doveroso dare un contributo di merito perché — almeno nelle prossime 4 manifestazioni in programma da qui al 2020 — si faccia meglio, soprattutto per l’immagine di Lecco nel panorama culturale italiano.
Come nostra abitudine cercheremo di motivare in modo ben documentato la nostra valutazione, in modo da offrire al lettore la possibilità di verificarne la correttezza.
Va da sé che ogni osservazione critica — si intende motivata — del lettore al nostro discorso sarà bene accetta e riceverà il giusto spazio su questo stesso nostro sito Web.
La nostra analisi si sviluppa su cinque sezioni:
1. Un incredibile scambio di dipinti. Pasticci sulla 3ª Guerra di Indipendenza.
1.1 — Nel percorso della mostra e nello pseudo-catalogo confusi due dipinti con soggetti completamente differenti.
1.2 — Amnesie sulla 3ª Guerra di Indipendenza del nostro Risorgimento.
2. Criticità ed errori negli strumenti per la promozione della mostra.
2.1 — Denominazione anonima; indeterminazione temporale; ricalco esatto di altri recenti eventi.
2.2 — Errori rilevanti su manifesti, pannelli e totem.
2.3 — Ambiguità nella grafica del logo.
2.4 — Inadeguatezza nell’affissione dei manifesti.
2.5 — Cartoncini informativi errati, se non ingannevoli.
3. Illustra la mostra uno pseudo-catalogo che di tale non porta neppure il nome.
3.1 — Copertina e frontespizio anonimi.
3.2 — Presentazioni del Sindaco Brivio e dell’Assessore Piazza relativamente corrette ma completamente disattese.
3.3 — Presentazione degli organizzatori che ignora il Comune di Lecco che è partner e committente.
4. Nelle Presentazioni storico-critiche della mostra (22 pagine, 13.000 parole) ZERO riferimenti a Lecco e al territorio; solo vaghi cenni su Manzoni.
4.1 — Citazioni di “Lecco” =ZERO / di “lecchese” = UNA
4.2 — Citazione de “I Promessi Sposi” = TRE
4.3 — Massimo d’Azeglio e Manzoni presentati solo come genero e suocero.
4.4 — Citazioni di “Manzoni” = SEI, ma tutte accessorie e incidentali.
5. Ignorati nelle Presentazioni e nei pannelli nelle sale espositive i rapporti tra gli artisti in mostra e Lecco; solo vaghi quelli con Manzoni e le altre figure di spicco della città.
5.1 — Hayez / “Il Carmagnola” e il Manzoni dimenticato.
5.2 — Hayez / “La monaca”, un evidente “svarione” critico.
5.3 — Molteni / Manzoni, il ritratto cancellato, così come la Monaca di Monza.
5.4 — Luigi Bisi / Ignorati Manzoni e “I Promessi Sposi”.
5.5 — Marco Gozzi / Ignorata Lecco e il territorio.
5.6 — Cornienti / Ignorati Manzoni, Lecco e il suo territorio.
5.7 — Tranquillo Cremona / Dimenticati Manzoni e “I Promessi Sposi” .
5.8 — Giuseppe Bertini / Dimenticati Manzoni e l’episodio di Cecilia nella peste di Milano.
5.9 — Domenico e Gerolamo Induno / Ignorati Pescarenico e il monumento a Manzoni in Lecco.
5.10 — Giuseppe De Albertis / Ignorati Ghislanzoni, Manzoni, Garibaldi.
5.11 — Giuseppe Grandi / Ignorati Manzoni e suo nonno Cesare Beccaria.
5.12 — Mosè Bianchi / La Monaca di Monza, di nuovo cancellata.
5.13 — Previati / Cancellate le 230 illustrazioni de “I Promessi Sposi”, Hoepli 1900.
1. ^Un incredibile scambio di quadri nel percorso della mostra e nello pseudo-catalogo. Pasticci sulla 3ª Guerra di Indipendenza.
1.1 I dipinti scambiati. ^
Prima di entrare nel dettaglio delle incongruenze in termini di comunicazione della mostra, è opportuno evidenziare un vero e proprio pasticcio, degno della commedia dell’arte, presente nel percorso espositivo stesso della mostra e tracimato poi anche nello pseudo-catalogo.
In una delle opere esposte nella Sala 3, la targhetta in ottone fissata sulla cornice del dipinto è poco leggibile e si distingue solo il nome del pittore: Gerolamo Induno, rimanendo indistinguibile il titolo dell’opera.
Nel cartellino posto a fianco della medesima opera, si legge una titolazione palesemente errata:
«Gerolamo Induno / Primolano. Un episodio degli scontri tra Piemontesi ed Austriaci, 1865 circa. / Acquerello su carta / collezione privata / (courtesy Quadreria dell’800, Milano)».
Come il lettore può verificare dalle immagini qui riportate, il titolo si riferisce di evidenza a tutt’altra opera: non vi sono né scontri né militari di nessuna nazionalità.
In realtà il dipinto raffigura un incidente di viaggio nella stagione invernale: in un percorso innevato, una carrozza si rovescia; contadini con attrezzi di lavoro si affrettano verso il luogo dell’incidente; una passeggera e la piccola figlia, visibilmente scosse, vengono accolte con partecipata simpatia da una paesana.
Il medesimo errore viene ripetuto nello pseudo-catalogo, dove il dipinto è identificato con il n. 43 (vedi il pdf della pagina).
Il lettore ci consentirà di sottolineare i diversi aspetti di questo grave errore, indizio di una certa superficialità e non-cura che a evidenza pervadono la mostra in tutte le sue articolazioni rivolte al pubblico: manifesti, totem, annunci Web, “catalogo”, ecc.
1.2 Amnesie sulla 3ª Guerra di Indipendenza. ^
Fa specie che la curatrice Bartolena non solo ha scambiato un quadro per un altro (cosa evidentemente non commendevole in una mostra d’arte) ma anche che nella stesura della didascalia è incappata in altri errori, che fanno pensare a una fragilità strutturale di tutto l’apparato critico della mostra.
Il titolo del dipinto, riportato su cartellino e pseudo-catalogo, ha infatti in sé due “ingenuità” macroscopiche.
Rileggiamo il titolo attribuito al dipinto: «Primolano. Un episodio degli scontri tra Piemontesi ed Austriaci, 1865 circa».
“Circa” indica un lasso di tempo di “tot anni” prima del 1865 e di “tot anni” dopo il 1865. Nelle attribuzioni d’arte succede spesso di non avere una data precisa di realizzazione dell’opera. Ma qui la situazione è diversa.
Stiamo parlando di un avvenimento storico — l’unica battaglia di Primolano, combattuta tra Italiani e Austriaci — avvenuto in un momento assolutamente certo che rende indiscutibile la data “ante quem“.
Come noto, Primolano è una località a poca distanza da Trento, importante sul piano militare in quanto idonea a controllare con l’artiglieria il passaggio tra Valsugana, Feltrino e il Primiero (a fine Ottocento vi venne costruito un sistema di difesa statico con cannoni di lunga gittata, risultato molto efficace nel corso della Grande Guerra del 1915).
Per questa sua importanza sul piano strategico, Napoleone Bonaparte nel settembre 1796 condusse vittoriosamente contro gli Austriaci una battaglia per il suo possesso.
Un’altra battaglia, anch’essa per il suo possesso, venne combattuta il 22 luglio 1866 (nel pieno svolgimento della 3ª Guerra di Indipendenza e nel pieno di un’estate calda) tra reparti dell’esercito regio italiano guidati da Giacomo Medici e reparti austriaci. Lo scontro si risolse con la vittoria italiana.
Abbiamo quindi – ma alla metà del 1866 – una battaglia tra Austriaci e “Italiani” (non “Piemontesi” — da cinque anni il nostro Paese era già “Regno d’Italia” — prima ingenuità).
Gerolamo Induno dedicò all’episodio un suo dipinto, conosciuto come “I bersaglieri a Primolano” (a lato una riproduzione in bianco/nero).
Chiunque in Italia abbia fatto almeno un pochino di scuola sa che la 3ª Guerra di Indipendenza venne dichiarata dall’Italia il 20 giugno 1866 e si concluse il 12 agosto 1866 con l’Armistizio di Cormons.
E allora (seconda ingenuità) che senso ha parlare di “1865 circa”? Queste due paroline segnalano che il loro estensore (la curatrice in persona o meno, non ha importanza) non aveva la più pallida idea di cosa stesse scrivendo a informazione dei visitatori (paganti).
Ad adiuvandum (e per rispondere all’estrema ipotesi secondo cui Induno avesse voluto in realtà raffigurare il riflesso sulla popolazione civile di uno scontro tra militari), aggiungiamo poi che la battaglia di Primolano si svolse a meta luglio, in condizioni metereologiche del tutto normali e anzi tendenzialmente calde (senza la più pallida ombra di neve quindi ai suoi 200 metri di altezza).
A cominciare dal 1860 si manifestò infatti su tutte le Alpi quella che l’Abate Stoppani definì la “fine della piccola glaciazione” che negli ultimi trecento anni aveva caratterizzato il clima europeo, con conseguente rapido regresso dei ghiacciai alpini, con gravi ripercussioni sull’irrigazione e sull’approvvigionamento idrico per la popolazione.
Niente neve quindi a Primolano nel luglio 1866, parola d’Abate.
Oltre che la curatrice bisogna dire che — purtroppo — tutti coloro cui questa didascalia è passata sotto gli occhi nella preparazione della mostra, non si sono accorti della sua incongruenza, dimentichi di ciò che avevano appreso alle scuole medie.
E con questa beata innocenza è stata predisposta per il pubblico una mostra che vuole essere un punto di riferimento culturale per l’affermazione di Lecco!!
Con quali esiti il lettore potrà vedere qui sotto.
2. Criticità ed errori anche gravi negli strumenti per la promozione della mostra. ^
2.1 Denominazione anonima; indeterminata temporalmente; ricalco esatto di altri analoghi e recenti eventi. ^
Ancora mercoledì sera 24 ottobre 2018, a sei giorni dalla inaugurazione della mostra, in Lecco non era a disposizione del pubblico UNO – ripetiamo UNO – strumento informativo sui contenuti della stessa.
E ciò sia al Palazzo delle Paure (sede della mostra) sia negli altri centri di aggregazione culturale del Comune – Biblioteca Pozzoli, Galleria d’Arte di Villa Manzoni, Ufficio informazioni turistiche a Palazzo delle Paure.
Nelle zone centrali di Lecco (quelle di maggior passaggio e visibilità) non era rinvenibile neppure UN manifesto della mostra, l’unico annuncio pubblico essendo due pannelli posti sulle vetrate dell’ingresso a Palazzo delle Paure.
All’inaugurazione di venerdì 19 ottobre 2018 non era disponibile neppure il Catalogo della mostra. Richiesto, il personale ViDi Srl ha riferito essersi verificato un “inconveniente” (errori o altro); prevedersi la presenza del catalogo alla fine della settimana successiva.
E in effetti il Catalogo della mostra è giunto a Palazzo delle Paure solo nella mattinata di giovedì 25 ottobre.
Più sotto esprimiamo le nostre valutazioni sulle caratteristiche veramente curiose di questo strumento di informazione e indirizzo culturale approntato da ViDi Srl con l’assenso dell’Amministrazione comunale (immaginiamo che qualcuno legga prima della stampa i testi degli strumenti di promozione delle mostre patrocinate dal Comune).
Sempre solo giovedì 25 mattina è stato possibile per il pubblico disporre di piccoli (e quasi illeggibili) cartoncini informativi, anch’essi decisamente curiosi come vedremo più sotto.
La denominazione “Ottocento Lombardo”, senza altra specificazione, non trasferisce alcuna informazione.
E ciò, sia quando utilizzata all’interno di un testo sia quando appaiata all’immagine prescelta come simbolo della manifestazione.
a. All’interno di un testo, la denominazione “Ottocento Lombardo” non definisce affatto il proprio contenuto.
Qual è l’oggetto della mostra? Propone l’evoluzione della metallurgia nel XIX secolo? manifesti politici relativi all’adesione al Regno d’Italia? capi di abbigliamento femminile – o maschile? si illustrano elementi della composizione sociale delle campagne lombarde? le diverse tendenze religiose, anche in opposizione alla gerarchia vaticana?
b. Se abbinata all’immagine simbolo, la denominazione “Ottocento Lombardo” non acquista maggiore chiarezza.
Dato anche il titolo del quadro da cui è tratta – “Gioia mia” o “Bacio materno” – può fare intendere (anche ai pochissimi in grado di riconoscerne l’origine) trattarsi di una mostra sull’educazione infantile; sulla famiglia popolare; sul problema degli orfani, ecc. ecc.
c. Anonimato dell’immagine simbolo.
Da nessuna parte — siano comunicati reperibili sul Web; presentazione della curatrice; inviti diramati dal Sistema Museale per l’inaugurazione del 19 ottobre — è indicato né l’autore del quadro, né il suo titolo, reperibile solo in una didascalia nelle ultime pagine dello pseudo-catalogo).
Tantomeno si dice alcunché sulle ragioni della sua scelta.
Manca inoltre nell’immagine l’usuale indicazione della fonte, a segnalare anche che sono stati assolti tutti gli obblighi relativi al diritto di scatto fotografico.
d. La denominazione “Ottocento Lombardo” lascia campo libero perché il lettore/visitatore pensi che nell’evento sarà rappresentato tutto il secolo XIX.
