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Note cri­ti­che a: «Viag­gio nel mondo dei Pro­messi Sposi» – 7 aprile 2018 – RAI3/Alberto Angela

18 giu­gno 2018
Let­tera aperta ad Al­berto An­gela – Se­sto approfondimento

Quanto se­gue è uno de­gli otto al­le­gati della «Let­tera aperta ad Al­berto An­gela» di com­mento alla tra­smis­sione «Viag­gio nel mondo dei Pro­messi Sposi» an­data in onda il 7 aprile 2018 – RAI3, 21:30.
I col­le­ga­menti alle al­tre parti della let­tera sono ri­por­tati al piede di que­sta pa­gina o nel menù prin­ci­pale in testata.

Quale il reale interesse di Manzoni per la peste di Milano del 1630?
RAI3-ANGELA non riescono neppure a immaginarlo.

Chi fu il paziente numero zero? Quanti furono i morti?

Per RAI3-ANGELA sarebbero stati questi i temi di maggiore interesse per Manzoni.

Ma Manzoni li riteneva irrilevanti per la comprensione della peste e delle sue conseguenze sull’intero assetto sociale.

Episodio di Cecilia: quale la fonte di ispirazione per Manzoni?

Incongruenza dell’ipotesi “registrazione doppia” dai “Libri Mortuorum”.

Certificata da Manzoni stesso la fonte “Cardinale Borromeo”.

Premessa

.«LA PESTE MANZONIANA». Il tema trat­tato nell’approfondimento (6 mi­nuti e 30 se­condi, il 5,4% del tempo com­ples­sivo) de­di­cato da RAI3-ANGELA all’epidemia che colpì la Lom­bar­dia e Mi­lano nel 1630 avrebbe po­tuto es­sere molto in­te­res­sante.
Ne ha però fatto osta­colo una evi­dente non co­no­scenza della ri­fles­sione di Manzoni.

Nella tra­smis­sione “Viag­gio nel mondo dei Pro­messi Sposi” in­fatti ve­ra­mente poco si è detto sia della pe­ste nella sua di­men­sione sto­rica sia delle mo­ti­va­zioni che spin­sero Man­zoni a farne l’oggetto di una im­pe­gna­tiva ri­cerca, at­tra­verso la quale creò al­cuni dei ca­pi­toli più in­te­res­santi e ar­ti­sti­ca­mente riu­sciti del suo romanzo.

In com­penso si è detto an­che troppo — e troppo su­per­fi­cial­mente — su una ri­cerca bio­chi­mica ef­fet­tuata sui “Li­bri Mor­tuo­rum” del 1630 alla ri­cerca di “no­vità”.

L’eterogeneità de­gli ar­go­menti, ac­ca­ta­stati a ca­sac­cio da RAI3-ANGELA sotto la spinta alla spet­ta­co­la­riz­za­zione, ci ha sug­ge­rito di trat­tare que­sta parte della tra­smis­sione in due di­stinte fasi.

LA PRIMA (che si svi­luppa qui sotto in que­sta stessa pa­gina) ri­guarda l’analisi di ciò che ve­ra­mente in­te­res­sava a Man­zoni nel trat­tare a fondo la pe­ste del 1630 — l’individuazione scien­ti­fica della na­tura del con­ta­gio e i ri­flessi dell’ignoranza sulla vita della collettività.

LA SECONDA, de­di­cata in­vece alla ri­cerca bio­chi­mica, è svi­lup­pata in un’altra pa­gina ti­to­lata «Uo­mini e topi: bio­chi­mica su­blime e pri­mi­ti­vi­smo sto­rico
In que­sta se­conda se­zione si evi­den­ziano due su­per­fi­cia­lità: di RAI3-ANGELA nell’informazione di chi siano i veri ti­to­lari della ri­cerca (sono er­ro­nea­mente in­di­cate isti­tu­zioni uni­ver­si­ta­rie); della ri­cerca stessa, per­du­tasi in­con­sa­pe­vo­le­mente in una in­sa­na­bile con­trad­di­zione storico-documentale.

Chi fu il “paziente numero zero”?
Quanti furono i morti?

Erano questi i temi che maggiormente interessavano Manzoni?

Pen­siamo di no, in dis­senso con RAI3-ANGELA che de­gli in­te­ressi di Man­zoni in re­la­zione alla pe­ste 1630 ci dà una il­lu­stra­zione quasi ca­ri­ca­tu­rale (no­stre le sottolineature).

[1:36:55] ALBERTO ANGELA: «An­cora una volta Ales­san­dro Man­zoni si di­mo­stra uno sto­rico at­tento. Sulla scorta di do­cu­menti dell’epoca, in­fatti, mette in re­la­zione la pe­ste con la Guerra dei Trent’anni.
E rac­conta come il “pa­ziente nu­mero zero”, cioè co­lui che avrebbe por­tato il con­ta­gio a Mi­lano, sia stato un mer­ce­na­rio ita­liano al ser­vi­zio dell’esercito spa­gnolo.

Ora, per quanto pro­fon­da­mente re­li­gioso, di­sap­prova la pro­ces­sione nelle vie della città per im­plo­rare la fine della pe­ste. Scrive che pro­prio da quel giorno la fu­ria del con­ta­gio aumentò.

Ed è molto ac­cu­rato quando ri­porta i dati de­gli sto­rici dell’epoca. Alla fine dell’epidemia gli abi­tanti di Mi­lano sa­reb­bero pas­sati da 250.000 a 64.000. Cioè 3 su 4 sono morti. E a volte si ar­riva a 3.500 morti al giorno. Un dato forse ec­ces­sivo, ma Man­zoni trova que­ste ci­fre ne­gli an­ti­chi do­cu­menti che cita con cura.
E pro­prio di re­cente, ne­gli Ar­chivi di Stato di Mi­lano, si sono re­gi­strate delle im­por­tanti sco­perte.»

Con la sua ul­tima frase An­gela ci pro­mette che la ri­cerca bio­chi­mica “EVA” (pre­sen­tata im­me­dia­ta­mente dopo que­sta sua in­tro­du­zione), ci dirà cose nuove: a) sull’identità del “pa­ziente nu­mero zero”; b) sul nu­mero dei morti. Ar­go­menti che An­gela pro­spetta come quelli più coin­vol­genti per Man­zoni nel trat­tare la pe­ste del 1630.

È così? Op­pure in realtà la ri­cerca “EVA” è orien­tata su tutt’altri ar­go­menti? (vedi a que­sto in­di­rizzo, per avere la ri­spo­sta).

Ri­ma­nendo al “pa­ziente zero” e al “nu­mero dei morti”, siamo certi che An­gela ab­bia ri­por­tato il pen­siero di Man­zoni? O non lo ha piut­to­sto capovolto?

Cerchiamo di dare una risposta di merito iniziando dal “numero dei morti”.

