18 giugno 2018
Lettera aperta ad Alberto Angela – Quarto approfondimento
Quanto segue è uno degli otto allegati della «Lettera aperta ad Alberto Angela» di commento alla trasmissione «Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi» andata in onda il 7 aprile 2018 – RAI3, 21:30.
I collegamenti alle altre parti della lettera sono riportati al piede di questa pagina o nel menù principale in testata.
Fantasie giuridiche sui meccanismi delle “monacazioni forzate”.
Nessun obbligo di legge circa la primogenitura ma calcolo ponderato delle convenienze economiche.
Tra le zie di Manzoni, non solo ex-suore (“spigliate e disinvolte”) ma anche laiche, sposate e à la page.
Premessa
Sulle cause a monte delle “monacazioni forzate” la trasmissione di Angela sostiene una tesi errata nel suo stesso presupposto, e così svuota di senso il pensiero di Manzoni.
Come abbiamo visto altrove, con riferimento alla “Monaca di Monza” (vedi Manzoni e la Monaca di Monza: la famiglia violenta, paradigma della società), Manzoni aveva concentrato l’attenzione dei suoi lettori sulla coartazione e violenza psicologica subita dalla giovane Gertrude, accennando solo di sfuggita ai suoi comportamenti “erotico-criminali” successivi all’entrata in convento, ormai adulta.
Manzoni aveva operato questa scelta non per “pudore” o “per non divagare”, come ipotizza Angela, ma perché consapevole che l’inserimento di questo filone avrebbe strozzato ogni altro ragionamento.
Rinunciò quindi a una pietanza che gli avrebbe assicurato un bel seguito tra gli “spiriti forti” ma gli avrebbe ostacolato ogni altra considerazione di tipo etico. E fece benissimo.
Ma nel suo discorso sulla coartazione subita dalla giovane Gertrude, Manzoni introdusse anche il tema dell’impotenza delle leggi, in mancanza di un impegno diretto e responsabile da parte della collettività.
Manzoni sottolinea come contro le “monacazioni forzate” vi fossero leggi precise e ben organizzate magistrature ecclesiastiche, con giurisdizione anche sui civili. Ma anche che a quelle leggi era facile sottrarsi sia per l’interesse degli istituti religiosi a incamerare la cosiddetta “dote monacale” sia per l’inerzia e l’acquiescenza delle vittime stesse.
Manzoni dice: non bastano le leggi, bisogna farle applicare; e per questo è indispensabile l’impegno collettivo e individuale.
È un discorso che ovviamente vale ancora oggi.
Ma la trasmissione di Angela è riuscita nel mirabile intento non solo di non prenderne spunto per riflessioni di grande attualità, ma anche di sterilizzare il discorso di Manzoni, inventando “leggi” inesistenti che, alla fin fine, potrebbero giustificare le famiglie abbienti del “Secolo d’Oro” e le scelte oppressive ai danni dei loro propri membri, criticate da Manzoni.
Nella trasmissione non manca il riferimento alla famiglia Manzoni, ma con errori pacchiani e la dimenticanza di tre zie laiche, sposate e “à la page”, sorelle di cinque ex-monache “spigliate e disinvolte”.
E gli altri? Gli altri maschi, chiamati cadetti, dovevano arrangiarsi. Non potevano però contare sui beni di famiglia. E allora? Beh! di solito abbracciavano la carriera militare oppure quella ecclesiastica. Più complicata era invece la situazione delle figlie. Non potevano sposarsi perché non tutte disponevano della dote sufficiente. E allora? Rimanevano zitelle in casa. Oppure rimanevano rinchiuse in convento, costrette a farsi monache.
È il caso, guardate, anche della famiglia in cui cresce Manzoni. Da bambino vive insieme a sei zie nubili. Tra le quali c’è proprio una ex suora, Paola. Che diventa poi una fan accanita di Napoleone, quando l’Imperatore sopprime i conventi.»
a. Nel Seicento una “legge del maggiorasco” stabiliva che il patrimonio passasse integralmente al primogenito.
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b. Per le donne, ciò comportava spesso o il rimanere zitelle in casa, o l’obbligo di farsi monache.
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c. Manzoni conosceva per esperienza diretta le conseguenze di questa legge. Fino all’adolescenza egli infatti visse con sei zie zitelle, tra cui una ex-monaca, ammiratrice di Napoleone.
La prima parte (quella della “legge del maggiorasco”) ha invece in sé un peccato capitale, con conseguenze nefaste per Manzoni e il suo romanzo.
Con una trovata di pura fantasia, RAI3-ANGELA indicano infatti come praticamente inevitabile – in quanto codificata da una “cosiddetta legge del maggiorasco” – la successione del patrimonio al primogenito e la conseguente “costrizione” per molte giovani a farsi monache.
In riferimento alla vicenda narrata ne “I Promessi Sposi”, questa impostazione può legittimamente portare il telespettatore a due considerazioni:
a. La insistita azione del principe padre perché Gertrude finisse in convento, pur riprovevole, può considerarsi solo come un adeguamento ai dettati della legge: egli può essere anzi considerato come una vittima di disposizioni cui non può sottrarsi.