La mostra invece ha come sua data di partenza il 1815, convenzionalmente inizio del Romanticismo. La cosa non è secondaria dal momento che i primi tre lustri dell’800 in Lombardia sono caratterizzati dal dominio francese e da risultati dell’espressione artistico-pittorica molto ricche sul piano documentale e tutte all’insegna del neo-classicismo.
e. “Ottocento Lombardo” è stato già il titolo di un’altra mostra di pittura.
In due edizioni (1993 e 1999) la “Quadreria dell’800“ di Milano (che su 81 complessive ha prestato ben 23 opere alla mostra di Lecco) ha organizzato due mostre dal medesimo titolo “Ottocento Lombardo”, contenente riproduzioni a colori e schede di 26 opere di autori, alcuni dei quali presenti nella mostra di Lecco (Induno – in copertina – Previati, ecc.), con schede di prestigiosi storici dell’arte come Fernando Mazzocca.
f. “Ottocento lombardo. Arti e decorazione” è il titolo di un libro, a cura dello stesso Fernando Mazzocca, edito nel 2006 dalla casa editrice Skira, la medesima che dovrebbe pubblicare il catalogo della mostra di Lecco (sono garantiti equivoci di ogni tipo).
Una domanda di merito. Perché è stata adottata questa denominazione? Perché è stata abbandonata la precedente che forniva una più chiara informazione?
Ricordiamo infatti che fino a poche settimane fa la denominazione ufficiale della mostra era «Ottocento Lombardo. Da Hayez a Segantini».
E così la mostra era stata presentata dai media locali, che hanno utilizzato la documentazione fornita da Comune e organizzatori fin dal giugno scorso: Newsletter del Sindaco di Lecco del 22 giugno 2018 / Villa Greppi / LakeComo / LeccoNotizie / InLombardia / ResegoneOnLine .
È evidente che la denominazione «Ottocento Lombardo. Da Hayez a Segantini» pur con i suoi limiti in mancanza di ulteriori specifiche, poteva almeno evocare il mondo dell’arte ottocentesca quanto meno a coloro – e purtroppo non sono molti – cui i nomi di “Hayez“ e “Segantini” dicono qualche cosa di definito.
Era inoltre abbastanza precisa quanto ai confini temporali suggerendo la data di inizio (1815, prime affermazioni di Hayez e, convenzionalmente, inizio del romanticismo in pittura) e la fine del secolo (1899, morte di Segantini).
2.2 Errori rilevanti su manifesti, pannelli e totem. ^
Oltre alla già segnalata genericità della denominazione, sugli strumenti “tradizionali” di comunicazione vi è un errore macroscopico.
Nel manifesto della mostra queste le uniche scritte sul grande formato cm 140×200:
Ottocento
Lombardo
Lecco
Palazzo delle Paure
20 Ottobre – 20 Gennaio.
Nonostante l’ampio spazio a disposizione mancano elementi fondamentali:
1. Manca l’anno di svolgimento (la dizione corretta è 20 Ottobre 2018 – 20 Gennaio 2019).
2. Mancano i giorni e gli orari di svolgimento.
3. Mancano l’indirizzo del Palazzo delle Paure in Lecco e i contatti telefonici o Web per guidare gli interessati.
4. Manca l’indicazione del prezzo del biglietto di ingresso.
5. Mancano inoltre gli elementi caratterizzanti della mostra. Non è citato neppure UNO dei nomi, anche ben noti, degli artisti presentati.
Dare informazioni al pubblico. Non è questa la funzione dei manifesti?
Tanto più nel presupposto che la promozione della mostra sia rivolta a lettori di altre città (almeno della Lombardia) perché si realizzi il desiderio/mantra del Sindaco Brivio «Ci piacerebbe che qualcuno venisse a Lecco per vedere mostre e non solamente per le bellezze naturali.»
2.3 Ambiguità nella grafica del logo. ^
Le due parole della denominazione “Ottocento” e “Lombardo” sono espresse graficamente in modo differenziato: “Lombardo” è in carattere più marcato di “Ottocento”.
Al lettore risulta non comprensibile quale sia il messaggio che si è voluto lanciare, rimarcando il lemma “Lombardo”.
Ciò apre inevitabilmente la strada a una folla di possibili interpretazioni, tra cui le più immediate: “Ottocento” ma “Lombardo”; “Ottocento” benché “Lombardo”; “Ottocento” veramente “Lombardo”.
Temiamo purtroppo che il doppio livello espressivo dei due lemmi non abbia alcun significato e sia solo un ritrovato del grafico a fini puramente ottici.
In spirito di solidarietà con i creativi di ViDi Srl, segnaliamo che — per pentimento o distrazione — sullo pseudo-catalogo questa distinzione grafica è stata eliminata, apparendo della medesima forza “Ottocento” e “Lombardo”.
2.4 Inadeguatezza nell’affissione dei manifesti. ^
Non siamo in grado di dire nulla circa le affissioni in Lecco ma per un zona importante di Milano sì!
Qui sotto riportiamo un esempio di come NON si dovrebbero fare le affissioni stradali.
Nel quartiere Bicocca di Milano, interessante per la forte presenta degli studenti dell’Università omonima e del Teatro degli Arcimboldi, sono stati affissi 14 manifesti con scadenza di affissione al 1 novembre 2018.
Si dirà: “molto bene!”. E invece bisogna dire: “molto male!”.
Tutti i 14 manifesti sono stati collocati lungo tragitti non battuti dai pedoni, perché del tutto al di fuori dei percorsi utili per i collegamenti tra l’Università e tram, autobus, stazione ferroviaria di Greco Pirelli, ecc.
2.5 Cartoncini informativi errati se non ingannevoli. ^
Abbiamo già detto che per sei giorni, la mostra si è svolta senza che fosse disponibile per i visitatori alcuno strumento informativo.
Solo nella mattinata di giovedì 25 ottobre è arrivato a Palazzo delle Paure lo pseudo-catalogo e un bel pacco di cartoncini illustrativi che meritano una osservazione particolare: sono infatti un raro coacervo di errori, tutti racchiusi in un piccolissimo spazio.
Come il lettore può vedere nell’immagine a lato, sul fronte del cartoncino (esattamente come per i manifesti) manca l’anno di svolgimento, da organizzatori e curatrice considerato evidentemente un innovativo approccio concettuale.
Non solo, manca anche il logo del Palazzo delle Paure presso cui si svolge la mostra (al suo posto è visionabile un bel rettangolino bianco): pensiamo che SiMUL non ne sarà contentissimo.
Così come manca (sostituito anche qui da un rettangolino bianco) il logo di TreNord, travel partner della mostra, i cui uffici Marketing e Stampa avranno certo da ridire.
Non solo, il logo del Comune, anziché essere posizionato sul fondo blu, è posto in un bel quadratino bianco: non sappiamo bene chi, ma qualcuno in Comune dovrebbe inquietarsi.
Sono certo banali errori tecnici. Il problema è che nessuno – né l’organizzatore ViDi Srl né l’Assessore Piazza – si è evidentemente preoccupato di controllare. E così al visitatore vengono dati scarti di stampa anziché informazioni.
Ma non è finita. Sul retro del cartoncino (il testo – piccolo, bianco su fondo blu scuro e con font aggraziato – è pressoché illeggibile) è riportata una frase che è stata poi eliminata da tutta la comunicazione per l’evento e che recita:
«Un’attenzione particolare è riservata all’iconografia manzoniana, assai diffusa in Italia per tutto l’Ottocento».
Vedremo più sotto che nella mostra non c’è assolutamente nulla di relativo alla iconografia manzoniana. Questa era evidentemente un’idea (sensata diciamo noi) che poi qualcuno ha preferito cestinare.
Il risultato è che così, il cartoncino, da informativo è diventato disinformativo. Anzi, quasi ingannevole.
3. ^Presenta la mostra uno pseudo-catalogo che di tale non ha neppure il nome
Come abbiamo visto, è stato disponibile al pubblico con sei giorni di ritardo (il che non è proprio il massimo per una mostra) un volume che viene venduto (Euro 29,00) come “catalogo” dell’esposizione ma che in realtà di catalogo non ha neppure il nome.
Vediamone i perché.
3.1 Copertina e frontespizio anonimi. ^
In copertina del libro venduto come catalogo compare solo la scritta «Ottocento Lombardo».
Mancano le date e la località di svolgimento (un vero ceffone alla città di Lecco e al suo Palazzo delle Paure, che si vorrebbe posizionare come polo espositivo d’arte a livello nazionale).
Manca qualsiasi riferimento a patrocinatori, promotori e organizzatori. Nell’immediatezza della copertina il volume è all’insegna dell’anonimato (condizione — riteniamo — per un suo uso indifferenziato, senza alcun legame con la città di Lecco e funzionale solo alle esigenze commerciali dell’editore).
È del pari anonimo il “frontespizio” (pagina 3) dove compare solo la dicitura “Ottocento Lombardo | a cura di Simona Bartolena” e il logo dell’editore Skira.
Solo a 4 e 5 compaiono finalmente gli elementi strutturali dell’evento, che suggeriamo di visionare con attenzione (ingrandisci l’immagine a lato) perché chiari indizi della volontà di organizzatori e curatrice di minimizzare fino alla irrilevanza qualsiasi riferimento del libro alla funzione di “Catalogo della mostra”.
Compare infatti, ma in piccolo — e solo qui in tutte le 112 pagine del libro — la dicitura:
“Lecco, Palazzo delle Paure | 20 ottobre 2018 – 20 gennaio 2019.”
Poi (ma con il carattere microscopico delle clausole trabocchetto delle polizze assicurative): “Comune di Lecco” con i nomi di Sindaco; Assessore alla Cultura; Dirigente Area 4; Direttrice e Direttore di Servizio di SiMUL (nulla però si dice del loro ruolo nell’evento). Naturalmente, i nomi di nove dirigenti e funzionari di ViDi Srl.
Il primo e unico riferimento al fatto che in qualche modo il libro è collegato a un evento espositivo è una frasina, anch’essa in caratteri microscopici: «Mostra a cura di Simona Bartolena», che è l’unica a ringraziare musei, enti pubblici, e che relega Comune di Lecco, Palazzo delle Paure, SiMUL a mere appendici formali o logistiche di un evento in cui come soggetti attivi vengono evidenziati solo l’organizzatore ViDi Srl e la curatrice Simona Bartolena.
3.2 Presentazioni del Sindaco Brivio e dell’Assessore Piazza programmaticamente corrette ma disattese da organizzatori e curatrice. ^
Finalmente (pag. 6) il lettore trova qualche parola sulla mostra, a firma del Sindaco Brivio e dell’Assessore Piazza. Ne riportiamo qualche brano perché a loro modo i due Amministratori sono abbastanza precisi:
«Con l’arrivo dell’autunno Palazzo delle Paure apre le porte alla grande pittura. L’Assessorato alla Cultura, in collaborazione con ViDi, ha ideato una mostra che ha voluto fortemente legata al territorio: per questo presenta un percorso di approfondimento sull’Ottocento lombardo, di cui importanti testimonianze sono custodite nelle collezioni permanenti dei nostri Musei.
Un’opportunità per raccontare al grande pubblico una parte della ricchezza culturale della nostra città, non solo artistica ma anche letteraria.
All’interno del percorso espositivo è presente un omaggio ad Alessandro Manzoni, dal quale parte l’esposizione che racconta l’Ottocento con tutte le sue declinazioni artistiche, dal romanticismo alla scapigliatura, dal naturalismo al divisionismo. […]»
I brani da ricordare sono:
«L’Assessorato alla Cultura, in collaborazione con ViDi, ha ideato una mostra che ha voluto fortemente legata al territorio»
e
«di cui importanti testimonianze sono custodite nelle collezioni permanenti dei nostri Musei.»
Sono espressioni precise e programmatiche, le cui implicazioni il visitatore della mostra si aspetta di trovare nelle cinque sale dell’esposizione nonché nel libro che (ma solo dopo sei giorni dall’inaugurazione) ha sotto gli occhi.
Come promesso nei comunicati stampa che hanno preceduto la mostra; come ripetuto nel cartoncino ingannevole di cui abbiamo detto sopra; come ribadito da Brivio e Piazza nella loro Presentazione appena riportata, il visitatore si aspetta di trovare in mostra una ricca “iconografia manzoniana” che illustri il ruolo importantissimo svolto dal figlio più noto della città di Lecco anche nel campo della rappresentazione figurativa.
Ma nulla di ciò il visitatore trova nella mostra “Ottocento Lombardo”.
E allora, che si deve intendere dalle parole di Brivio e Piazza?
Forse essi pensano che, essendo la mostra dedicata all’Ottocento lombardo, ne dovrebbe scaturire un riflesso positivo sul sistema museale lecchese che ha un ricco patrimonio di opere riferite a quel periodo? Potrebbe essere un’idea non così peregrina.
Peccato che nella mostra non si faccia invece alcun riferimento a questo patrimonio; che nel saggio della curatrice mai si citano i Musei di Lecco; che nella stessa mostra su 81 opere esposte siano presenti DUE SOLI quadri provenienti dai Musei di Lecco (uno dei quali – il Segantini – è un prestito solo temporaneo).
Chiediamo con vera curiosità agli organizzatori e alla curatrice di spiegare a noi e a tutti i visitatori paganti, in che modo — nei fatti, non in fumose dichiarazioni — questa mostra “consentirà di valorizzare il patrimonio artistico dell’Ottocento presente nel territorio lecchese”, come indicato da Sindaco e Assessore alla Cultura.