[Pro­messi Sposi 1840, Cap. XXXII, pag. 611, sot­to­li­nea­ture nostre]:

«[…] se vo­gliam cre­dere al Ta­dino. Il quale an­che af­ferma che, “per le di­li­genze fatte”, dopo la pe­ste, si trovò la po­po­la­zion di Mi­lano ri­dotta a poco più di ses­san­ta­quat­tro mila anime, e che prima pas­sava le du­gento cin­quanta mila. Se­condo il Ri­pa­monti, era di sole du­gento mila: de’ morti, dice che ne ri­sul­tava cento qua­ranta mila da’ re­gi­stri ci­vici, ol­tre quelli di cui non si potè te­ner conto. Al­tri di­con più o meno, ma an­cor più a caso

Dal tono di Man­zoni si com­prende che la frase di An­gela se­condo cui Man­zoni «è molto ac­cu­rato quando ri­porta i dati de­gli sto­rici dell’epoca» dice esat­ta­mente l’opposto del pen­siero di Man­zoni.
Il quale è in­vece molto pun­gente nell’indicare la nes­suna at­ten­di­bi­lità dei dati for­niti da­gli storici.

Man­zoni evi­den­te­mente non aveva al­cun in­te­resse a met­tere alla ber­lina Ta­dino e Ri­pa­monti come sto­rici.
Vo­leva in­vece evi­den­ziare la loro re­spon­sa­bi­lità come di­ri­genti della sa­nità e dell’amministrazione della città.
Essi stessi, no­no­stante gli ampi mezzi a di­spo­si­zione, non erano in­fatti nep­pure in grado di sa­pere quanti fos­sero gli abi­tanti della città: erano quindi già per­denti in par­tenza di fronte all’epidemia.

Ma passiamo alla individuazione del “paziente numero zero” che Angela presenta come di grande importanza per Manzoni.

An­che qui le cose stanno agli an­ti­podi di ciò che ci dice Angela.

Man­zoni nelle due edi­zioni de “I Pro­messi Sposi” (1827-1840) si guarda bene dal dire chi fosse se­condo lui il “pa­ziente nu­mero zero”.

Pro­prio al con­tra­rio, egli cri­tica su que­sto punto – e in modo in­si­stito – i due già ri­cor­dati sto­rici coevi alla pe­ste: Ales­san­dro Ta­dino (1580-1661, me­dico e fun­zio­na­rio della città di Mi­lano) e Giu­seppe Ri­pa­monti (1573-1643, sto­rico uf­fi­ciale del Ducato).

Man­zoni scrive che Ta­dino e Ri­pa­monti hanno inu­til­mente de­di­cato molta at­ten­zione alla iden­ti­fi­ca­zione del “pa­ziente zero” (se­condo l’espressione che piace ad An­gela). Man­zoni con­si­dera in­fatti la cosa ir­ri­le­vante ri­spetto al pro­blema cen­trale della na­tura del con­ta­gio e delle mi­sure per fermarlo.

«Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni,»

[“I Pro­messi Sposi”, 1840, pag. 589, sot­to­li­nea­ture nostre]:

«Il Ta­dino e il Ri­pa­monti vol­lero no­tare il nome di chi ce la portò il primo, e al­tre cir­co­stanze della per­sona e del fatto: e in­fatti, nell’osservare i prin­cìpi d’una va­sta mor­ta­lità, in cui le vit­time, non che es­ser di­stinte per nome, ap­pena si po­tranno in­di­care all’incirca, per il nu­mero delle mi­gliaia, na­sce una non so quale cu­rio­sità di co­no­scere que’ primi e po­chi nomi che po­te­rono es­sere no­tati e con­ser­vati: que­sta spe­cie di di­stin­zione, la pre­ce­denza nell’esterminio, par che fac­cian tro­vare in essi, e nelle par­ti­co­la­rità, per al­tro più in­dif­fe­renti, qual­che cosa di fa­tale e di me­mo­ra­bile.
L’uno e l’altro sto­rico di­cono che fu un sol­dato ita­liano al ser­vi­zio di Spa­gna; nel re­sto non sono ben d’accordo, nep­pur sul nome. Fu, se­condo il Ta­dino, un Pie­tro An­to­nio Lo­vato, di quar­tiere nel ter­ri­to­rio di Lecco; se­condo il Ri­pa­monti, un Pier Paolo Lo­cati, di quar­tiere a Chia­venna. Dif­fe­ri­scono an­che nel giorno della sua en­trata in Mi­lano: il primo la mette al 22 d’ottobre, il se­condo ad al­tret­tanti del mese se­guente: e non si può stare nè all’uno nè all’altro. Tutt’e due l’epoche sono in con­trad­di­zione con al­tre ben più ve­ri­fi­cate.
Ep­pure il Ri­pa­monti, scri­vendo per or­dine del Con­si­glio ge­ne­rale de’ de­cu­rioni, do­veva avere al suo co­mando molti mezzi di pren­der l’informazioni ne­ces­sa­rie; e il Ta­dino, per ra­gione del suo im­piego, po­teva, me­glio d’ogn’altro, es­sere in­for­mato d’un fatto di que­sto ge­nere.
Del re­sto, dal ri­scon­tro d’altre date che ci pa­iono, come ab­biam detto, più esatte, ri­sulta che fu, prima della pub­bli­ca­zione della grida sulle bul­lette; e, se ne met­tesse conto, si po­trebbe an­che pro­vare o quasi pro­vare, che do­vette es­sere ai primi di quel mese; ma certo, il let­tore ce ne di­spensa.»

È chiara la ra­gione per la quale Man­zoni punge Ta­dino e Ri­pa­monti sull’incertezza della data di in­gresso in Mi­lano del mi­lite in­fetto. La tesi di Man­zoni in­fatti è che, no­no­stante le chiare av­vi­sa­glie e le in­di­ca­zioni de­gli stessi re­spon­sa­bili della sa­nità, l’amministrazione della città aveva tar­dato più di un mese a pren­dere i ne­ces­sari provvedimenti.

Inol­tre, nella sua amara iro­nia, Man­zoni è molto chiaro. Con que­sta cri­tica a Ta­dino e Ri­pa­monti ci dice che il con­cen­trarsi su certi det­ta­gli in sé e per sé può es­sere in­si­gni­fi­cante ri­spetto alla ve­rità sto­rica e anzi fuor­viante ri­spetto a ciò che mag­gior­mente conta.

E in­fatti Man­zoni con­ti­nua il di­scorso e ci porta sulla que­stione cen­trale, met­ten­doci sotto il naso an­che l’illustrazione di un sol­dato tra­sfor­mato in mer­cante: in spalla porta fa­ti­co­sa­mente qual­cosa che nulla ha a che fare con l’arte della guerra:

«Sia come si sia, en­trò que­sto fante sven­tu­rato e por­ta­tor di sven­tura, con un gran fa­gotto di ve­sti com­prate o ru­bate a sol­dati ale­manni, andò a fer­marsi in una casa di suoi pa­renti, nel borgo di porta orien­tale, vi­cino ai cap­puc­cini; ap­pena ar­ri­vato, s’ammalò; ſu por­tato allo spe­dale; dove un bub­bone che gli si sco­pri sotto un’ascella, mise chi lo cu­rava in so­spetto di ciò ch’ era in­fatti, il quarto giorno morì.»

Ecco!
Man­zoni ha in­tro­dotto l’elemento a suo av­viso cen­trale: «con un gran fa­gotto di ve­sti com­prate o ru­bate a sol­dati ale­manni.» Il con­ta­gio trova pro­prio nelle ve­sti il suo vei­colo principale.