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b. La scelta finale di Gertrude di farsi monaca può considerarsi come una inevitabile conseguenza di questo adeguamento paterno alla legge.
Da questo intreccio di deformazioni / invenzioni discende ovviamente un azzoppamento del pensiero di Manzoni con conseguente rottamazione del romanzo.
Infatti, se il principe padre vi era costretto da una legge, su quale base Manzoni avrebbe potuto evidenziare il suo comportamento come negativo ed emblematico della violenza che viene perpetrata sulle donne proprio nelle loro case e proprio da chi le dovrebbe tutelare?
Inoltre, se Gertrude fosse stata realmente sottoposta a un “obbligo” non evitabile, con quale motivazione Manzoni avrebbe potuto descrivere nei dettagli (pur simpateticamente), il modo contraddittorio con cui Gertrude stessa aveva alla fine accettato le condizioni poste dal padre, in vista di una contropartita di prestigio e di conferma di un ruolo dominante?
L’intento di Manzoni, nel descrivere padre e figlia (seppure con modi differenziati) era di evidenziare come è sempre possibile per chiunque – anche se sottoposto a una forte pressione – mantenere dignità e libertà (sono ovvii i riferimenti ai rapporti politico-sociali del proprio tempo).
In realtà, contrariamente a quanto ingenuamente dice Angela, né il principe padre era “costretto” da alcuna “legge di maggiorasco” a premere sulla figlia per la sua monacazione; né Gertrude era “costretta” ad accettare quella soluzione.
Entrambi (certo con diverse e maggiori scusanti per Gertrude) si sono mossi per soddisfare propri pregiudizi: il padre quello di una ricchezza ostentata come monolitica; la figlia il pregiudizio del privilegio di casta.
Va da sé che Manzoni voleva maggiormente sottolineare la violenza psicologica esercitata dal principe padre su Gertrude. Ma neppure sottacere che essa stessa si è piegata pur in presenza di leggi – in questo caso sì, leggi positive e a lei ben note – elaborate dal diritto canonico proprio per ostacolare la prassi delle monacazioni senza vocazione.
Il principe padre ha esercitato violenza psicologica nei confronti della figlia. Ma la figlia ha esercitato violenza a se stessa, predisponendosi a essere a propria volta strumento di violenza contro altri, in un circolo infame di depressione etica.
Manzoni voleva dire che: devono esservi leggi atte a regolare la vita collettiva ma che le leggi non sono sufficienti: è necessario l’impegno individuale e collettivo.
Manzoni individuava nella religione cattolica il contenitore etico-filosofico cui attingere per dare forza all’impegno individuale. Ognuno di noi può attingere a propri riferimenti, tratti da qualsiasi religione rivelata o meno, o anche tratti da orizzonti molto lontani da qualsiasi religione.
Ma è chiaro che il discorso dell’autore de “I Promessi Sposi” fila perfettamente ed è valido oggi più che mai.
È però altrettanto chiaro che, nell’ottica proposta da RAI3-ANGELA, tutta la vicenda della Monaca di Monza, così come trattata da Manzoni, non ha più alcun significato.
Non male per una trasmissione presentata come “Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi”!
Grazie anche a un caro amico notaio (sempre disponibile quando si parla di cultura giuridica) abbiamo ricavato che ai primi del Seicento:
1. In mancanza di testamento il patrimonio del defunto veniva diviso in parti uguali tra figli e figlie in base al diritto naturale di origine giustinianea.
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2. In presenza di testamento, il testatore poteva indicare un erede o più eredi senza porre alcun vincolo circa il patrimonio.
L’erede/eredi avrebbero così potuto decidere il da farsi per gli eventuali esclusi – cosa che avveniva di frequente, con soddisfazione di tutti.
Alla scelta del testatore nessuno poteva opporsi in termini di diritto (in realtà le cose non andavano così lisce e si aprivano lunghi contenziosi);
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3. Il testatore poteva anche indicare un “fedecommesso”, incaricato di preservare il patrimonio per gli eredi successivi, e ciò anche “in perpetuo”, con vincoli molto stringenti (il patrimonio non poteva essere diviso, né venduto, ecc.).
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4. Il “maggiorasco” era UNO dei criteri cui il testatore poteva ricorrere per l’incardinamento del “fedecommesso”, accanto ad altri come la “primogenitura”, “il seniorato”, “il juniorato”, la ”ultimogenitura”, per dire dei più utilizzati dai notai.
Solo per completezza, vediamo cosa indicano queste diverse opzioni:
a. “primogenitura” – il patrimonio spetta al figlio (maschio) primogenito della linea famigliare più vecchia; se questo muore, spetta al suo primo figlio, e così via fino a eventuale esaurimento della linea retta; ma è previsto anche il criterio di
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b. “ultimogenitura” – il patrimonio spetta al figlio (maschio) ultimogenito (la cosa non è così strana: è una forma di tutela dei più anziani);
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c. “maggiorasco” – il patrimonio spetta al più vecchio dei parenti egualmente prossimi (fratelli, nipoti, ecc.);
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d. “minorasco”, quando il patrimonio spetta al più giovane dei parenti egualmente prossimi;
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e. “seniorato” – il patrimonio spetta al più anziano di tutte le linee della famiglia (può anche essere uno zio del defunto, o suo padre, o suo nonno);
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f. “juniorato”, il patrimonio spetta al più giovane di tutte le linee della famiglia.