3.3 Presentazione dell’organizzatore ViDi Srl che ignora il Comune di Lecco, suo partner e committente. ^
Ma andiamo avanti e portiamoci alla pagina 7 del “catalogo”: qui appare ben visibile la nessuna considerazione della società ViDi Srl per l’Amministrazione della città.
Dalla pagina 7 (a destra, quella riservata alla maggiore attenzione), il Presidente di ViDi Srl si guarda bene di dire una sola parola sulla collaborazione con il Comune di Lecco, che consente alla sua società privata di lavorare sul territorio lecchese, fruendo di un prestigioso teatro operativo.
No! Nella sua presentazione Rossi cita esclusivamente la curatrice, dimenticando di riferirsi alla città di Lecco anche una sola volta:
«La mostra sull’Ottocento lombardo curata da Simona Bartolena, con la collaborazione di ViDi, apre la stagione espositiva autunnale del Palazzo delle Paure.»
In compenso, senza dire UNA parola sulla tradizione culturale di Lecco, trova modo di dedicare 106 delle 441 parole della sua presentazione (1/4 del testo) alla bionda signora Segantini.
Vale la pena di citare il brano perché ci pare una perla nello storico delle presentazioni istituzionali di una mostra:
«Non può mancare, infine, un tributo ai divisionisti e, in particolare, a Giovanni Segantini famoso per i suoi paesaggi montani dell’Engadina, dove si trasferì negli ultimi anni della sua vita con la moglie Luigia Bugatti, detta Bice. Già appartenente a una famiglia simbolo della creatività e del gusto italiano nel mondo, Bice rivelò una forza straordinaria, rimanendo accanto al marito e, al tempo stesso, viaggiando per l’Europa con un’indipendenza insolita per una donna dei suoi tempi. A ricordarla nella presente mostra è la famosissima opera di Segantini “La falconiera”, per la quale Bice posò come modella, con i suoi lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri.»
Prima di passare oltre, un suggerimento agli esperti di comunicazione di ViDi Srl: occhio agli spazi tra le parole. Nella paginetta di presentazione del vostro presidente vi sono ben quattro errori di composizione, uno dei quali proprio nella firma.
Finalmente, a partire da pagina 10 fino a pagina 31, abbiamo due saggi storico-critici che entrano finalmente nel merito della mostra ma con singolari particolarità.
4. Nei saggi storico-critici della mostra (22 pagine, 13.000 parole) ZERO riferimenti a Lecco e al territorio; solo vaghi cenni a Manzoni. ^
Il primo saggio a firma Simona Bartolena è titolato: «Da Hayez a Segantini. La pittura lombarda tra accademia e naturalismo, conformismo e ribellione.» (pag. 10-27).
Il secondo saggio, a firma Susanna Zatti reca: «La rivoluzione democratica del paesaggio.» (pag. 28-31).
Dal momento che in nessun documento relativo a questa mostra si dice chi sia Susanna Zatti, continuando nel ruolo di supplenti a organizzatori e curatori, ne diciamo qualcosa noi. Susanna Zatti è stata per più di trent’anni Direttrice dei Musei Civici di Pavia; dimissionaria dal 2017, continua a dare il proprio contributo alle mostre d’arte (abbiamo già ricordato sopra della sua partecipazione alla mostra “Romanticismo” che si svolge a Milano in contemporanea alla mostra di Lecco).
Ciò detto per un minimo di ordine mentale, passiamo ai due commenti storico-critici.
Il lettore abbia consapevolezza che (salvo alcune considerazioni circa il dipinto “La monaca” di Hayez e poco altro) nostro intento in quanto segue è solo di verificare SE e COME nelle ventidue pagine dei saggi critici, si dà risposta o meno al postulato della mostra, espresso dall’Assessore Piazza:
«Inauguriamo la prima mostra di pittura promossa da ViDi a Lecco, un’esposizione fortemente voluta perché legata al nostro territorio, tanto che, alcune delle opere esposte sono custodite nelle collezioni permanenti dei nostri musei.
Diventa così la mostra anche un’opportunità di raccontare al grande pubblico una parte della ricchezza culturale della nostra città, sia artistica, sia letteraria.»
Nonostante le sconsiderate scelte della Giunta comunale (nel 2014, sempre a guida Brivio, cambiò la denominazione dell’annuale “rassegna manzoniana” da “Lecco, città di Manzoni” in “Lecco, città dei Promessi Sposi”), ogni persona con un minimo di cultura o semplicemente di esperienza di vita, quando sente parlare di Lecco, pensa immediatamente a “I Promessi Sposi” ma anche a Manzoni.
Il lettore dello pseudo-catalogo dedicato alla mostra lecchese “Ottocento Lombardo” si aspetterebbe quindi di trovare nei saggi di commento di Bartolena e Zatti espliciti riferimenti al grande scrittore e alla sua città.
Purtroppo non è così.
4.1 Citazioni del lemma “ Lecco ” = ZERO / delle sue aggettivazioni “ lecchese / i ” = UNA. ^
Diciamo subito che nelle diciotto pagine del saggio di Bartolena e nelle quattro del saggio di Zatti, il nome di “Lecco” non compare neppure UNA volta.
È veramente curioso. Noi sappiamo infatti che Bartolena e Zatti sono due esperte delle esperienze artistiche del nostro Ottocento e due competenti storiche dell’arte: non possono ignorare il ruolo di Lecco nella cultura lombarda dell’Ottocento.
Dobbiamo quindi pensare a una scelta consapevole e condotta con coerenza: tesa a minimizzare il legame necessitante tra Lecco e Manzoni, sulla scia di altri straordinari “travisamenti manzoniani” (per approfondimenti vedi i nostri «A. Manzoni, milanese d’Europa» del Centro Nazionale Studi Manzoniani e «Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi» di Alberto Angela).
Ma torniamo ai due saggi dello pseudo-catalogo.
Per l’aggettivo “lecchese/i” le cose sono andate un po’ meglio: nei due saggi compare UNA volta. Evviva!
Purtroppo la citazione è insignificante (pag. 16):
«Tra i principali responsabili della riscoperta delle campagne lombarde vi è senza dubbio Alessandro Manzoni che nelle pagine dei Promessi sposi [sic!] descrive sovente, con passi di straordinaria poesia, la bellezza del territorio, su tutti quello del lecchese.»
4.2 Citazioni de “I Promessi Sposi” = TRE ^
Nella citazione appena riportata possiamo rinvenire anche il primo dei tre richiami a quello che Bartolena si ostina a definire “ i Promessi sposi ” (il titolo corretto del romanzo è ostico a tanti).
Il secondo è questo (pag. 18):
«Protagonista è l’uomo qualunque, alle prese con le difficoltà esistenziali del presente. In una linea che si dipana dalle pagine dei Promessi sposi [sic!] di Manzoni alle tele dei fratelli Induno, l’interesse per la vita quotidiana, in particolare delle classi meno abbienti, raccontata con la precisione ottica dei fiamminghi e una vena narrativa moderna e consapevole, trionfa sugli eroi romantici di appannaggio accademico.»
E questo è il terzo (pag. 31):
«[d’Azeglio] associava a un paesaggio artificiale elementi di generi diversi — soldati, battaglie, navi — intessendo un suo racconto con personaggi di paladini, crociati e cavalieri tratti dall’inesauribile repertorio di episodi storici e dei poemi cavallereschi, dalle saghe medievali, alle fantasiose vicende dell’Orlando Furioso, ai Promessi sposi [sic!].»
Per essere il testo di una mostra che si è inaugurata a “Lecco, Città dei Promessi Sposi” nel mezzo dell’annuale rassegna manzoniana, c’è veramente di che stupirsi.
4.3 Massimo d’Azeglio e Alessandro Manzoni presentati solo come genero e suocero. ^
È curioso che nelle oltre 13.000 parole delle due presentazioni dello pseudo-catalogo, del rapporto tra d’Azeglio e Manzoni si dice solo che ne aveva sposato la figlia, ignorando che d’Azeglio ebbe un costante rapporto artistico con Manzoni (nel 1860 strettissimo anche sul piano politico — per approfondimenti vedi la nostra nota).
Comunque sia, anche volendo mantenersi su questa linea solo “famigliare”, nei loro saggi Bartolena e Zatti avrebbero potuto almeno citare il notissimo dipinto di d’Azeglio (conservato con cura e orgoglio dal Museo Morando di Milano) che raffigura Villa Manzoni a Brusuglio, negli anni del matrimonio di d’Azeglio con Giulietta Manzoni.
Fa però veramente specie che nei due saggi dello pseudo-catalogo nulla si dice sul rapporto artistico che legò i due uomini.
In primo luogo si poteva ricordare che Manzoni (prima della pubblicazione, 1833) passò al pettine il romanzo di d’Azeglio “Ettore Fieramosca”, scritto dall’artista piemontese a sviluppo dei concetti già rappresentati nel dipinto “La disfida di Barletta” con intenti scopertamente patriottici.
È anzi probabile che la parte finale dell’ “Ettore Fieramosca” sia in buona misura di mano di Manzoni.
Non a caso d’Azeglio dedicò il libro alla moglie Giulietta: prima come “figlia di Alessandro Manzoni”, poi come “delle cose patrie studiosa cultrice” (era ben nota la spiccata sensibilità di d’Azeglio per la pubblicità).
Dal momento che il dipinto del medesimo soggetto è esposto nella mostra perché non almeno accennarne anche per riflessioni sui rapporti letteratura-arti figurative?
È anche curioso osservare come, nel saggio di Bartolena, “I Promessi Sposi” sono associati al nome di d’Azeglio solo come una delle tante fonti di ispirazione dell’artista, accanto all’Orlando furioso, alle saghe medievali, ecc.
La cosa stupisce. D’Azeglio infatti collaborò con Manzoni/Gonin per dare il suo contributo all’edizione illustrata de “I Promessi Sposi” (la Quarantana).
Nel quadro di questo impegno d’Azeglio non solo dipinse un “Rapimento di Lucia” (circa 1840) di non malvagia fattura e comunque caratteristico per il taglio fortemente descrittivo ma soprattutto realizzò tre delle illustrazioni del romanzo, con esiti decisamente buoni.
Qui sotto le riproduciamo per la memoria del lettore e delle due storiche dell’arte Bartolena e Zatti.
Una di queste illustrazioni è da tenere a mente. Infatti, delle sedici illustrazioni del romanzo dedicate al “paesaggio”, è l’unica in cui la natura è rappresentata come protagonista assoluto, al contrario delle altre quindici nelle quali natura e paesaggio fanno da sfondo sintonico all’azione e ai sentimenti dell’uomo.
Ma torniamo alla lettura dei due saggi storico-critici.
Abbiamo già visto quale fine hanno fatto, nei contributi di Bartolena e Zatti, i lemmi “Lecco” (ZERO citazioni), “lecchese” (2 citazioni), Promessi Sposi (3 citazioni).
È ora il momento di passare al lemma “Manzoni” e alle sue aggettivazioni “manzoniano / a / i / e”.
4.4 Citazioni di “Manzoni” = SEI, ma tutte accessorie e incidentali. ^
Per il nostro scrittore, figlio prediletto e autorevole padre della città di Lecco, le due curatrici hanno voluto impegnarsi.
Il nome di Manzoni e la sua aggettivazione compaiono infatti sei volte!
Ma perché i lecchesi manzonisti / manzoniani non si montino la testa, è opportuno dare un’occhiata a queste citazioni perché — purtroppo — anch’esse sono solo accessorie o incidentali.
1. (pag. 12 – incidentale: Manzoni è citato solo come uno dei grandi scrittori europei che da secoli forniscono spunti agli artisti).
«Hayez contrappone a quella classica una mitologia pienamente romantica, nella quale sono protagonisti personaggi ed episodi tratti dalla letteratura da Shakespeare a Byron, a Walter Scott, a Manzoni —, inserendosi in un dibattito culturale di respiro europeo, con un repertorio iconografico che passerà di moda solo quando l’avvento del realismo ne dichiarerà il superamento.»
2. (pag. 14 – incidentale: la citazione è riferita a due ritratti di Manzoni, realizzati da Hayez e Molteni/d’Azeglio).
«Per comprendere le profonde differenze tra le due interpretazioni basterebbe forse il confronto tra i loro ritratti di Alessandro Manzoni: umanissimo e inquieto quello di Hayez (fig. 4), icona romantica perfettamente in linea con il gusto dell’epoca quello di Molteni (fig. 5).»
3. (pag. 14 — irrilevante: la citazione è vaga e indeterminata).
«In questa direzione profondamente innovativa, Canella si dedicherà presto al paesaggio di campagna, allontanandosi dal genere limitato e ormai in buona parte superato della veduta urbana per cercare scenari di ampio respiro, vicini alle suggestioni atmosferiche suggerite da Manzoni nelle sue pagine.»
4. (pag. 15 — incidentale: citato come suocero di d’Azeglio).
«[d’Azeglio] nel 1831 si trasferisce a Milano, dove frequenta la cerchia di Alessandro Manzoni, del quale sposerà la primogenita Giulia.»
5. (pag. 18 — irrilevante: la citazione è vaga e indeterminata).
«Protagonista è l’uomo qualunque, alle prese con le difficoltà esistenziali del presente. In una linea che si dipana dalle pagine dei Promessi sposi [sic!] di Manzoni alle tele dei fratelli Induno […].»
6. (pag. 24 — irrilevante: la citazione è vaga e indeterminata).