Quelle ve­sti che l’Amministrazione sa­ni­ta­ria mi­la­nese sten­tava a cre­dere po­tes­sero es­sere por­ta­tori di morte; che la gente stessa ri­te­neva in­no­cue, sot­traen­dole an­che alla ri­cerca della po­li­zia sa­ni­ta­ria (cui alla fine si era or­di­nato di bru­ciare tutto ciò che era stato a con­tatto con un ma­lato di pe­ste) e che, pro­fit­tando an­che della inu­suale di­spo­ni­bi­lità (quindi prezzi più bassi), si dava da fare per com­prare, ma­gari per farne dono ai pro­pri bimbi.

Man­zoni è pie­na­mente con­sa­pe­vole di que­sta si­tua­zione per­ché di que­sti ar­go­menti alla fine del primo ven­ten­nio dell’800 tutti parlavano.

La Lom­bar­dia di que­gli anni, già pro­vata nel 1815-16 da ca­re­stia, era stata in­ve­stita nel 1817-18 da una epi­de­mia di tifo pe­tec­chiale che aveva col­pito 37.412 per­sone, con 7.064 morti (in Mi­lano ol­tre 800 su 1.452 in­fetti), fa­cendo te­mere una rie­di­zione di quella spa­ven­tosa espe­rienza del 1630.

E, guarda caso, an­che il tifo pe­tec­chiale ha ne­gli abiti il suo prin­ci­pale vei­colo per­ché in essi trova ot­timo ri­co­vero il pi­doc­chio, tra­smet­ti­tore del tifo se­condo la oggi ben nota tra­fila: il germe re­spon­sa­bile è la Ric­kett­sia pro­wa­ze­kii; il pi­doc­chio suc­chia il san­gue di un in­di­vi­duo in­fetto; il germe passa dallo sto­maco alle feci dell’insetto; il pi­doc­chio punge un al­tro in­di­vi­duo sano che si gratta creando le con­di­zioni per­ché dalle feci del pi­doc­chio il germe possa pas­sare nel suo stesso sangue.

Sem­pre nel 1818, i sol­dati co­lo­niali in­glesi ave­vano im­por­tato dall’Oriente il co­lera, che nei de­cenni suc­ces­sivi fu una ci­clica ca­la­mità per tutta Eu­ropa e l’Italia.

An­cora sol­dati quindi. Che nella dif­fu­sione di que­sto tipo di ma­lat­tia pos­sono es­sere i prin­ci­pali in­vo­lon­tari at­tori ma non gli unici, per­ché è la cir­co­la­zione in­con­trol­lata delle merci che fa cir­co­lare an­che le epidemie.

For­tu­na­ta­mente la sa­nità pub­blica, pur senza an­cora com­pren­dere la na­tura vera delle epi­de­mie e i mec­ca­ni­smi di dif­fu­sione, aveva com­preso l’utilità delle mi­sure pre­ven­tive, del non am­mas­sa­mento dei so­spetti, dell’igiene in ge­ne­rale. Il che valse a con­te­nere il nu­mero dei morti.

Ma sul piano della con­sa­pe­vo­lezza scien­ti­fica nel 1817-18 si erano pre­sen­tati quasi i me­de­simi pro­blemi di centonovant’anni prima.

Quali sono le cause pri­ma­rie del con­ta­gio? Que­sta era la do­manda chiave nel 1630 e lo era an­che nel 1817-18.

Nel corso del ’700 Val­li­sneri e Co­grossi ave­vano dato un no­te­vole con­tri­buto allo svi­luppo del pen­siero me­dico, scon­tran­dosi con le sem­pre do­mi­nanti teo­rie dei mia­smi e della ge­ne­ra­zione spon­ta­nea (de­ge­ne­rate a Mi­lano nella teo­ria delle “un­zioni”, con il se­guito san­gui­na­rio della Co­lonna infame).

Ai loro tempi que­ste “teo­rie” erano so­ste­nute da au­tori come Mu­ra­tori (con cui in­fatti Man­zoni po­le­mizza – “Pro­messi Sposi – Sto­ria della Co­lonna In­fame”, 1840, Cap. VII) ma an­cora ai primi dell’Ottocento non po­te­vano af­fatto con­si­de­rarsi sconfitte.

Man­zoni ne era per­fet­ta­mente con­sa­pe­vole.
Così come era con­sa­pe­vole dell’influenza di­strut­tiva che un ap­proc­cio scien­ti­fi­ca­mente pri­mi­tivo ai pro­blemi ma­te­riali della so­cietà po­teva avere an­che sulla sua strut­tura cul­tu­rale e giu­ri­dica, l’elemento che più sta a cuore a Manzoni.

E quindi Man­zoni con­cen­tra la sua at­ten­zione an­che sull’aspetto scien­ti­fico del pro­blema, pog­gian­dosi sulle ela­bo­ra­zioni di uo­mini a lui vi­cini che pro­prio in que­gli anni si mi­su­ra­vano con i pro­blemi del con­ta­gio con idee in­no­va­trici, veri cam­pioni della verità.

Tra que­sti vi era Fran­ce­sco En­rico Acerbi (1785-1827) non a caso l’unico au­tore con­tem­po­ra­neo che Man­zoni cita in tutto il ro­manzo.
E pro­prio in nota alla de­scri­zione che egli fa della ge­nesi del contagio.

[“I Pro­messi Sposi” 1827 – Tomo 3 – Cap. XXVII – pag. 107-109 (ri­preso con mo­di­fi­che solo sti­li­sti­che nell’edizione 1840)]:

«E non farà ma­ra­vi­glia che la mor­ta­lità cre­scesse e re­gnasse in quel chiuso a se­gno di pren­dere aspetto e, presso a molti, nome di pe­sti­lenza: sia che la riu­nione e l’aumento di tutte quelle cause non fa­cesse che au­men­tare l’attività d’una in­fluenza pu­ra­mente epi­de­mica; sia (come par che av­venga nelle ca­re­stie an­che men gravi e le men pro­lun­gate di quella) che vi avesse luogo un vero con­ta­gio, il quale nei corpi af­fetti e pre­pa­rati dal di­sa­gio e dalla mal­va­gità de­gli ali­menti, dalla in­tem­pe­rie, dal su­di­ciume, dal tra­va­glio e dall’avvilimento trovi la tem­pera, a così dire, e la sta­gione sua pro­pria, le con­di­zioni ne­ces­sa­rie in somma per na­scere, nu­tri­carsi e mol­ti­pli­care (se ad un igno­rante è le­cito lan­ciare que­ste pa­role, die­tro l’ipotesi pro­po­sta da al­cuni fi­sici e ri­pro­po­sta in ul­timo con molte ra­gioni e con molta ri­serva, da uno di­li­gente quanto in­ge­gnoso (1)): sia poi che il con­ta­gio scop­piasse da prima nel laz­ze­retto me­de­simo, come, da una oscura ed ine­satta re­la­zione, par che pen­sas­sero i me­dici della Sa­nità; sia che vi­vesse e an­dasse co­vando prima d’allora, (il che sem­bra forse più ve­ri­si­mile, chi pensi come il di­sa­gio era già an­tico e ge­ne­rale e la mor­ta­lità già fre­quente) e che por­tato là en­tro vi si pro­pa­gasse con nuova e ter­ri­bile ra­pi­dità, per la con­den­sa­zione dei corpi, ren­duti an­che più di­spo­sti a ri­ce­verlo dalla cre­sciuta ef­fi­ca­cia delle al­tre ca­gioni. Qua­lun­que di que­ste con­get­ture sia la vera, il nu­mero quo­ti­diano dei morti nel laz­ze­retto ol­tre­passò in breve il cen­ti­naio.»
.
(1) Del morbo pe­tec­chiale… e de­gli al­tri con­tagi in ge­ne­rale, opera del dott. F. En­rico Acerbi, Cap. III, § 1 e 2.

Ecco, il te­sto so­pra ri­por­tato si può quasi dire un “co­pia e in­colla” da parte di Man­zoni di con­cetti e frasi del li­bro di Acerbi ap­pena citato.

Ma chi era Acerbi? E cosa significava la sua opera citata da Manzoni?

Il li­bro «Dot­trina teo­rico-pra­tica del morbo pe­tec­chiale: con nuove ri­cer­che in­torno l’origine, l’indole, le ca­gioni pre­di­spo­nenti ed ef­fet­trici, la cura e la pre­ser­va­zione del morbo me­de­simo in par­ti­co­lare, e de­gli al­tri con­tagi in ge­ne­rale» di En­rico Acerbi venne pub­bli­cato a Mi­lano nel 1822.

I pa­ra­grafi 1 e 2 ri­cor­dati da Man­zoni oc­cu­pano 78 pa­gine (pag. 286-363) nelle quali Acerbi fa il punto con una no­te­vo­lis­sima ca­pa­cità di sin­tesi e an­che di espres­si­vità let­te­ra­ria su tutte le pro­ble­ma­ti­che di base delle ma­lat­tie contagiose.

Nel ci­tare Acerbi Man­zoni ci dice espli­ci­ta­mente: io vi ho espo­sto il tema, ma da di­let­tante. Se vo­lete farvi un’idea pre­cisa, scien­ti­fica della que­stione, an­date a leg­gervi al­meno le 78 pa­gine del dot­tor En­rico Acerbi, che vi ho segnalato.

L’opera su­scitò una no­te­vole eco per­ché era se non l’unica certo la più si­ste­ma­tica e bril­lante de­nun­cia delle vec­chie con­ce­zioni sulla na­tura del contagio.

Una avan­za­tis­sima espo­si­zione della teo­ria delle ma­lat­tie con­ta­giose come pro­vo­cate da “so­stanza or­ga­niz­zata” (cioè es­seri vi­venti), in netta op­po­si­zione con le teo­rie di mia­smi, cor­ru­zione dell’aria, pre­di­spo­si­zione na­tu­rale, in­fluenze astrali, ecc. ecc. che sotto sotto in­fi­cia­vano an­cora l’azione di molti me­dici.
.
Una po­si­zione che, as­sieme a quelle di al­tri (Ago­stino Bassi, per esem­pio), apri­rono ma­gi­stral­mente la strada a Pa­steur nelle sue ri­vo­lu­zio­na­rie sco­perte di po­chi de­cenni dopo.

Ecco come Acerbi sin­te­tizza l’oggetto della sua ri­cerca (Dot­trina del morbo pe­tec­chiale, pag. VIII):

«In con­chiu­sione mi son de­ter­mi­nato di dare la pre­fe­renza so­pra tutte a quella ipo­tesi che fa con­si­stere la ca­gione ef­fi­ciente dei Con­tagi in par­ti­co­lari es­seri or­ga­nici, i quali, sotto di al­cune cir­co­stanze, si svi­lup­pano, vi­vono e si mol­ti­pli­cano a danno dell’uomo.»
.
(pag. 282) «La ca­gione ef­fet­trice di una ma­lat­tia con­ta­giosa con­si­ste in una spe­ci­fica so­stanza or­ga­niz­zata la quale è ca­pace di man­te­nersi e di ri­pro­dursi se­condo le leggi co­muni di tutti gli es­seri do­tati di vita [os­sia, pag. 355] di al­cune spe­cie di es­seri vi­venti pa­ras­siti i quali, in certe cir­co­stanze di tempo, di luogo e di per­sona, si get­tano sui corpi umani, vi si svi­lup­pano, si mol­ti­pli­cano e da­gli uni si co­mu­ni­cano ne­gli al­tri prin­ci­pal­mente per mezzo del con­ta­gio de­gli in­fermi coi sani. Quali siano que­sti es­seri vi­venti mor­bi­fici noi lo igno­riamo e forse non ar­ri­ve­remo mai a sa­perlo. Per al­tro, prima di ab­ban­do­nare la spe­ranza di que­sta sco­perta, credo che i me­dici ed i na­tu­ra­li­sti do­vreb­bero fare ogni sforzo e ten­ta­tivo per riu­scirvi, s’egli è pos­si­bile.»

Se Acerbi non fosse morto così pre­sto, avrebbe certo ap­pro­fon­dito il suo con­tri­buto e avrebbe vi­sta di­mo­strata la va­li­dità delle pro­prie ipo­tesi, so­ste­nute con tanta dot­trina e co­no­scenza.
Non stu­pi­sce che Man­zoni, an­che sotto l’influenza di quell’uomo di ta­lento, de­ci­desse di dare il pro­prio con­tri­buto di uma­ni­sta e di ar­ti­sta a quello che gli parve – ed era ef­fet­ti­va­mente – uno dei mag­giori pro­blemi dell’epoca.

Da qui il suo grande stu­dio sulla pe­ste del 1630 di Mi­lano, con­dotto adot­tando i punti di vi­sta di quel suo bril­lante coe­ta­neo cui era tra l’altro le­gato da ot­timi rap­porti personali. 

La fa­mi­glia Acerbi di Ca­stano Primo (po­chi chi­lo­me­tri da Mi­lano) era da anni in con­tatto con Giu­lia Bec­ca­ria, la ma­dre di Man­zoni, in quanto essa pos­se­deva nel paese un im­mo­bile, la cui cura aveva af­fi­dato a uno zio di Enrico.

Que­sti era ri­ma­sto pre­stis­simo or­fano del pa­dre Giu­seppe (anch’egli me­dico, morto nel 1786 di tifo pe­tec­chiale) e la fa­mi­glia si era molto im­pe­gnata per ga­ran­tire gli studi al gio­vane, che mo­strava spic­cati pre­coci ta­lenti e in­te­ressi di os­ser­va­tore e di naturalista.

Man­zoni e Acerbi co­min­cia­rono a fre­quen­tarsi at­torno al 1820 quando Acerbi di­venne me­dico della fa­mi­glia Man­zoni, pro­prio nel pe­riodo in cui stava ri­fi­nendo la sua opera sul tifo petecchiale.

Man­zoni av­viò la prima ste­sura del ro­manzo nel 1821 e non si fa fa­tica a tro­vare an­che nei suoi primi ma­no­scritti l’influenza dell’amico medico-scienziato.

Ne­gli ap­punti per la prima ste­sura del ro­manzo non si fa ri­fe­ri­mento di­retto ad Acerbi ma vi è una lunga e det­ta­gliata ri­ven­di­ca­zione (“Fermo e Lu­cia”, Mon­da­dori 1954, Cap. III, pp. 548-564) della ne­ces­sità di rin­no­vare il pen­siero scien­ti­fico, senza la­sciarsi im­bri­gliare dalle con­ce­zioni ar­re­trate e oscurantiste.