«Sulla scorta degli esempi di Gozzi e Canella, artisti come il già citato Gignous, Gola, Calvi e Poma costruiscono la loro ricerca esercitandosi nelle campagne briantee e sulle sponde dei laghi lombardi, su tutti il lago di Como, specialmente nei suoi aspetti di manzoniana memoria.»
Mentre chiunque può constatare, le citazioni da 1 a 6 sopra riportate non necessitano di alcun commento: sono tutte insignificanti o lontane da un qualsiasi discorso strutturato su Manzoni e il suo ruolo nella vicenda artistica lombarda dell’Ottocento.
7. Richiamiamo però l’attenzione su un’ultima citazione dal saggio di Bartolena in quanto è l’unica in cui, seppure di sfuggita, si dà una valutazione sull’approccio di Manzoni alla descrizione del paesaggio (il medesimo testo viene riportato anche in uno dei due pannelli della mostra in cui si parla di Manzoni):
(pag. 17) «Tra i principali responsabili della riscoperta delle campagne lombarde vi è senza dubbio Alessandro Manzoni che nelle pagine dei Promessi sposi [sic!] descrive sovente, con passi di straordinaria poesia, la bellezza del territorio, su tutti quello del lecchese. Non è un caso che uno dei soggetti più apprezzati nella pittura di paesaggio di questa stagione sia il villaggio di Pescarenico, che i pittori ritraggono nel suo aspetto reale, contrapponendo spesso un piglio verista alla trasfigurazione letteraria operata dal Manzoni. [prendete nota di quest’ultima frase]»
Purtroppo la valutazione qui espressa è fuorviante e richiede quindi qualche considerazione.
Rileggiamo la frase:
«[…] Non è un caso che uno dei soggetti più apprezzati nella pittura di paesaggio di questa stagione sia il villaggio di Pescarenico, che i pittori ritraggono nel suo aspetto reale, contrapponendo spesso un piglio verista alla trasfigurazione letteraria operata dal Manzoni.»
Quindi, secondo Bartolena, Manzoni opera del paesaggio di Pescarenico una “trasfigurazione letteraria”, cui si contrapporrebbe un “verismo” dei pittori (che Bartolena passa poi ad analizzare: Marco Gozzi, Cherubino Cornienti, Pasquale Massacra, Giacomo Trécourt).
Ma questa contrapposizione esiste? e se sì, le cose non stanno proprio al contrario?
Non è che il “verista” sia Manzoni e i “trasfiguratori” siano i pittori?
Leggiamo la descrizione che di Pescarenico fa Manzoni (“I Promessi Sposi”, Redaelli 1840 (Cap. IV – pag. 65-66):
«Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo.
Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendii, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano.»
Domandiamo a Bartolena: dove sta in questa descrizione la “trasfigurazione” letteraria?
Qui Manzoni è di una assoluta adesione al “reale”; non vi è il più piccolo fronzolo; anzi vi è l’asciuttezza dell’abitante del posto che dà l’indicazione a un forestiero: deve andare al convento di Pescarenico? guardi, è proprio lì, in quella direzione; dopo il ponte trova un gruppetto di case con delle reti tese ad asciugare; proprio lì, sulla strada che va a Bergamo, c’è il convento.
E nel brano successivo, dove è la trasfigurazione letteraria? C’è una descrizione dell’ambiente naturale che prende qualunque lettore perché esprime con una precisione assoluta le sensazioni visive che ognuno di noi può avere appena vada in qualsiasi campagna lombarda d’autunno: le foglie cadenti del gelso; la terra lavorata di fresco, le foglie rosseggianti della vite; la guazza del mattino.
Tutto qui? Nossignore! In mezzo a questa bella natura, Manzoni mostra l’uomo che soffre e che intristisce il pensiero.
Ecco! Nel rappresentare Pescarenico, questi uomini laceri e macilenti, gli artisti “veristi” di cui parla Bartolena non ce li hanno quasi mai fatti vedere. E allora chi è il “verista” e chi sono i “trasfiguratori”?
In realtà in Manzoni, salvo la primissima descrizione topografico-geologica del territorio lecchese, il paesaggio, la natura è sempre sfondo dell’azione degli uomini.
Bisogna dire che, in questo, ben raramente quei pittori, che pure presero spunto dall’opera di Manzoni, seppero / vollero fare proprio lo sguardo del poeta e insieme dell’uomo di pensiero, limitandosi a rappresentare la esteriorità del paesaggio, ignorando (salvo rare eccezioni) il posto centrale dell’uomo nella natura che da Manzoni è sempre rivendicato con determinazione.
Questo aspetto del contributo di Manzoni alla visione artistica non è minimamente toccato da Bartolena o Zatti. Che infatti, nelle loro riflessioni, giungono fino a dimenticare i tanti rapporti che nella vita reale dell’Ottocento lombardo hanno legato una parte dei pittori (che pure sono esposti nella mostra di Lecco) proprio al Manzoni e al territorio lariano, alcuni anche in modo molto diretto.
5. Ignorati nei saggi di Bartolena e Zatti (e nei pannelli nelle sale espositive) i rapporti tra gli artisti in mostra e Lecco; solo vaghi quelli con Manzoni e le altre figure di spicco della città e del territorio. ^
Abbiamo già detto di come Bartolena-Zatti hanno ignorato i molteplici legami tra d’Azeglio e Manzoni, limitandosi a ricordare la loro parentela.
Ma queste censure / amnesie nei confronti di Manzoni e Lecco valgono anche per diversi artisti le cui opere sono presenti nella mostra “Ottocento Lombardo”.
Di seguito, di queste amnesie diamo tredici esempi, emersi da memoria di fatti notissimi o in base a semplici ricerche alla portata di tutti.
Le due storiche dell’arte Bartolena e Zatti, certo meglio attrezzate per una ricerca più strutturata, ne avrebbero individuati sicuramente molti di più e con maggiori elementi di interesse per Lecco.
5.1 Hayez / “Il Conte di Carmagnola” e il Manzoni cancellato. ^
Bartolena ne ha scritto…
(pag. 13): «A Milano i dipinti di Hayez trovavano terreno fertile anche grazie ai fermenti patriottici che si andavano rapidamente diffondendo. Opere quali il Pietro Rossi (e i successivi Conte di Carmagnola e Vespri siciliani) parlavano al cuore di quegli italiani che con sempre maggior convinzione tessevano le prime trame libertarie e unitarie.»
Bartolena poi cita interessanti brani di Mazzini a commento del “Pietro Rossi”.
Perché non dire anche che …
A parte l’uso decisamente improprio di “libertarie” (usato così il termine sembra indicare in Manzoni, Confalonieri, Pellico, e nei tanti loro compagni di lotta per l’indipendenza nazionale, pulsioni da Internazionale anarchica — in realtà, sul piano sociale, erano tutti dei conservatori, anche moderati), dobbiamo rilevare che Bartolena nulla dice sul fatto che il “Conte di Carmagnola” è la prima tragedia scritta da Manzoni e che, proprio a partire da quella sua opera, a Milano, in Lombardia e in tutta Europa lo spregiudicato e abile condottiero del nostro ’400 divenne spunto per il dibattito patriottico.
Manzoni cominciò a lavorare alla tragedia “Il Conte di Carmagnola” nel gennaio 1816, quando ancora con la famiglia abitava frequentemente a Villa Manzoni al Caleotto di Lecco.
Ne continuò la stesura (con la collaborazione di Ermes Visconti) quando la polizia austriaca aveva già imposto la chiusura de “Il Conciliatore”; la pubblicò nel gennaio del 1820 per i tipi di Vincenzo Ferrario, l’unico stampatore che si prendesse l’incarico con tutte le relative possibili conseguenze.
La tragedia fu molto lodata da figure di gran peso (come Goethe, che ne fece subito una entusiastica recensione) e soprattutto apprezzata da tutto l’ambiente patriottico milanese per i suoi contenuti.
Spinto anche da questo apprezzamento generalizzato, il giovane Hayez (appena giunto a Milano), su incarico di Arese, ne fece il soggetto di un grande quadro (andato perduto – a fianco ne mostriamo uno studio preparatorio in acquerello) che, esposto a Milano nell’agosto del 1820, riscosse un grande successo e posizionò Hayez sul podio, tra i primi pittori della nuova maniera.
Il quadro aveva un titolo lungo e preciso: «Il Conte di Carmagnola mentre sta per essere condotto al supplizio, raccomanda la sua famiglia all’amico Gonzaga, ultima scena della tragedia di Alessandro Manzoni».
Manzoni ne fu entusiasta; donò ad Hayez una copia della sua nuova tragedia appena uscita — l”Adelchi — con dedica in versi, tacitamente invitando il pittore a cimentarsi in una nuova opera che avesse come protagonista lo sfortunato principe longobardo. Hayez non raccolse l’invito ma tra i due si avviò un’amicizia di mutua ammirazione, interrotta solo dalla morte di Manzoni.
Come si vede, a partire da “Il Conte di Carmagnola” si potevano dire molte cose, tutte interessanti sia per la storia dell’arte dell’Ottocento lombardo sia per la “cultura anche letteraria” di Manzoni/Lecco di cui giustamente l’Assessore Piazza parla.
Domanda secca: perché Bartolena, parlando di Hayez e del suo “Il Conte di Carmagnola” tace su questo insieme di elementi, così importanti per comprendere anche i legami tra Hayez e Alessandro Manzoni?
Ma per i rapporti dei rapporti tra Hayez e Manzoni si poteva pur dire qualche cosa anche su altri aspetti.
Per esempio, il ritratto dell’Abate Antonio Rosmini che Hayez realizzò verso il 1853 su iniziativa di Stefano Stampa, meriterebbe almeno una citazione. Sia per il patto intellettuale e l’amicizia che legò Rosmini a Manzoni per oltre trent’anni (fino alla morte di Rosmini, 1855). Sia per l’evidente e voluta specularità delle due opere. Sia per le circostanze in cui venne realizzato il dipinto.
Hayez ci ha lasciato un vivo ricordo di quel ritratto (“Le mie memorie dettate da Francesco Hayez”, Milano, 1890, pag. 91):
«Fra i mecenati più benemeriti dell’arte, noterò il conte Stampa, figliastro di Manzoni, il quale […] desiderò ch’io dipingessi i ritratti del Manzoni […], del Rosmini […], il che feci con grandissima soddisfazione nella villa di Lesa.
Furono tra i più bei giorni della mia vita quelli che passai in quel delizioso luogo, dove alla bellezza della natura, si accoppiava sì amena compagnia. Mentre posava il Rosmini, a tenerlo animato, il Manzoni gli raccontava con spiritosa semplicità certe barzellette assai divertenti. Quanta modestia insieme a tanto sapere!»
La “villa di Lesa” era naturalmente quella di Teresa Borri (la seconda moglie di Manzoni) da dove il poeta poteva con facilità incontrarsi con Rosmini, che viveva invece a Stresa, a poca distanza.
Ma c’è anche altro. Per esempio la prova che nel 1839 Manzoni e Hayez fecero per vedere se la personalità dell’artista poteva soddisfare le esigenze di Manzoni che stava lavorando all’edizione illustrata de “I Promessi Sposi”.
Hayez ci provò, produsse qualche schizzo e anche qualche figura finita (li mostriamo qui sotto). Ma il risultato non soddisfece né Manzoni né lo stesso Hayez. Da buoni amici, decisero senza problemi di non farne nulla e Manzoni si orientò su Gonin.
Ciò non toglie che nel 1845 Hayez eseguisse (su incarico di Stefano Stampa) l’efficace ritratto de “L’Innominato”, tracciato con una fedeltà assoluta rispetto alla descrizione fattane da Manzoni nel romanzo (quasi un amichevole ricordo della non felice esperienza delle illustrazioni).
Non sono questi elementi che possono mettere insieme la storia dell’arte, la letteratura e anche le vicende degli uomini e le loro relazioni?
5.2 Hayez / “La monaca”, un abbaglio critico. ^
Abbiamo visto come sul rapporto Hayez/Manzoni in relazione al Carmagnola, Bartolena non ha scritto nulla. Ma almeno – benché UNA volta sola – ha scritto la parola “Carmagnola”.
Per quanto riguarda invece un altro quadro di Hayez presente in mostra (“La monaca”), c’è un piccolo mistero.
Il dipinto presentato da Bartolena come “La monaca” di Hayez è stato infatti sbandierato nella conferenza di inaugurazione della mostra come una delle due opere con cui “Ottocento Lombardo” rendeva “Omaggio a Manzoni”. È un bell’onore, sia per Hayez sia per Manzoni!
Ma la cosa curiosa è che nel suo saggio Bartolena non solo non ha scritto proprio NULLA sul quadro di Hayez da lei presentato come “La monaca” ma nelle sue 10.700 parole non cita mai neppure il semplice lemma “monaca”, Hayez o non Hayez.
Qualche cosa sul suo pensiero in proposito si trova: a) nel pannello “Omaggio a Manzoni” posto all’inizio dell’esposizione; b) nel cartellino posto accanto al dipinto.
Nello pseudo-catalogo la riproduzione del dipinto è presente nella sezione “Opere” (pag. 34), ma esclusivamente con la essenziale didascalia: «Francesco Hayez / La monaca / Olio su tela, 54×40,5 cm / Collezione privata».
È curioso no? Come se il saggio di Bartolena fosse stato scritto a prescindere dall’intero universo concettuale legato in un modo o nell’altro alla realtà della monacazione.