In quei primi ap­punti del Man­zoni si co­glie l’eco del di­bat­tito che Acerbi aveva sol­le­vato nell’ambiente mi­la­nese già a par­tire dal 1816 all’interno dell’Ospedale Maggiore.

In aperta po­le­mica con una di­ri­genza lenta a rin­no­varsi (da leg­gere il suo di­bat­tito del 1819 con il Pri­ma­rio Lo­ca­telli) e de­ciso so­ste­ni­tore della “me­di­cina di os­ser­va­zione”, per l’epoca rivoluzionaria.

Di tutto ciò, pur­troppo, nella tra­smis­sione di RAI3-ANGELA nep­pure un pal­lido ac­cenno.
E pen­sare che Acerbi, ol­tre a dare alle ri­fles­sioni di Man­zoni una so­lida base scien­ti­fica, gli fu ve­ra­mente vicino.

Sia come me­dico per­so­nale dell’intera fa­mi­glia Man­zoni (dal 1820 alla pro­pria pre­ma­tura morte) sia per gli af­fet­tuo­sis­simi rap­porti che egli sta­bilì con i fi­gli di Man­zoni (Giu­lietta scri­veva di lui an­che a Fau­riel) e con la ma­dre Giu­lia che egli, in una delle sue ul­time let­tere del 1827, or­mai con­sa­pe­vole della morte vi­cina, chiama “la mia cara se­conda mammina”.

Il secondo fronte della riflessione di Manzoni sulla peste.

Man­zoni stu­dia il pro­blema della pe­ste del 1630 non solo per l’attualità delle ma­lat­tie epi­de­mi­che ne­gli anni a ca­vallo del 1817-1820, ma an­che per­ché, at­tra­verso la rap­pre­sen­ta­zione di quella spie­tata tra­ge­dia col­let­tiva, ha modo di evi­den­ziare quali danni pos­sono por­tare alla sa­lute e alla vita ma­te­riale dei cit­ta­dini l’ignoranza dei fe­no­meni, l’incompetenza, il ca­rat­tere aso­ciale de­gli in­te­ressi politico-militari.

E allo stesso tempo quali danni que­ste stesse man­canze pos­sono por­tare al di­ritto e al patto di con­vi­venza, fa­vo­rendo l’appannamento dell’intelligenza e l’affermazione di con­ce­zioni e prassi del di­ritto stu­pi­da­mente sanguinarie.

Sotto que­sto pro­filo Man­zoni è an­dato ben ol­tre il pro­prio nonno Bec­ca­ria, che si era espresso in un il­lu­mi­ni­smo pu­ra­mente pe­nale, senza al­lar­gare l’analisi all’intera società.

E mille mi­glia avanti ri­spetto alla fi­gura, che ne vo­gliono dare RAI3-ANGELA, di un uomo me­dio­cre­mente solo “molto at­tento alle ci­fre dei do­cu­menti antichi”.

Non ac­cor­gersi della grande at­tua­lità del pen­siero di Man­zoni è pur­troppo non ren­dersi conto che i pro­blemi da lui trat­tati sulla sa­lute col­let­tiva sono an­cora pre­senti, più o meno ne­gli stessi ter­mini del 1630, come di­mo­stra – ne ac­cen­niamo solo come esem­pio – il di­bat­tito at­tuale sulle vac­ci­na­zioni d’obbligo.

Quale oc­ca­sione mi­gliore di una tra­smis­sione di “cul­tura po­po­lare” (tale è au­to­re­vol­mente va­lu­tata quella di An­gela), de­di­cata a Man­zoni, per ren­derne at­tuale il pen­siero e spin­gere i te­le­spet­ta­tori a una ri­fles­sione più pon­de­rata sui pro­blemi scot­tanti dell’oggi?

Quali le fonti di ispirazione di Manzoni?

Incongruenza dell’ipotesi “registrazione doppia” dai “Libri Mortuorum”.
Dichiarata dallo stesso Manzoni la fonte “Cardinale Borromeo”.

Dopo il non sma­gliante ap­pro­fon­di­mento sul “pa­ziente zero”, la tra­smis­sione “Viag­gio nel mondo dei Pro­messi Sposi” ci pro­pone una “in­no­va­zione” sulle pos­si­bili fonti di Man­zoni per le sue in­ven­zioni letterarie.

Per scelta di sem­pre noi siamo fa­vo­re­vo­lis­simi alle in­no­va­zioni. E quindi ten­diamo a con­si­de­rare ciò che viene pro­po­sto come tale con at­ten­zione, per­ché non si fi­ni­sca per pre­sen­tare come in­no­va­zioni mal con­ge­gnate invenzioni.

Sap­piamo be­nis­simo che die­tro l’ipotesi che di se­guito si di­scu­terà vi è solo l’ottima in­ten­zione di at­ti­rare sui do­cu­menti dell’Archivio di Stato di Mi­lano l’attenzione del pub­blico, nel qua­dro di una bella cam­pa­gna di co­no­scenza di que­sta im­por­tante isti­tu­zione della cul­tura mi­la­nese e ita­liana an­che presso i non specialisti.

Come bene di­cono il Di­ret­tore Com­pa­gnoni e i fun­zio­nari della pre­sti­giosa isti­tu­zione, l’Archivio di Stato è pa­tri­mo­nio di tutti i cit­ta­dini. E sa­rebbe bello che sem­pre più nu­me­rosi i cit­ta­dini (an­che non ri­cer­ca­tori più o meno di pro­fes­sione), lo con­si­de­ras­sero come un luogo ac­ces­si­bile, dove stu­diare e ap­pren­dere cose in­te­res­santi per la no­stra sto­ria e – quindi – per l’attualità.

La buona in­ten­zione è evi­dente e certo con­di­vi­si­bile. Ma è sem­pre op­por­tuno stare con i piedi bene per terra.

[1:42:45] BENEDETTO LUIGI COMPAGNONI – Di­ret­tore Ar­chi­vio di Stato di Mi­lano.
«Il Man­zoni è molto ac­cu­rato nel rac­con­tare la pe­ste. Si­cu­ra­mente lui si av­va­leva di col­la­bo­ra­tori che man­dava in giro per ar­chivi, e po­treb­bero aver vi­sto i no­stri re­gi­stri, sui quali ci sono delle an­no­ta­zioni che ri­chia­mano ad esem­pio l’episodio di Ce­ci­lia, la pic­cola bimba che viene de­po­si­tata con amore dalla mamma sul carro dei mo­natti

VOCE FUORI CAMPO: «Ad­dio Ce­ci­lia, ri­posa in pace. Sta­sera ver­remo an­che noi per re­stare sem­pre in­sieme.»

Sullo schermo pas­sano poi al­cune scene sug­ge­stive: la ma­dre che de­pone la bimba sul carro / un te­sto ma­no­scritto, men­tre la VOCE FUORI CAMPO ci dice: «Mar­ghe­rita Mora, anni 30, Bianca Mora, anni 10 morte di pe­ste

Spinto da tali sol­le­ci­ta­zioni, ogni spet­ta­tore (an­che il meno in­cline alla te­ne­rezza) è ine­vi­ta­bil­mente por­tato a pen­sare che “Mar­ghe­rita et Bianca” siano ma­dre e fi­glia e che la re­gi­stra­zione “dop­pia” mo­strata in tra­smis­sione po­trebbe ef­fet­ti­va­mente avere ispi­rato a Man­zoni il ce­le­bre epi­so­dio di Ce­ci­lia del ca­pi­tolo XXXV de “I Pro­messi Sposi”.

Ma se pro­viamo a con­si­de­rare la cosa dal punto di vi­sta della lo­gica della nar­ra­zione, la sug­ge­stione può ap­pa­rire non così fondata.

A pro­po­sito dell’ipotesi, so­ste­nuta con de­ci­sione da RAI3-ANGELA, se­condo cui Man­zoni o suoi col­la­bo­ra­tori avreb­bero con­sul­tato i “Li­bri Mor­tuo­rum” della BUSTA 119, il Di­ret­tore Com­pa­gnoni, an­che per il suo ruolo ben con­sa­pe­vole di quanto sia d’obbligo la pru­denza nell’analisi del pas­sato, si li­mita a dire che i “col­la­bo­ra­tori” di Man­zoni “po­treb­bero” avere con­sul­tato i re­gi­stri dei decessi.

Co­mun­que sia, è op­por­tuno se­gna­lare che i “Li­bri Mor­tuo­rum” (or­mai il let­tore ne ha fa­mi­glia­rità) ri­por­tano mol­tis­sime re­gi­stra­zioni non solo “dop­pie“, ma an­che tri­ple e qua­dru­ple, quando non di in­tere fa­mi­glie, come è fa­cil­mente intuibile.

Ma­rito e mo­glie, ge­ni­tori e fi­gli, pa­renti vari, spesso al­lora più di oggi a stretto con­tatto quo­ti­diano, ve­ni­vano fre­quen­te­mente col­piti in­sieme dalla morte. Dai fun­zio­nari che ope­ra­vano sul campo i loro nomi ve­ni­vano quindi ri­por­tati su un’unica re­gi­stra­zione (spesso un sem­plice fo­glietto), ri­tra­scritta senza ul­te­riori rie­la­bo­ra­zioni sui re­gi­stri uf­fi­ciali da­gli scri­vani del Ma­gi­strato di Sanità.

Va da sé quindi che se (fac­ciamo un esem­pio) il giorno 20 giu­gno 1630 fos­sero morte in­sieme, o a di­stanza di po­che ore, la si­gnora Mar­ghe­rita Mora di anni 30 e la fi­glia Bianca di anni 10, esse sa­reb­bero state rac­colte, se­polte e re­gi­strate in­sieme.
Se in­vece la ma­dre Mar­ghe­rita fosse morta an­che uno o due giorni dopo la fi­glia Bianca, sa­reb­bero state rac­colte, se­polte e se­gnate se­pa­ra­ta­mente, con re­gi­stra­zioni differenziate.

At­ten­zione! Stiamo par­lando di set­ti­mane nelle quali in Mi­lano mo­ri­vano an­che cen­ti­naia di per­sone al giorno (con­tro le 12-15 dei pe­riodi nor­mali). Era es­sen­ziale ri­muo­vere al più pre­sto da case e strade i ca­da­veri e por­tarli im­me­dia­ta­mente alle grandi fosse co­muni sca­vate a lato del Laz­za­retto e ne­gli al­tri ci­mi­teri cittadini.

Ma leg­giamo cosa scrive Manzoni.

«Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio.»

[“I Pro­messi Sposi” 1840 Cap. XXXIV, pp. 661-663, sot­to­li­nea­ture nostre]:

«En­trato nella strada, […] il suo sguardo [di Renzo] s’incontrò in un og­getto sin­go­lare di pietà […]. Scen­deva dalla so­glia d’uno di que­gli usci, e ve­niva verso il con­vo­glio, una donna, […]. Por­tava essa in collo una bam­bina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben ac­co­mo­data, co’ ca­pelli di­visi sulla fronte, con un ve­stito bian­chis­simo, come se quelle mani l’avessero ador­nata per una fe­sta pro­messa da tanto tempo, e data per pre­mio. […]
Un turpe mo­natto andò per le­varle la bam­bina dalle brac­cia, con una spe­cie però d’insolito ri­spetto, con un’esitazione in­vo­lon­ta­ria. Ma quella […] disse: « non me la toc­cate per ora; devo met­terla io su quel carro » […] La ma­dre dato a que­sta un ba­cio in fronte, la mise lì come sur un letto, […] e disse I’ultime pa­role: “ad­dio, Ce­ci­lia! ri­posa in pace! Sta­sera ver­remo an­che noi, per re­star sem­pre in­sieme”. […] Poi vol­ta­tasi di nuovo al mo­natto, “voi,” disse, “pas­sando di qui verso sera, sa­li­rete a pren­dere an­che me, e non me sola.”
Cosi detto, rien­trò in casa, e, un mo­mento dopo, s’affacciò alla fi­ne­stra, te­nendo in collo un’altra bam­bina più pic­cola, viva, ma coi se­gni della morte in volto. […] poi di­sparve. E che al­tro potè fare, se non po­sar sul letto l’unica che le ri­ma­neva, e met­ter­sele ac­canto per mo­rire in­sieme? come il fiore già ri­go­glioso sullo stelo cade in­sieme col fio­rel­lino an­cora in boc­cia, al pas­sar della falce che pa­reg­gia tutte l’erbe del prato.
« O Si­gnore! » esclamò Renzo: “esau­di­tela! ti­ra­tela a voi, lei e la sua crea­tu­rina: hanno pa­tito ab­ba­stanza! hanno pa­tito abbastanza!”»

Chie­diamo al let­tore di te­nere in sé l’emozione par­te­ci­pa­tiva e di con­si­de­rare per un mo­mento que­sto epi­so­dio sotto il pro­filo della di­na­mica narrativa.

Come è chiaro, l’episodio di cui è par­te­cipe lo spet­ta­tore Renzo è com­po­sto di DUE mo­menti, en­trambi me­diati da Renzo stesso, ma ben distinti:

a) la ma­dre esce di casa con la bimba (9 anni, dice Man­zoni) morta tra le brac­cia (adorna di una ve­ste do­na­tale dalla stessa mamma), e la de­pone sul carro; dice al mo­natto di pas­sare a sera per pren­dere an­che lei, e non sarà sola;

b) rien­trata in casa, la ma­dre si af­fac­cia alla fi­ne­stra e guarda il carro che si al­lon­tana con la bimba morta. Ma in brac­cio ella tiene un’altra sua bimba, più pic­cola (5-6 anni?), viva ma con i se­gni della morte sul viso.
At­tra­verso l’immaginazione di Renzo, ve­diamo che la donna si al­lon­tana dalla fi­ne­stra, de­pone sul letto la bimba e le si co­rica al fianco, in at­tesa della morte che le re­ci­derà in­sieme, con un unico colpo di falce.
Renzo, forse per la prima volta nel ro­manzo, pro­rompe in un’esclamazione di vera mi­se­ri­cor­dia, più da sa­cer­dote-fi­lo­sofo che da uomo del mondo qual egli era (poco dopo, ar­mato di col­tello, mi­nac­cerà di morte chiun­que si provi a toc­carlo): «O Si­gnore!» sclamò Renzo : «esau­di­tela, pi­glia­tela con voi, lei e quella sua crea­tu­rina: hanno pa­tito ab­ba­stanza! hanno pa­tito abbastanza!».