Chi potrà seguire la mostra solo attraverso lo pseudo-catalogo (o semplicemente già dal giorno successivo il 20 gennaio 2019, ultimo della mostra, quando non saranno più disponibili né pannelli né cartellini) non saprà quindi mai cosa pensasse Bartolena (e l’Amministrazione comunale di Lecco) di questo quadro e – a spiegazione di questo silenzio – si farà l’idea che in corso d’opera vi deve essere stato qualche buco nel coordinamento tra l’Assessore alla Cultura Piazza, la curatrice Bartolena, l’organizzatore ViDi Srl, l’editore Skira, ecc. ecc. (sarebbe certo divertente conoscere i retroscena).
Nonostante questa bizzarria, dal momento che il dipinto di Hayez non è un sogno ma risulta ben appeso sulle pareti di Palazzo delle Paure (forse col martelletto di Bartolena, come essa stessa ha rivelato), e nella conferenza di inaugurazione della mostra è stato presentato con parole quasi commosse come parte importante dell’ “Omaggio a Manzoni”, è opportuno dirne qualche cosa.
Dal pannello “Omaggio a Manzoni”.
Bartolena ne ha scritto…
«Accanto al Ritratto di Manzoni firmato da Giuseppe Molteni è esposta la splendida versione di Francesco Hayez della Monaca di Monza, soggetto apprezzatissimo dai pittori del tempo. La sventurata Monaca, grazie alla sua breve comparsa tra le righe dei Promessi Sposi [sic!], conoscerà una fortuna iconografica ricchissima, che ne metterà in evidenza ora il suo ruolo di vittima, ora quello di carnefice e peccatrice, trovando assai raramente il giusto equilibrio tra i due volti di un personaggio talmente complesso da aver messo in difficoltà anche la penna consumata di uno scrittore come Manzoni.»
Questo brano è interessante.
Da un lato perché l’inciso «breve comparsa tra le righe del romanzo» denota in Bartolena una visione critica decisamente originale. Con 14.000 parole sulle 217.000 dell’intero romanzo — 6,5% del testo complessivo — l’episodio della Signora di Monza è infatti ne “I Promessi Sposi” il più lungo “quadro” di approfondimento, che Manzoni ritenne opportuno mantenere nonostante le critiche che gli erano state rivolte, anche da Goethe.
Dall’altro perché espone con precisione l’idea secondo cui l’interesse degli artisti italiani fosse rivolto proprio alla “Monaca di Monza” di Manzoni, predisponendo il lettore ad accogliere l’ipotesi che anche il dipinto di Hayez sia una “versione” della famosa Monaca di Monza de “I Promessi Sposi”. Anche il lettore meno smaliziato comprende quanto “valore aggiunto” ciò dia al dipinto di Hayez — che infatti nella mostra di Lecco viene enfaticamente presentato come “Omaggio a Manzoni”.
Ma siamo certi che sia così? In proposito, su quali elementi di fatto possiamo contare?
Purtroppo in questa mostra lo pseudo-catalogo a cura di Bartolena non assolve per nulla a una delle funzioni di un vero catalogo espositivo, ossia offrire al visitatore/lettore una serie di elementi scientificamente fondati sulla fisionomia dei dipinti esposti, la loro storia, la relativa bibliografia, gli elementi storici che sono alle loro spalle, ecc. ecc.
Sotto questo profilo, un esempio positivo è il libro-catalogo della mostra “Hayez nella Milano di Manzoni e Verdi”, Milano, aprile 2011, curato da Fernando Mazzocca, dove a ogni opera è dedicata una lunga e completa informazione storico-critica.
Per la mostra “Ottocento Lombardo” di Lecco, invece, curatrice, organizzatori e Assessore alla cultura hanno deciso che lo pseudo-catalogo deve limitarsi a riportare l’immagine del dipinto (tra l’altro con una mediocre resa cromatica) accompagnata da non più di trenta parole comprendenti autore, titolo, data, tecnica, dimensione, proprietà. A nessuna delle 81 opere esposte è dedicata neppure UNA RIGA di commento storico-critico. Per questo abbiamo deciso di chiamarlo pseudo-catalogo, recriminando di averlo pagato Euro 29,00 — non li vale per nulla.
Sullo pseudo-catalogo quindi Bartolena non ci dice in base a quali elementi ritiene di potere attribuire al dipinto di Hayez raffigurante una monaca seduta il titolo “La monaca” (che richiama ovviamente la “monaca“ per eccellenza, quella di Manzoni), senza neppure avanzare un’ipotesi di data e un minimo di ricerca — dovrebbe essere il suo mestiere, o no?
Il visitatore pagante deve cioè “fidarsi sulla parola” della curatrice ma senza aver alcun riscontro critico. Spiace di dover dire che nelle mostre serie le cose non vanno così!
In mancanza di prove dirette che autorizzino a pensare che fosse nelle intenzioni di Hayez rappresentare con quel ritratto la famosa “Signora” del Manzoni è quindi inevitabile porsi alcune domande. Per esempio, nell’Ottocento qual era l’atteggiamento dei pittori nei confronti del “soggetto monaca”?
Più sopra Bartolena ci ha spiegato che i pittori erano molto interessati proprio alla monaca di Monza (rileggete il brano).
Ci è venuta però l’idea di verificare se e quanto questa narrazione di Bartolena colga la realtà storica; ossia se i pittori del nostro Ottocento fossero per caso interessati al tema della monacazione in generale, indipendentemente da Manzoni. E quindi, per farci un’idea “scientifica”, abbiamo cercato tra i contributi degli specialisti avendo la fortuna di trovare un parere preciso da parte di un’esperta.
Si tratta di Simona Bartolena (sì proprio la “nostra” Bartolena) che, come curatrice di una esposizione di Monza, nel suo saggio “Il fiore del chiostro” (libro-catalogo della mostra “La Monaca di Monza” — Serrone di Villa Reale di Monza, 1 ottobre 2016 – 19 febbraio 2017, organizzatore ViDi Srl, il medesimo della mostra di Lecco) ci dà una versione differente della Bartolena curatrice della mostra di Lecco:
(pag. 102): «Nel XIX secolo si assiste a una crescente attenzione al tema [della monacazione] da parte di letterati e artisti […] Già ai tempi di Migliara il tema conventuale godeva di una certa fortuna. Il racconto manzoniano contribuisce certamente […] alla diffusione del soggetto ma l’immaginario pittorico della monaca […] non si esaurisce nella figura di Gertrude/Marianna. Figure di suore compaiono spesso come comprimarie in scene di genere letterario o storico […] e assai apprezzata è anche l’immagine della monaca da sola, chiusa nella sua stanzetta claustrale. La pittura dell’Ottocento […] è caratterizzata da una straordinaria varietà iconografica sul mondo femminile. […] L’iconografìa della monaca, soggetto frequentatissimo dagli esponenti delle principali correnti artistiche del XIX secolo, rientra a pieno in questa indagine. Diversi (e ben distinti) sono i motivi della scelta del tema e della sua interpretazione: lo sguardo sulla vita claustrale dei macchiaioli, ad esempio, è profondamente differente — come approccio e come finalità — a quello degli scapigliati o degli artisti di ambito divisionista, quali Longoni o Previati […]»
e ancora (pag. 107): «A fronte di tanto interesse per il mondo femminile non poteva mancare nel novero di soggetti indagati dai pittori del gruppo il tema della monaca. Tra gli scapigliati, ad aver lavorato con maggior frequenza sul soggetto è Luigi Conconi. Lo sguardo dell’artista sul mondo claustrale è severamente critico. Le sue monache sono recluse a forza o comunque arrovellate dal dubbio o dal rimpianto […]»
Nel suo saggio del 2016 sulla mostra di Monza Bartolena ci dice cioè qualcosa di molto diverso di quanto ha scritto sul pannello della mostra di Lecco — ossia che molti artisti nell’Ottocento si occuparono in modo rilevante del tema “monache” e ciò indipendentemente dal romanzo di Manzoni.
Felici di questa prima acquisizione, aggiungiamo noi che tra questi artisti possiamo sicuramente annoverare anche Hayez.
Inoltre, presumibilmente tra 1825-1830, Hayez dipinse un “Bacio tra una monaca e una giovanetta” (vedi “L’opera completa di Hayez”, Coradeschi, Rizzoli 1971) che Mazzocca colloca invece verso il 1823 (Motta, 1994) e, forse a smorzarne l’esplicita suggestione lesbica, lo preferisce come “Bacio tra Giulietta e la nutrice”.
Come si vede, si tratta di “monache” ma senza alcun riferimento di Hayez a Manzoni. Il che non deve ovviamente stupire.
Per tutto l’800 la monacazione (forzata o meno, qui non importa) era un fenomeno esteso e riguardava più o meno ogni famiglia dei più agiati strati sociali (ce lo ha spiegato bene Bartolena).
Per entrare un poco nel merito, prendiamo spunto dal libro “Le mie memorie dettate da Francesco Hayez”, pubblicato in Milano il 10 febbraio 1890 dalla “Reale Accademia di Belle Arti”.
Il libro, oltre alle “Memorie” dell’artista, riporta anche un “Repertorio delle sue opere”, steso a cura del Comitato stesso, si presume quindi con la massima attenzione e scrupolo.
Dal “Repertorio” veniamo a sapere che Hayez nel 1833 dipinse due quadri che tra i soggetti rappresentati avevano anche monache:
pag. 277
1833. Dei pirati greci rapiscono in barca due donne, una delle quali monaca, del sig. Gaetano Taccioli, di Milano.
1833. Pirati greci con monache, in barca.
Nulla di strano quindi che si producessero quadri raffiguranti monache, esattamente come si producevano quadri di signore in toelette da ballo o da teatro, senza per questo dover pensare necessariamente a Manzoni.
Ma leggiamo ancora dal “Repertorio” sopra ricordato:
pag. 283
1879. Monaca (studio dal vero) v. documenti del conte Aldo Annoni, di Milano.
1879. Lo stesso soggetto, di Donna Giuseppina Negroni Prati Morosini, di Milano.
Come il lettore avrà notato, il titolo del quadro 1879 con riferimento al conte Annoni, è “Monaca”, non “La monaca”.
Non sfugge a nessuno la differenza che porta l’inserimento dell’articolo “La”. Mentre con “La monaca” ancor oggi in Italia si comprende trattarsi della monaca del Manzoni (figuriamoci nella seconda metà dell’Ottocento a Milano); con “Monaca” intendiamo che ci si riferisce a una monaca generica (analogamente, sempre nello stesso Repertorio, si citano due dipinti, 1864 e 1871, entrambi titolati “La Vergine” da cui — attraverso l’articolo “La” — il lettore comprende subito trattarsi della madre di Gesù e non di una signorina illibata).
A proposito di rappresentazioni di monache con riferimento o meno a Manzoni, può essere qui utile segnalare che nel libro-catalogo “La Monaca di Monza” (Bellavite, 2016) curato da Bartolena, è presente un banale errore di attribuzione.
A pag. 158-159 viene presentata come di Tranquillo Cremona una fotoincisione (ed. Fratelli Stoppani) che è invece del maestro Giovan Battista Todeschini, uno dei grandi esclusi da questa mostra che si svolge in Lecco sulla pittura dell’Ottocento. La sigla è assolutamente inconfondibile (scherzando sul proprio nome e con quello spirito anti-austriaco ancora dominante a fine ’800, Todeschini diceva: «varda, te gh’è present un tugnin in del ces?»).
Bartolena (nel prendere un artista per l’altro) sottolinea le capacità di Cremona nel rappresentare un certo tipo di bellezza femminile (pag. 112): «Sarebbe sufficiente per averne conferma osservare come la ritrae Tranquillo Cremona, che quanto a figure femminili seducenti ha molto da insegnare. Tra le tavole realizzate dallo scapigliato per illustrare il romanzo manzoniano spicca il viso di Gertrude (cat. 19), un volto dalla bellezza perfettamente nei canoni estetici ottocenteschi; due grandi occhi sfuggenti, la piccola ma carnosa bocca serrata, il volto leggermente inclinato, l’espressione tormentata che non rovina in alcun modo i lineamenti perfetti, il soggolo spostato da un debole colpo di vento: tutto concorre a costruire un’icona di bellezza, l’ideale femminile del borghese medio della Milano del tempo, turbamenti interiori compresi. Se dunque la storia di Gertrude/Marianna fa ancora pubblicamente arrossire i benpensanti, il suo personaggio sollecita (e continuerà a sollecitare), nel privato, le fantasie erotico-sentimentali di intere generazioni.»
Francamente dubitiamo che con quella abbastanza convenzionale composizione (destinata a cartoline di diffusione anche popolare) il talentoso cugino Giovan Battista intendesse sollecitare le fantasie erotico-sentimentali di chicchessia. Di sicuro era comunque in grado di evidenziare un certo tipo di bellezza femminile, come mostra il dipinto sopra riportato (immagine della moglie del pittore).
Già che siamo in argomento vorremmo ricordare la lodevole iniziativa presa dal Comune di Introbio che nel 2017 ha presentato la bella mostra ”I Todeschini, una famiglia di artisti” (curata anche da Gianfranco Scotti) con una veramente ampia e intelligente esposizione dei lavori del capostipite Giovan Battista e dei tre suoi figli, Pietro, Lucio e Paolo, anch’essi artisti di buona stoffa.
Infine, giova ricordare un brano delle stesse Memorie di Hayez.