Co­min­ciamo dal se­condo mo­mento – la morte con­tem­po­ra­nea di ma­dre e figlia.

Dando corso all’immaginazione di Renzo e alla sua escla­ma­zione di pietà, pos­siamo pre­fi­gu­rarci una con­clu­sione più o meno in que­sti termini:

La bimba morta, de­po­sta sul carro dalla ma­dre, viene re­gi­strata con il suo nome e co­gnome, forse an­che in­di­cando di chi era fi­glia; por­tata as­sieme agli al­tri ca­da­veri in uno dei ci­mi­teri della città, viene se­polta pro­ba­bil­mente in una fossa co­mune; la sera, o il giorno dopo, i mo­natti ri­pas­sano da quella via.
.
Lì in quella stessa casa tro­vano morte sul me­de­simo letto la ma­dre e la pic­cola fi­glia; le ca­ri­cano sul carro e le por­tano a uno dei ci­mi­teri della città per la se­pol­tura.
.
L’anziano della Par­roc­chia prende nota del nome delle due de­funte, pos­si­bil­mente della loro età; il me­dico o il pra­tico che ac­com­pa­gna i mo­natti trac­cia una sin­te­ti­cis­sima dia­gnosi delle cause della morte (in que­sto caso “pe­ste”); i loro nomi ven­gono po­sti af­fian­cati su un fo­glietto.
.
La sera stessa o il giorno suc­ces­sivo la nota viene por­tata agli uf­fici del Ma­gi­strato di Sa­nità, dove ven­gono re­gi­strati i de­cessi av­ve­nuti per strada o nelle abi­ta­zioni, co­mun­que in città (sono quelli della BUSTA 119).
.
Al Tri­bu­nale di Sa­nità, in un qual­che mo­mento suc­ces­sivo (forse il giorno dopo, forse dopo una set­ti­mana) la morte di ma­dre e fi­glia viene se­gnata su uno dei “Li­bri Mor­tuo­rum”.
.
Se l’Anziano nella sua nota ha in­di­cato che si tratta di ma­dre e fi­glia, è fa­cile che lo scri­vano ri­porti i due nomi in una unica an­no­ta­zione, per es.: «Die vi­ge­simo Ju­nij 1630 / Mar­ga­ritta Mora et / Blanca eius fi­lia de­ces­sere Pe­ste iud. So­ror­da­nus («Venti giu­gno 1630 / Mar­ghe­rita Mora / e Bianca sua fi­glia, morte di pe­ste a giu­di­zio di So­ror­dano [il me­dico che ha va­lu­tato le cause della morte].»

Il let­tore ha già ca­pito cosa vo­gliamo dire: la ma­dre e la fi­glia re­gi­strate in­sieme sa­reb­bero quelle che l’immaginazione di Renzo ci sug­ge­ri­sce morte in­sieme, co­ri­cate sul me­de­simo letto.

Non la ma­dre e Ce­ci­lia, la quale è morta ov­via­mente prima della ma­dre e che è stata certo re­gi­strata a sé.

Dal punto di vi­sta nar­ra­tivo, quindi, chi vuole ve­dere nell’episodio di Ce­ci­lia, l’espressione ar­ti­stica di una dop­pia re­gi­stra­zione sul li­bro dei morti, è co­stretto a eser­cizi di sti­ra­mento ve­ra­mente ardui.

La dop­pia re­gi­stra­zione sa­rebbe in­vece coe­rente con una scena che veda ma­dre e fi­glia mo­renti fianco a fianco sul letto di casa.

Ma que­sta rap­pre­sen­ta­zione manca di evi­denti ele­menti sce­nici e quindi non è stata né svi­lup­pata da Man­zoni (che ne fa solo un ac­cenno, raf­for­zato esclu­si­va­mente dall’esclamazione im­pie­to­sita di Renzo) né (che ci ri­sulti) espresso in al­cuna ico­no­gra­fia di un certo ri­lievo.
E in­fatti della pic­cola che morrà con la ma­dre, Man­zoni non dice nep­pure il nome: è una delle tante morti nella Mi­lano de­va­stata dalla morte.

La se­quenza che RAI3-ANGELA hanno vo­luto pre­sen­tare al pub­blico — ma­dre che de­pone Ce­ci­lia sul carro; re­gi­stra­zione dop­pia dal “Li­bri Mor­tuo­rum” — è sug­ge­stiva ma sul piano nar­ra­tivo non fun­ziona per nulla e si scon­tra con le leggi di ogni rac­conto, dol­ce­mente fer­ree in ogni tempo e luogo, per ogni lin­gua e popolo.

La fonte di Manzoni è il Cardinale Borromeo in persona. Parola di Manzoni!

D’accordo! dirà il let­tore, ma è così sba­gliato pen­sare che Man­zoni per le sue sto­rie pren­desse spunto dalle sue molte letture?

Niente af­fatto e pro­prio al con­tra­rio! Man­zoni era un grande uti­liz­za­tore di rac­conti al­trui – come tutti gli scrit­tori del re­sto.
Es­sendo però uomo probo non agiva di na­sco­sto ma po­nendo le sue fonti pro­prio sotto il naso dei let­tori. E bene in luce, per­ché an­che i di­stratti se ne accorgessero.

Nel caso dell’episodio di Ce­ci­lia (come nel cam­meo delle ca­pre-ba­lia al Laz­za­retto) Man­zoni ha una fonte di grande pre­sti­gio spi­ri­tuale e di alto li­vello ge­rar­chico.
È anzi uno dei per­so­naggi chiave de “I Pro­messi Sposi”, il Car­di­nal Fe­de­rico Bor­ro­meo in persona.

Que­sti morì nel 1632 e la­sciò in­com­piuto un ma­no­scritto, con­ser­vato presso la Bi­blio­teca Am­bro­siana di Mi­lano, dal ti­tolo «De pe­sti­len­tia quae Me­dio­lani anno 1630 ma­gnam stra­gem edi­dit» [“Sulla pe­sti­lenza che grande strage ar­recò a Mi­lano nel 1630”]

Il ma­no­scritto (qual­che anno fa tra­scritto e stam­pato) era ci­tato da Ri­pa­monti (che di Bor­ro­meo fu an­che se­gre­ta­rio) e Man­zoni (at­tento let­tore di Ri­pa­monti) cer­ta­mente lo lesse nell’originale o ne ebbe co­pia.
E non solo lo citò più volte nei ca­pi­toli del ro­manzo de­di­cati alla pe­ste ma ne prese spunto (an­che let­te­rale) per al­cuni dei suoi episodi.

Per esem­pio, la de­scri­zione del ruolo di ba­lie delle ca­pre al Laz­za­retto è presa pres­so­ché in­te­gral­mente dal ma­no­scritto di Bor­ro­meo (lo se­gna­liamo agli amici della ri­cerca «Of mice and men-Uo­mini e topi») e – guarda caso – an­che l’episodio di Cecilia.