A pag. 231, nelle poche righe della lettera a Donna Giuseppina Negroni Prati Morosini, con cui Hayez le annuncia di avere già realizzato:
«copia del mio dipinto la Monaca […] me ne volli tosto occupare ed ora la nuova Monaca è già fatta ed è a’ suoi ordini […] ardisco troppo se la detta Monaca desiderasse una sua visita?».
I curatori dell’Accademia tengono a indicare con precisione il titolo dell’opera, evidenziando con il corsivo solo il “Monaca”.
Ci sembra che sotto il profilo storico-documentale (salvo nuovi elementi) si possa concludere che la “Monaca” di Hayez (non “La monaca” come è stata presentata alla mostra di Lecco) si riferisca ad altro che la monaca di Manzoni.
Oltre i documenti, ricorrendo a memoria, occhi e raziocinio.
Ciò detto, prima di fare del quadro di Hayez un “omaggio” a Manzoni, sarebbe stato forse opportuno guardare il dipinto di Hayez, pensare alla monaca rappresentata da Manzoni e riflettere se tra i due elementi vi sia compatibilità, rapporto o quant’altro.
Vorremmo però in via preliminare riportare quanto Bartolena scrive nel cartellino affisso sulla parete, accanto al dipinto:
«Per ritrarre la Monaca di manzoniana memoria, Hayez sceglie la strada della semplicità e del rigore.
Gli occhi chiusi, il volto di profilo colto in un broncio quasi infantile, lo schienale della sedia che cela la schiena: non necessariamente pentita ma certo esausta per la difficoltà della propria condizione, la monaca evita il contatto con lo sguardo di chiunque la voglia osservare, chiusa nell’orgoglioso silenzio di chi affronta senza paura il proprio destino, un destino di cui lei stessa è stata in buona parte consapevole artefice. […] L’artista, ben vicino al Manzoni, offre così la versione pittorica più affine, quanto ad attitudine emotiva, al dramma narrato dal letterato; una versione che nella sua disarmante semplicità lascia emergere il tema, assai caro all’autore dei Promessi Sposi, del dramma privato in una vicenda pubblica.»
Abbiamo voluto riportare quasi integralmente il testo di Bartolena sia per dovere di cronaca sia perché è un bell’esempio di come si possono usare frasi che sembrano “suonare bene” ma deludono quanto ai contenuti.
Anche a un semplice sguardo, la Monaca di Hayez ha ben poco a che vedere con la figura tratteggiata da Manzoni (e da Manzoni rappresentata in più illustrazioni de “I Promessi Sposi“ per mano di Gonin – le mostriamo a lato).
Nel romanzo, Manzoni così ce la presenta [“I Promessi Sposi – Storia della Colonna Infame“ Redaelli 1840, Cap. IX, pag.170]:
«Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.» […] «Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti.
Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero.
La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca.
Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.»
Letto Manzoni, ci rendiamo subito conto che la monaca di Hayez è veramente lontana da quella delineata nel romanzo, sotto tutti i profili, fisici e psicologici.
• La monaca di Manzoni viola la regola e tiene una ciocca dei capelli corvini in libertà. Quella di Hayez è tutta a posto e in ordine.
• La monaca di Manzoni è nervosa, scossa da fremiti interiori che si fanno strada nell’espressione del volto e nella postura. Quella di Hayez è una giovane serena, con le guance tonde e la boccuccia baciodimamma.
• La monaca di Manzoni ha una bellezza “sbattuta”; in Hayez ha la freschezza di una ragazza sana, che mangia e riposa bene.
• La monaca di Manzoni ha sopracciglia contratte per un impulso interiore; in Hayez il volto è tranquillo e solo un po’ pensoso.
• La monaca di Manzoni mostra attraverso le finestre degli occhi il lato dominante della personalità. Quella di Hayez li tiene quasi chiusi.
Inutile continuare: si tratta con evidenza di due monache completamente differenti e Hayez non aveva di certo in mente Manzoni quando dipinse il quadro.
O meglio, ci sembra che Hayez, a scanso di equivoci, abbia calcato la mano nel presentarci una monaca che NON doveva essere scambiata con quella di Manzoni.
La sua monaca è infatti seduta (così che non se ne possa intuire il corpo alto e formoso, con annessa secolaresca “vita attillata”).
Inoltre — lo abbiamo già evidenziato — a evitare che possano apparire in qualche modo “minacciosi”, della sua monaca Hayez evita di mostrare gli occhi; la giovane, leggermente girata di lato, li tiene quasi chiusi, a conferma insistita di un atteggiamento più che modesto — l’opposto dell’espressione sempre imperiosa o rabbiosa che ci ha voluto consegnare Manzoni attraverso le illustrazioni di Gonin.
Nel caso si dovesse invece scoprire – ma su nuovi documenti, non attraverso fraseggi forse a qualcuno “bene suonanti” ma debolini quanto a contenuti – che Hayez compose quel dipinto pensando proprio alla Signora di Monza, allora acconsentiremo alla titolazione proposta da Bartolena, allo stato impropria e di fantasia.
Dobbiamo però aggiungere che, in questo caso, bene fece Manzoni nel ritenere Hayez non adatto per le illustrazioni del suo romanzo: dopo la prima giornata di lavoro, amici come erano, si sarebbero mandati cordialmente a quel paese (in proposito, il milanese aveva varie espressioni colorite, benissimo comprensibili anche dal “forestiero” Hayez).
5.3 Giuseppe Molteni / Manzoni, equivoci su un ritratto / La monaca cancellata. ^
Bartolena ne ha scritto …
(pag. 14) «[…] Hayez è il grande protagonista della scena artistica del tempo […] nel campo della ritrattistica […] ha come temibili antagonisti […] Pelagio Palagi e Giuseppe Molteni.[…] Il dibattito tra coloro che apprezzano il veneziano e coloro che preferiscono l’elegante convenzionalità borghese dei dipinti di Molteni è aperto. Per comprendere le profonde differenze tra le due interpretazioni basterebbe forse il confronto tra i loro ritratti di Alessandro Manzoni: umanissimo e inquieto quello di Hayez (fig. 4), icona romantica perfettamente in linea con il gusto dell’epoca quello di Molteni (fig. 5).[…] Molteni era riuscito ad affermarsi come pittore dopo essere stato il restauratore e il consulente d’arte di fiducia di buona parte della borghesia cittadina. L’eccezionale perizia tecnica e l’abilità nelle relazioni pubbliche coltivate negli anni gli permettono di affermare sul mercato una nuova tipologia ritrattistica […]».
È necessario segnalare al lettore che …
Il quadro cui fa riferimento Bartolena quando scrive di «icona romantica perfettamente in linea con il gusto dell’epoca quello di Molteni (fig. 5)» NON è il quadro esposto nella mostra di Lecco (prestato dal Museo Manzoniano), dipinto da Molteni tra il 1850 e il 1860 e presentato come parte dell’ “Omaggio a Manzoni”.
A quest’ultimo quadro dei Musei di Lecco, enfatizzato nella conferenza di inaugurazione come “Omaggio a Manzoni” e appeso proprio all’inizio del percorso espositivo, Bartolena non fa mai alcun riferimento nelle diciotto pagine della sua Presentazione.
Bartolena si riferisce invece a un altro quadro, dipinto nel 1835 a quattro mani da Molteni e d’Azeglio, di proprietà della Braidense di Milano che è invece esposto a Milano nella mostra concorrente “Romanticismo” (lo mostriamo a lato).
Il lettore non sorrida, sono cose che succedono anche ai migliori.
A parte questo caso curioso, stupisce che Bartolena, parlando del quadro Molteni/d’Azeglio (fig. 15) non ne evidenzi comunque un elemento sicuramente di interesse per Lecco.
Lo sfondo del quadro (ci dia un occhio un po’ attento il lettore) rappresenta proprio il Moregallo, il Ponte Azzone Visconti e il San Martino; potrebbe essere un’icona ideale del legame tra Manzoni e Lecco.
Ma di questi aspetti neppure una parola nella mostra che dovrebbe valorizzare il patrimonio culturale di Lecco nell’Ottocento lombardo.
Perché non dire anche che…
Oltre a quanto si è detto circa il ritratto di Manzoni, di Molteni Bartolena dimentica l’opera che lo ha reso notissimo in tutto il mondo che ruotava (e ruota) attorno alle tematiche manzoniane.
Bartolena, così come nel suo saggio introduttivo ha ignorato “La monaca” di Hayez (ne abbiamo detto sopra), allo stesso modo si è completamente dimenticata del quadro “La Signora di Monza” di Giuseppe Molteni, forse la più rappresentata in tutta la iconografia sulla monaca manzoniana, proprietà dei Musei di Pavia (vedi a lato).
E la cosa è tanto più curiosa in quanto proprio Bartolena (anche in quella occasione in veste di curatrice) ha portato il noto quadro di Molteni alla esposizione “La Monaca di Monza”, svoltasi a Monza dal 01/10/2016 al 19/02/2017, prodotta e organizzata da ViDi Srl (lo stesso organizzatore della mostra di Lecco).
5.4 Luigi Bisi / Ignorati Manzoni e “I Promessi Sposi”. ^
Bartolena ne ha scritto …
«[Luigi Bisi, alla morte di Migliara] ne prende il posto sul mercato, guadagnandosi lodi fin superiori» […] «La sua formazione presso Francesco Durelli, titolare della cattedra di prospettiva a Brera, dove Bisi gli succederà nel 1851 per rimanervi fino alla morte nel 1886, spiega l’approccio architettonico alla veduta.» «Oltre a Luigi Bisi, specializzatosi soprattutto in vedute del duomo […]».
Dal canto suo Zatti:
« […] l’età romantica vede il successo di formule pittoriche legate al vero, all’imitazione della natura, ma anche alla descrizione di monumenti e angoli specialmente pittoreschi delle città. Luigi Bisi, Giovanni Migliara, Giuseppe Canella, con il fratello Carlo, e Angelo Inganni sono i migliori rappresentanti di quella che viene definita “pittura urbana”, dove la città è colta nei suoi aspetti architettonici più suggestivi.»
E ancora (pag. 30):
«Luigi Bisi, appartenente a una famiglia di artisti, docente di prospettiva a Brera, è l’autore di stupefacenti vedute scenografiche dell’interno del duomo di Milano (cat. 16) — che rappresentò quasi un centinaio di volte — dalla tecnica sempre più affinata, di grande precisione prospettica, affascinanti per l’aura sacrale che aleggia grazie a una sapiente regia delle luci e delle ombre.»
Perché non dire anche che…
Grande attenzione quindi di Bartolena e Zatti su Luigi Bisi. Nessuna delle due curatrici però ha avuto modo di ricordare neppure con un vago accenno i molteplici rapporti tra il pittore e Manzoni. Stupisce in particolare che Zatti della super-produzione di Bisi sul Duomo di Milano, abbia dimenticato quella che campeggia a pag. 598 de “I Promessi Sposi” 1840.
Luigi Bisi, infatti, fece parte di quel gruppo di artisti che, sotto la direzione “ideologica” e scenografica di Manzoni (ben sorretto dal pittore Gonin), ci hanno regalato quella bella esperienza artistica che sono le oltre 400 illustrazioni de “I Promessi Sposi” del 1840.
Come esperto della visione prospettica, Bisi ci ha lasciato quattro illustrazioni: della porta di entrata in Monza; della Colonna del Borghetto; del Lazzeretto; del Duomo — questi tre ultimi altrettanti luoghi della Milano del 1630. Vere pietre miliari nello sviluppo del romanzo di Manzoni (le diciture sono quelle indicate da Manzoni all’artista):
Cap. IX, pag. 169 — Antica porta con torre, all’entrata di Monza.
Cap. XI, pag. 232 — È pane davvero! [È rappresentata la Colonna del Borghetto].
Cap. XXVIII, pag. 540 — Il Lazzeretto di Milano.
Cap. XXXI, pag. 598 — Alcuni ai quali era parso di vedere… persone in duomo andare ungendo un assito.
e anche che…
E Bartolena/Zatti, potevano anche ricordare che (a conferma di un rapporto di lunga data tra Manzoni e la famiglia Bisi, composta da artisti tutti di valore) il famoso acquerello raffigurante la famiglia Manzoni, rappresentata verso il 1820, era stato composto da Ernesta Legnani Bisi, zia del Luigi Bisi in questione e amica di Alessandro, di Enrichetta e di Giulia Manzoni.
Quante cose, e sull’arte dell’Ottocento lombardo e su Manzoni (quindi su Lecco), si potevano dire parlando di Luigi Bisi!
5.5 Marco Gozzi / Ignorata Lecco e il suo territorio. ^
Bartolena ne ha scritto … (pag. 16): «Tra i pittori che più attivamente parteciparono al tentativo di emancipazione della pittura di paesaggio dai canoni scenografici del classicismo settecentesco vi fu, ad esempio, Marco Gozzi, che espose assiduamente a Brera tra il 1812 e il 1838. I suoi paesaggi cercano un parziale affrancamento dagli stilemi dei capricci settecenteschi, pur nel rispetto della tradizione e di una certa ufficialità nel repertorio tematico. Nel 1807 il viceré gli aveva assicurato uno stipendio annuale di 1550 lire, in cambio di tre quadri all’anno. Anche gli Asburgo apprezzeranno il suo stile rigoroso e attento al dettaglio e lo sfrutteranno spesso per documentare le opere pubbliche da loro realizzate sul territorio lombardo.»
E anche Zatti (pag. 30): «Protagonista della pittura di paesaggio della Milano post napoleonica è Marco Gozzi, a cui si deve una larga parte di limpida illustrazione delle terre di Lombardia nei primi decenni del nuovo secolo […] luoghi ed elementi di interesse […] quali le reti stradali e ferroviarie, le prime industrie, il ponte di Cassano, il castello di Trezzo o la Madonna della Sassella, sulla strada dello Stelvio (cat. 20)».
Perché non dire anche che… Bene! abbiamo compreso che Gozzi è ben presente alle due storiche dell’arte. E perché allora non accennare almeno alle tele di Gozzi che hanno come soggetto il lago di Como/Lecco? Del “Nestore dei pittori” (era nato nel 1759) abbiamo un “Orrido di Nesso” e diverse belle vedute di Lecco, in una delle quali domina il San Martino utilizzata in copertina per decenni in molte edizioni economiche Garzanti de “I Promessi Sposi”. Da dire di Gozzi è inoltre che, essendo morto nel 1839, quindi prima che uscissero i paesaggi de “I Promessi Sposi”, si può anche pensare che siano Manzoni e Gonin ad avere preso spunto dalle sue vedute del lariano per le tavole paesaggistiche con cui si apre il romanzo del 1840.
Per finire, ricordiamo che un paesaggio di Marco Gozzi (ma del bergamasco) è esposto alla mostra “Romanticismo” di Milano.
5.6 Cherubino Cornienti / Ignorati Manzoni, Lecco e il suo territorio. ^
Bartolena ne ha scritto…
(pag. 16) «Per comprendere la distanza che separa la ricerca del vecchio Hayez da quella di Cornienti sarebbe forse sufficiente il confronto con la versione del pavese dei Profughi di Parga (cat. 14) e l’originale hayeziano. Entrambi i pittori fanno riferimento alle vicende elleniche, seguite con attenzione dagli intellettuali di mezza Europa, assecondando al contempo le velleità politiche di molta pittura storica italiana e il diffuso gusto orientalista.»
Perché non dire anche che…
Detto bene! ma è escluso ogni riferimento a Manzoni che, nella vicenda dei profughi di Parga, ebbe un ruolo significativo.
Sollecitato dai travagli della piccola città greca di Parga (contesa dalle varie potenze del Mediterraneo dopo il Congresso di Vienna del 1815), e con chiaro riferimento alla situazione italiana, Foscolo (con articoli usciti in Inghilterra su «The Edinburgh Review») prese una posizione molto netta.
Nel dicembre 1820 Goethe, nel difendere “Il Conte di Carmagnola” di Manzoni dalle critiche della Quarterly Review, sollecitava Manzoni a scrivere sulla vicenda in quel modo nuovo che allo scrittore tedesco tanto piaceva:
«Ma se fosse lecito al Signor Manzoni […] di condurlo nella sua maniera […], se mettesse in atto la sua facoltà di commuovere elegiacamente e di eccitare liricamente, […] l’Inglese medesimo, ancorché si sentisse ferito alquanto dalla parte scabrosa, che toccherebbe ai suoi compatriotti, certamente non chiamerebbe debole il dramma.»
Manzoni non raccolse l’idea ma si adoperò perché, nell’impossibilità di farlo in Italia, venisse stampata in Francia e in Inghilterra una “romanza” di Giovanni Berchet dal titolo “I Profughi di Parga”, con chiari riferimenti alla situazione politica italiana.
Il 29 gennaio 1821 Manzoni scrisse infatti all’amico Claude Fauriel (da anni impegnato in ricerche sull’identità culturale greca), lodando molto il lavoro di Berchet e chiedendogli tacitamente di farlo pubblicare in Francia. Richiesta che Fauriel riuscì a soddisfare nel 1823, anche con la traduzione in lingua francese (nel frattempo Berchet era dovuto fuggire dall’Italia per non cadere nelle mani della polizia austriaca).
Ci sembra che parlare dei due quadri di Hayez e Cornienti sulla vicenda di Parga senza neppure citare, anche con poche parole, il coinvolgimento attivo e decisivo di Manzoni, è chiudere la storia e la vita culturale in un tubetto del colore.
e anche che…
Non sarebbe stato male anche informare il lettore che Cherubino Cornienti (tra il 1850 e il 1853) fu amichevolmente ospitato dal patriota Carlo Testori a Villa Pozzi in Garlate, a due passi da Lecco, dove Giovanni Battista, padre di Carlo era stato tra i fondatori del Teatro della Società di Lecco (in questi mesi in ristrutturazione ma sempre parte importante del patrimonio culturale lecchese).
Per ringraziare Testori dell’ospitalità, Cornienti tra il 1853 e il 1855 affrescò il soffitto della grande sala principale della Villa con quattro scene sulla vicenda di Prometeo:
• “Prometeo irradia sui mortali il fluido rigeneratore”
• “Prometeo legato alla rocca del Caucaso”
• “Prometeo fulminato da Giove”
• “Prometeo sale vittorioso all’Empireo”.
Al centro delle scene l’allegoria dell’Immortalità (a lato le riproduzioni).
Un complesso pittorico che forma tuttora l’orgoglio non solo dei proprietari della Villa ma dell’intero territorio. Perché ignorarlo del tutto?
Inoltre, nella sua permanenza nei dintorni di Lecco, Cornienti trovò modo anche di dipingere due tele per la Chiesa di San Leonardo di Malgrate (“Annunciazione” e “Natività”). Queste due tele, commissionate da Giorgio Agudio, furono da questi inizialmente rifiutate perché troppo innovative nello stile. Fu ancora l’amico e mecenate Carlo Testori a convincere il committente un po’ tradizionalista che era invece il caso di accettarle e di tenerle bene da conto.
Quante cose legate alla storia della pittura e al territorio si potrebbero dire, con un po’ di attenzione alla realtà. Non è vero?
E pensare che — grazie agli esperti d’arte molto preparati e attivi nel territorio lecchese — è facile trovare la documentazione necessaria alla valorizzazione di Lecco e del suo territorio.
Sugli affreschi di Villa Pozzi a Garlate vi è un ben documentato articolo del noto Gianfranco Scotti decano degli storici di Lecco e fine conoscitore / divulgatore delle vicende artistiche lariane (“Villa Testori a Garlate e gli affreschi di Cherubino Cornienti” / Archivi di Lecco, 2001 / f.1 / p. 7).
Per le tele di Malgrate si può invece fare riferimento al bel libro “Sotto il campanile di San Leonardo” di Angelo Sala (Lecco, 2007).
Ci sia consentita — di sfuggita, si intende — una considerazione.
Sarebbe una gran bella cosa se in queste iniziative culturali della città di Lecco, venissero coinvolti attivamente anche gli esperti di storia e di arte locale: sono colti e benissimo informati sul loro territorio.
Si eviterebbero probabilmente inspiegabili amnesie storico-culturali sulla città e la sua storia, quali quelle che stiamo evidenziando.
5.7 Tranquillo Cremona / Dimenticati Manzoni e “I Promessi Sposi”. ^
Bartolena ne ha scritto…
(pag. 17): «La presenza di Trécourt negli ambienti della Civica Scuola di Pittura pavese favorisce, dunque, una vena di novità e una tendenza di ricerca che esploderà da lì a breve nella generazione di Federico Faruffìni e Tranquillo Cremona […]»
Perché non dire anche che…
A parte l’abbaglio sulla attribuzione a Cremona di un lavoro (per altro di modesti intenti, di Giovan Battista Todeschini, di cui abbiamo detto più sopra) non sarebbe stato male, a questo punto, parlare dei tre disegni (forse cinque) che Cremona realizzò (vivo Manzoni) per l’edizione 1869 de “I Promessi Sposi”, stampata da Rechiedei.
Ne parla Antonio Vismara (Bibliografia manzoniana, ossia serie delle edizioni delle Opere di Alessandro Manzoni – Milano, Paravia 1875):
«[Dato] lo stato deplorevole delle illustrazioni del 1840, gli editori […] si videro costretti a sostituire, almeno in parte, quelle inservibili. E l’incarico fu affidato a due giovani […] Tranquillo Cremona, la cui opera pittorica ebbe larghissimo e meritato riconoscimento, e Luigi Borgomainerio, celebre, poi, come caricaturista, sotto lo pseudonimo di Don Ciccio. […] Si devono al Cremona tre tavole fuori testo, pure comprese nella numerazione, alle pagg.17, 165 e 249; e con ogni probabilità, il ritratto e una tavola, non firmata, a p. 881. A queste illustrazioni devesi il notevole pregio di questa edizione […]».
Per la verità, non concordiamo con l’apprezzamento di Vismara, ma i nostri gusti poco importano.
Queste illustrazioni di Cremona fanno però parte della storia dell’arte lombarda e manzoniana e quindi ne teniamo conto e registrazione, soprattutto perché contribuiscono a renderci consapevoli dei legami molteplici che Manzoni tenne all’epoca sua (e anche dopo) con molti dei migliori pittori e scultori lombardi.
5.8 Giuseppe Bertini / Dimenticati Manzoni e, della peste di Milano 1630, il notissimo episodio di Cecilia. ^
Bartolena ne ha scritto…
«[Giuseppe Bertini] si impose sulla scena di Brera, con il suo primo capolavoro “Dante e frate Ilario” […] futuro erede di Hayez […] Giuseppe Bertini […] si dedicò con successo anche alle arti applicate, in particolare alla produzione di vetrate, come ben testimonia lo splendido esempio di proprietà dell’Ambrosiana […] diventa ben presto il campione del rinnovamento della pittura storico-letteraria […] nella classicità del proprio credo pittorico […] egli predilige tuttavia la sperimentazione sul colore rispetto al disegno, spingendo gli allievi all’osservazione del vero […] non mancherà di arrivare ai suoi allievi più promettenti, su tutti lo scapigliato Tranquillo Cremona.»
Perché non dire anche che…
Bartolena dedica 236 parole a Bertini ma non riesce a scriverne neppure una circa l’impegno dell’artista sui temi manzoniani.
Dimentica che Bertini dipinse uno dei quadri forse più noti sull’episodio di Cecilia de “I Promessi Sposi” (vedi a lato) e anche un quadro, raffigurante i finalmente sposi Lucia e Renzo (vittorioso ed entusiasta), ampiamente utilizzato nell’editoria attuale (vedi a lato).
Per non parlare dei disegni realizzati per una edizione de “I Promessi Sposi” (Vallardi 1916).
5.9 Domenico e Gerolamo Induno / Ignorati Pescarenico e il monumento a Manzoni. ^
Abbiamo già detto sopra, proprio all’avvio della nostra analisi, della vicenda dei dipinti scambiati e delle ingenuità storiche sulla 3ª Guerra di Indipendenza del 1866 da parte di curatrice, organizzatori, amministratori del Comune, e non ci torniamo ovviamente sopra.
Ma vi sono altri elementi riguardanti Gerolamo Induno e legati alla storia civica e artistica della città di Lecco, che vale la pena di ricordare.
Bartolena ne ha scritto…
«Il fratello di Domenico, Gerolamo, sostituirà ai soggetti ispirati alla vita quotidiana dei ceti popolari l’altrettanto semplice e immediata narrazione dell’esistenza dei soldati e dei garibaldini […]»
«Se Domenico fatica ad abbandonarsi alla facilità di maliziose scenette rococò […] come ben dimostrano le due opere in mostra, La pittrice (cat. 41 ) e […] La bella pensosa (cat. 42), […] Gerolamo, a dispetto del suo passato da pittore-soldato, finisce per convertirsi alla frivolezza richiesta dal mercato internazionale.»
Perché non dire anche che…
Bartolena, oltre alle informazioni sopra riportate sui due Induno, avrebbe potuto ricordarci (ne accenna Zatti, ma appunto, accenna) anche che i due fratelli ci hanno lasciato vedute proprio di Pescarenico, nel solco del paesaggio manzoniano (vedine a lato esempi, ma ne vennero realizzati altri).
e anche che…
Bartolena avrebbe però potuto parlare anche di un episodio della vita di Gerolamo Induno, che lo lega strettamente a Lecco e a Manzoni.
Come noto a chi studia le vicende artistiche della città, nel 1884 il lecchese Abate Stoppani, Presidente del Comitato per il Monumento a Manzoni in Lecco, avviò a livello nazionale la campagna per il posizionamento di Lecco come “altare di Manzoni”.
Un’azione di vero “marketing culturale” che consentì per quasi un secolo a Lecco di essere universalmente riconosciuta come “città di Manzoni”.
La gara fu vinta da Confalonieri che realizzò quel bel monumento, appena restaurato dal Comune, unico in Italia, dedicato sia a Manzoni sia al suo romanzo (per saperne di più, vedi la nostra nota).
Che c’entra Gerolamo Induno? Parecchio!
Nel 1887 Gerolamo Induno fu l’unico pittore chiamato a fare parte della Commissione esaminatrice dei bozzetti che undici artisti erano stati invitati a presentare.
E l’8 aprile 1888, in coppia con l’architetto Cerruti, visionato il bozzetto di Confalonieri “con Manzoni seduto”, Induno fu incaricato dall’Abate Stoppani “di trattare i dettagli con l’artista, stante la loro incondizionata approvazione del progetto”.
Induno e Cerruti seguirono così passo passo Confalonieri, dando il loro contributo di artisti esperti, fino all’inaugurazione del monumento il 25 ottobre 1891.