Nel 1903 Giu­seppe Galli in un suo ar­ti­colo (“Un’operetta ine­dita del car­di­nale Fe­de­rico Bor­ro­meo so­pra la pe­ste in Mi­lano ed i Pro­messi Sposi”, Ar­chi­vio Sto­rico Lom­bardo: Gior­nale della so­cietà sto­rica lom­barda) fece del ma­no­scritto di Bor­ro­meo un’attenta let­tura, evi­den­zian­done i brani ai quali (a suo av­viso) si era ispi­rato Man­zoni per di­versi epi­sodi, re­la­tivi so­prat­tutto alla pe­ste di Milano.

Ci­tiamo da que­sto con­tri­buto di Galli, man­te­nendo la sua let­tura del la­tino (se vi sono er­rori di tra­scri­zione dal ma­no­scritto, il let­tore scu­serà Galli e noi, che se­guiamo Galli).

[Dal “De pe­sti­len­tia” di Bor­ro­meo, in­di­cato da Galli come «c. 35a.»]: «No­ven­nis puella cum in con­spectu ma­tris oc­cu­buis­set, no­luit ma­ter tolli ad ve­spil­lo­ni­bus eam, sed im­po­suit ipsa plau­stro ca­da­ver, ob­ver­sa­que ad ve­spil­lo­nes: vos vero, ho­die ve­speri, me tol­le­tis, in­quit; re­gres­sa­que in cu­bi­cu­lum, et ex fe­ne­stra fi­liae fu­nus id con­tem­plata, paulo post estin­gui­tur».
.
[no­stra tra­du­zione] «Es­sendo morta una bimba di nove anni sotto gli oc­chi della ma­dre, que­sta non volle che i por­ta­tori la toc­cas­sero, ma essa stessa pose il ca­da­vere sul carro, e ri­volta ai por­ta­tori: que­sta sera di certo pren­de­rete me, disse; rien­trata nella casa, e con­tem­plato un tal fu­ne­rale della fi­glia, poco dopo morì.»

Se ri­leg­gete l’episodio di Ce­ci­lia che ab­biamo ri­por­tato più so­pra, ve­drete che Man­zoni ri­prese in­te­gral­mente l’episodio nar­rato da Bor­ro­meo e di suo vi mise in più solo le op­por­tune e ap­prez­za­tis­sime co­lo­ri­ture artistiche.

Non ri­te­niamo vi sia bi­so­gno di dire al­tro circa la fonte cui at­tinse Man­zoni per l’episodio di Ce­ci­lia, se non ri­cor­dare che egli volle dare ri­salto a que­sto suo de­bito nei con­fronti del Car­di­nal Borromeo.

[“I Pro­messi Sposi”, 1840, Cap. XXXII, pag. 622]: «Nella bi­blio­teca am­bro­siana si con­serva un’operetta scritta di sua mano [di Bor­ro­meo] in­torno a quella peste […]»

e im­me­dia­ta­mente sotto Man­zoni ri­porta l’illustrazione di una ri­pro­du­zione del ma­no­scritto, quasi a dare cer­ti­fi­ca­zione “fo­to­gra­fica” della sua con­creta esistenza.

Ciò detto, vor­remmo chiu­dere que­sta lunga pa­gina de­di­cata alla “Pe­ste Man­zo­niana” se­condo RAI3-ANGELA con una ri­fles­sione re­la­tiva all’uso ma­gi­strale che Man­zoni fece della ri­presa in chiave ar­ti­stica di idee espresse in al­tri mo­menti del ro­manzo nel lin­guag­gio in­vece della de­scrit­tiva ana­lisi storica.

E lo fa­remo pro­prio par­tendo dall’episodio di Cecilia.

È la nostra ingenua inconsapevolezza che ci perde!

Ab­biamo detto so­pra come Man­zoni ab­bia ri­preso quasi alla let­tera il ma­no­scritto di Bor­ro­meo, in­se­ren­dovi di pro­prio gli ele­menti ar­ti­stici della narrazione.

Tra que­sti la pre­senza della se­conda fi­glia, an­cora viva, ac­canto alla quale la ma­dre di Ce­ci­lia mo­rirà presto.

Man­zoni in­tro­dusse poi ele­menti de­scrit­tivi, in parte pu­ra­mente psi­co­lo­gici (il ri­spetto del mo­natto), in parte in­vece fun­zio­nali al filo del suo di­scorso sulle cause della pe­ste, tra­scu­rate dall’amministrazione e fa­vo­rite dalla stessa po­po­la­zione in­con­sa­pe­vole della se­rietà del pericolo.

Ri­spetto all’asciutto rac­conto di Bor­ro­meo, Man­zoni ag­giunge un ele­mento su cui ri­chiama l’attenzione del suo let­tore: l’abbigliamento della bimba morta.

«[…] ma com­po­sta, ac­con­cia, con le chiome di­vise in su la fronte, in una ve­ste bianca, mon­dis­sima come se quelle mani l’avessero or­nata per una fe­sta pro­messa da tanto tempo, e con­ce­duta in premio.»

Cosa vuole sot­to­li­neare Man­zoni con quelle pa­role: «come se quelle mani l’avessero or­nata per una fe­sta pro­messa da tanto tempo, e con­ce­duta in pre­mio

È chiaro come il ri­fe­ri­mento alla “ve­ste” sia da porre in re­la­zione alla “robba”.

Quella “robba” che il Ma­gi­strato di sa­nità aveva in­di­cato come uno dei vei­coli più pe­ri­co­losi per il con­ta­gio, ma solo dopo avere la­sciato che en­tras­sero in città senza al­cun con­trollo per­sone forse con­ta­giate, tra cui quel «fante sven­tu­rato e por­ta­tor di sven­tura, con un gran fa­gotto di ve­sti com­prate o ru­bate a sol­dati alemanni.»

Quella “robba” a pro­po­sito della quale Fe­de­rico Bor­ro­meo aveva im­me­dia­ta­mente or­di­nato ai sa­cer­doti di per­sua­dere la gente a non com­prar ve­stiti. Ma la gente non ci aveva sen­tito: aveva anzi na­sco­sto i panni per­ché non ve­nis­sero bru­ciati, fa­vo­rendo così la dif­fu­sione del morbo.

Forse la ma­dre di Ce­ci­lia aveva do­nato essa stessa alla pic­cola fi­glia la “can­dida ve­ste per una fe­sta”. Ma quella ve­ste, do­nata con amore, era por­ta­trice di morte.

Man­zoni di­pinge con crudo rea­li­smo, at­te­nuato solo dalla de­scri­zione della pietà e dell’amore ma­terno, il mec­ca­ni­smo in­vin­ci­bile della dif­fu­sione del contagio.

Al­tro che un­tori! Al­tro che ne­mici! Man­zoni ce lo dice chiaro: siamo noi stessi che, nella no­stra in­con­sa­pe­vole igno­ranza, ci fac­ciamo agenti della di­stru­zione dei no­stri e nostra.

Il ri­me­dio? Cer­care – sem­pre e in ogni cir­co­stanza – di te­nere la mente sgom­bra dai pre­giu­dizi; fug­gire la pi­gri­zia; non te­mere il con­fronto; agire con one­stà intellettuale.