5.10 Giuseppe De Albertis / Ignorati Ghislanzoni, Manzoni e Garibaldi. ^
Bartolena ne ha scritto…
(pag. 19): «Testimoniano, invece, la lunga fortuna del genere militare le opere di Sebastiano De Albertis, narratore fedele al tema anche quando l’epopea risorgimentale è ormai lontana e i fervori patriottici si sono spenti sotto la spessa coltre delle disillusioni e delusioni postunitarie. Impegnato nelle Cinque giornate di Milano e poi arruolatosi nei garibaldini, De Albertis offre la propria tavolozza alla storia contemporanea, soggetto che continuerà a frequentare anche a guerre concluse, producendo spesso scene generiche di combattimenti, spesso codificate in uno stile divenuto maniera.»
Perché non dire anche che…
De Albertis evidentemente non interessa granché a Bartolena che, anche se nel quadro della presentazione di una mostra in Lecco, se la cava con poche parole.
Peccato. Perché De Albertis è stato legato professionalmente e da grande amicizia ad Antonio Ghislanzoni, il geniale scrittore lecchese, autore di decine di famosissimi libretti musicali, tra cui la “Aida” di Giuseppe Verdi, il “Salvator Rosa“ di Gomes, i “Lituani” di Ponchielli, e, nel 1869, il riuscitissimo libretto “I Promessi Sposi” per Errico Petrella, rappresentato più volte a Lecco e in tante altre città d’Italia.
Con Ghislanzoni De Albertis collaborò ai giornali satirici (in realtà di opposizione patriottica) nel “decennio buio” 1849-1859. Se sfogliate le annate de “Il Pungolo” o de “L’Uomo di Pietra”, a fianco di tanti articoli di Ghislanzoni, troverete decine di formidabili illustrazioni satiriche di De Albertis, che per l’amico lecchese illustrò anche il gustoso “Le memorie di un gatto”, pubblicato a puntate su “L’Uomo di Pietra”.
e anche che …
La cosa però che ci ha maggiormente colpito è l’assoluta mancanza di riferimenti da parte di Bartolena a un dipinto che in Italia crediamo conoscano ancora oggi anche i bimbi delle elementari e che è certamente uno dei più ricordati del nostro Risorgimento in tutta Italia, figuriamoci a Lecco.
Parliamo del quadro “Incontro tra Alessandro Manzoni e Giuseppe Garibaldi”.
Come noto l’incontro avvenne il 25 marzo 1862 nella casa di Manzoni in Via Morone a Milano, con l’ancora più noto scambio di battute:
“Permettete — disse il generale, che teneva in mano un mazzolino di violette — ch’io venga a prestare un omaggio a un uomo che onora tanto l’Italia”.
.
“Non siete voi — rispose il Manzoni — che dovete prestare omaggio a me; sì io, che mi trova ben piccino davanti all’ultimo dei Mille”.
È chiaro che a Bartolena — legittimamente — può anche non importare nulla né di Garibaldi né di Manzoni. E magari trovare antipatici sia l’uno che l’altro.
Ma quando, per conto della città di Manzoni (che ha voluto onorare Garibaldi con il notevole monumento di Confalonieri posto proprio nel centro della città), si trova a parlare di De Albertis, oggi noto soprattutto per avere immortalato l’incontro tra due grandi del Risorgimento (uno dei quali vero padre spirituale di Lecco), è forse opportuno tenerne conto. O no?
5.11 Giuseppe Grandi / Ignorati Manzoni e suo nonno Cesare Beccaria. ^
Bartolena ne ha scritto…
(pag. 22): «Insieme a lui condividono la scena altri due grandi protagonisti: il pittore Tranquillo Cremona — ritenuto, con alterne fortune, il caposcuola — e lo scultore Giuseppe Grandi […] che nelle sue opere plastiche riesce a interpretare magistralmente il tocco cangiante del pennello scapigliato traducendolo nella materia, con esiti che, tra l’altro, saranno fondamentali per la formazione di un artista quale Medardo Rosso.»
Ancora Bartolena (in nota) riprendendo da Dossi: «Sovente […] Tranquillo Cremona, Giuseppe Grandi, Luigi Perelli, Ronzoni e altri, […] quando non avevano più denaro giocavano i bottoni degli abiti. Una sera Grandi li perdette tutti, compresi quelli delle mutande, della camicia, e tornò a casa (fortuna che era notte!) in uno stato più comicamente compassionevole del mondo.»
Perché non dire anche che…
Tra una considerazione seria e un aneddoto goliardico, un po’ di parole per Grandi Bartolena le spende.
Avrebbe quindi potuto spingersi un po’ più in là e dire qualche cosa sul bel monumento dedicato a Cesare Beccaria, tuttora ben presente nel centro di Milano, nella piazza omonima.
Poteva essere un’occasione per ricordare ai distratti (o a chi lo ignora) che Beccaria era nonno di Manzoni.
Quel Beccaria che il giovane Alessandro tanto stimava dall’indursi a firmare “Alessandro Manzoni Beccaria” l’Ode “In morte di Carlo Imbonati”, il componimento che gli aprì le porte della poesia italiana.
Quel Cesare Beccaria alla cui opera (“Dei Delitti e delle Pene” è ancora oggi unanimemente considerato un pilastro del diritto) Manzoni dedicò un sentito apprezzamento nel suo “I Promessi Sposi” 1840, unito a un ritratto molto realistico del nonno, illustre in tutta Europa (ancorché non molto corretto nei confronti della figlia Giulia, madre di Alessandro, e dei fratelli Verri, con il cui indispensabile contributo aveva scritto il libro, ma da lui volutamente occultati nel momento in cui la sua opera godette di una grande notorietà).
5.12 Mosè Bianchi / La Monaca di Monza, un’altra cancellatura, ma più grave. ^
Bartolena ne ha scritto…
(pag. 24): «Ottimo rappresentante del nuovo corso naturalista della pittura lombarda è anche Mosè Bianchi.[…] Allievo di Bertini che lo indirizza verso la pittura di genere, quella religiosa e il ritratto, Bianchi dimostra subito una certa personalità […] Artista eclettico, capace di passare dalle scenette neosettecentesche […] a opere modernissime nei temi e nei modi, Bianchi ha raggiunto il proprio vertice creativo nelle scene di genere — spesso ambientate negli interni delle chiese — ma si è distinto anche nel paesaggio e nella veduta cittadina.»
Perché non dire anche che…
Dal tono ci pare che Bianchi sia artisticamente simpatico a Bartolena.
Non tanto però da ricordare che il monzese Mosè Bianchi non solo era vicino a Manzoni per ragioni di famiglia, ma che si dedicò in vario modo al suo romanzo.
A commento della vicenda svoltasi quasi trecento anni prima nella propria città, Bianchi produsse molti lavori di varia natura tecnica, tesi a evidenziare i riflessi anche nevrotici sulla psiche della Signora di Monza delle sue scelte esistenziali.
Qui riportiamo sia il noto quadro nel quale sono rappresentati la Signora di Monza/Marianna De Leyva e il suo amante Egidio/Gian Paolo Osio; sia l’altro — “Ritratto di Egidio” — centrato su una diversa fisionomia del giovane.
Fa specie che, neppure nel pannello affisso alle pareti della mostra (nello pseudo-catalogo proprio non se ne dice parola), si faccia riferimento a questa opera di Bianchi che, assieme a quella di Molteni, è considerata da sempre un tipico esempio dell’influenza manzoniana sulla pittura, non solo lombarda.
5.13 Previati / Cancellate le 230 illustrazioni su “I Promessi Sposi”. ^
Bartolena ne ha scritto…
(pag. 26): « Dal grembo della scapigliatura nascono Segantini e Previati, le cui prime opere sono figlie, in tutta evidenza, di un romanticismo rivisitato dalle istanze scapigliate, come ben dimostrano lo splendido ritratto di Bice Bugatti nelle vesti di un’immaginaria Falconiera (cat. 77) del primo e il Bacio (cat. 79) del secondo, entrambi in mostra.»
Perché non dire anche che…
Come si è visto Bartolena dedica a Previati solo poche parole, limitandosi a citarne la presenza tra gli artisti esposti.
La cosa ci ha incuriosito.
Previati infatti è uno dei nomi maggiormente citati in relazione a Manzoni e a “I Promessi Sposi”.
Come è noto, Previati (che si era anche trasferito a vivere a Lecco, per entrare nell’atmosfera del romanzo – e la aveva trovata molto costosa!) realizzò infatti ben 228 illustrazioni e 13 tavole in eliotipia per la famosa edizione Hoepli, uscita in dispense tra il 1897 e il 1900 e molto pubblicizzata con una grande operazione di marketing da parte di Hoepli, che aveva indetto un concorso tra gli artisti con un premio consistente.
Dobbiamo dire che a nostro avviso tutta l’operazione Previati/Hoepli fu non solo di mediocre qualità (anche per le condizioni tecniche di stampa prescelte) ma è anche un vero e proprio volta faccia rispetto al romanzo di Manzoni, portatore di seri travisamenti dei suoi contenuti.
Ciò detto, nel 1995 si tenne a Lecco una mostra interessante titolata «“I Promessi Sposi” di Gaetano Previati», con contributi non banali da parte di Gianluigi Daccò, allora Direttore dei Musei Civici di Lecco e (nonostante qualche nostra riserva sul suo approccio metodologico) certamente un altro degli esperti sulla cultura di Lecco (più sopra abbiamo ricordato Gianfranco Scotti, ma ve ne sono altri, altrettanto degni di menzione), che avrebbero potuto con profitto essere consultati per l’impostazione della mostra.
Tutto ciò ricordato non si vede perché Bartolena, esperta d’arte dell’Ottocento, non abbia sentito la necessità di dedicare a questo aspetto dell’attività di Previati almeno una frase, tanto per non fare apparire la sua presentazione come scritta per Marte e non per la città di Lecco.
Potremmo aggiungere altri nomi di artisti presenti in mostra e altri fatti, relativi ai loro rapporti con il mondo manzoniano ma con il lettore ci siamo già capiti.
È perfettamente chiaro che molti degli artisti presenti nella mostra “Ottocento Lombardo” furono attivamente coinvolti nell’opera di Manzoni.
Ne respirarono non solo l’influenza letteraria ma, in modo più o meno diretto, anche l’esperienza (allora molto innovativa) condotta da Manzoni/Gonin proprio nell’area del disegno e della pittura.
E allora perché non farne uno degli elementi di forza dell’intera mostra, anziché limitarsi a solo vaghi accenni senza entrare mai nel vivo delle cose?
E pensare che il presupposto concettuale della mostra era stato espresso con accenti molto precisi dall’Assessore Piazza:
«L’Assessorato alla Cultura […] ha ideato una mostra che ha voluto fortemente legata al territorio […] Un’opportunità per raccontare al grande pubblico una parte della ricchezza culturale della nostra città, non solo artistica ma anche letteraria.»
E allora, avendo l’Amministrazione tracciato una linea strategica precisa, perché gli organizzatori e la curatrice non hanno seguito le indicazioni della città?
E allora, perché lo pseudo-catalogo “Ottocento Lombardo” non dedica neppure una riga a tutte queste questioni, che costituiscono la realtà storica della città di Lecco e da cui quindi non si dovrebbe mai – MAI – prescindere?
6. Amara conclusione: nella mostra “Ottocento Lombardo” tradito il mandato dell’Amministrazione comunale; ignorato il patrimonio artistico-letterario di Lecco.
Dopo questa lunga chiacchierata, riteniamo non sia necessario spendere altre parole.
Il lettore ha già perfettamente compreso ciò che a noi pare evidente: i presupposti esposti da Sindaco e Assessore alla Cultura per fare di questa mostra una occasione di valorizzazione del patrimonio artistico-letterario di Lecco sono stati da organizzatori e curatrice assolutamente disattesi.
La mostra “Ottocento Lombardo” è di tutta evidenza una delle tante esposizioni senza fisionomia che stanno inflazionando il mercato delle mostre d’arte e che nessun contributo possono portare a una maggiore visibilità di Lecco e del suo territorio.
Il lettore chiederà: e la soluzione?
Concettualmente è semplice: puntare con decisione e coerenza sulle specificità di Lecco e sul patrimonio di intelligenza e sensibilità che la storia ha regalato alla città attraverso le sue grandi personalità.
In primo luogo Alessandro Manzoni. Ma senza dimenticare le altre figure che — ognuna nei propri campi d’azione e di pensiero — hanno definito per Lecco una fisionomia di alto livello (spesso altissimo, pensiamo all’Abate Stoppani) che per molti decenni ha caratterizzato la città lariana e che potrebbe ancora positivamente essere richiamata in determinati contesti (in questo ambito parliamo soprattutto dell’Abate Stoppani, di Ghislanzoni, di Giovan Battista Todeschini, di Carlo Pizzi).
Naturalmente mobilitando nuove sensibilità e metodologie ma sempre sulla base del patrimonio umano e di conoscenze su cui può ancora contare la città di Manzoni.
In Lecco sono attivi studiosi ed esperti che — se coinvolti nelle giuste forme — potrebbero dare un contributo positivo alle iniziative della città.
Ne citiamo solo alcuni (abbiamo già detto di Gianfranco Scotti, gli altri eventualmente esclusi ci scuseranno ma andiamo solo a memoria): Aloisio Bonfanti, Angelo Borghi, Barbara Cattaneo, Francesco D’Alessio, Gian Luigi Daccò, Pietro Dettamanti, Marco Maggioni, Annibale Rota, Tiziana Rota, Marco Sampietro, Giovanna Virgilio.
Cordiali saluti.
Fabio Stoppani
Centro Studi Abate Stoppani