Come si vede, le possibilità erano diverse, funzionali alle caratteristiche del patrimonio e coerenti con la storia reale della famiglia, che richiedevano soluzioni ad hoc.
Ma tutte le soluzioni – tutte, ripetiamo – poggiavano sulla piena libertà del testatore, senza che alcuna legge gli imponesse alcunché a proposito di primogeniti o altro.
Proprio al contrario di quanto lo spettatore ha potuto comprendere dalle parole di RAI3-ANGELA da cui siamo partiti sopra.
Monacazioni forzate in casa Manzoni?
Tra le zie di Manzoni, non solo cinque ex-suore “spigliate e disinvolte” ma anche tre laiche, sposate e à la page.
Quante erano le zie di Alessandro?
Alessandro Manzoni nella casa di San Damiano a Milano viveva non con “cinque zie nubili tra cui una ex-monaca”, come dice Angela, ma con cinque nubili (quattro zie e una cugina) e tutte ex-monache (una quinta zia ex-monaca era morta prima della sua nascita).
Perché non si pensi a una famiglia tutta votata alla spiritualità più estrema, ricordiamo che Alessandro aveva altre tre zie, tutte felicemente sposate con personalità di rilievo sociale e culturale del Lariano e della Valtellina:
Emilia Maria (nata 1734) sposa del Nobile Massimiliano Manzoni di Barzio;
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Francesca Maria (nata 1738) sposa del Nobile Guicciardo de Guicciardi di Ponte Valtellina;
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Maria Maddalena Rosa (nata 1744) sposa del nobile Gerolamo Gemelli di Orta.
Anche da parte di chi è istituzionalmente incaricato di occuparsi di Manzoni (il Centro Nazionale Studi Manzoniani, per esempio) ma ha evidentemente poco interesse a evidenziare il forte legame di Manzoni col territorio lecchese, per esaltarne invece la “milanesità”, rafforzandola con un possibile – ma pressoché inesistente sul piano dell’indagine storica – legame biologico con il giovane Giovanni Verri (ma su questo vedi una nostra precedente elaborazione).
Rara eccezione al silenzio sui rapporti tra Manzoni e le numerose sue zie è l’informato e acuto articolo del sempre ben documentato storico lecchese Francesco D’Alessio: «Rosa Gemelli Manzoni. La “zia di Orta” di Alessandro Manzoni.» (Archivi di Lecco / 2011 / f.1 / p. 9).
Il caso della famiglia Manzoni esprime bene quanto sopra si è detto circa i diritti successori. Anche se a metà ’700, alcune cose erano cambiate (soprattutto si era posto un limite alla durata dei fedecommessi), vigevano i medesimi criteri in atto nei primi del Seicento.
Alessandro Valeriano Manzoni (1686-1773), principale possidente di Lecco e nonno del nostro Alessandro, lasciò come eredi Monsignor Paolo Antonio (1729-1800), Canonico del Duomo di Milano e zio di Alessandro (quello che teneva d’occhio con più attenzione i movimenti libertini di donna Giulia) e don Pietro Antonio (1739-1807), nobile, padre di Alessandro (che si limitava a controllare che Giulia nel suo libertinaggio non desse adito a troppo scandalo).
Il testamento del decano dei Manzoni non è stato rinvenuto ma non diede luogo a impugnazioni né prevedeva a evidenza alcun fedecommesso vincolante.
I due fratelli, visto il progressivo abbassarsi del valore degli appezzamenti minerari posseduti in Valsassina, si diedero da fare per investire in terreni agricoli, sparsi sul tutto il territorio, grazie soprattutto alla intraprendenza e alle entrature di Monsignor Paolo Antonio, dal 1771 Economo generale della Curia arcivescovile di Milano e braccio destro del Vescovo per le questioni amministrative.
Per quanto riguarda le sorelle, essendo ancora in vita il vecchio Alessandro Valeriano, i due fratelli futuri eredi si comportarono bene, a quanto risulta.
Come esempio della loro correttezza abbiamo la dote istituita nel 1764 a favore della sorella Maria Rosa per il matrimonio con il Nobile Gerolamo Gemelli, un ricco possidente di Orta.
La dote ammontava a 10.000 lire imperiali, pari a circa 1,5 milioni di Euro (3 miliardi delle nostre vecchie lire).
Per stimare l’effettivo valore operativo di queste 10.000 lire imperiali date in contanti (potevano essere vantaggiosamente usate per concedere prestiti), giova ricordare che per onorare la dote della sorella Rosa, i due fratelli Paolo e Pietro dovettero chiedere quattrini a prestito.
Come molti proprietari terrieri, pur godendo di un buon tenore di vita, non avevano infatti una grande liquidità.
Del corposo e articolato saggio di D’Alessio (invitando il lettore a leggerlo nella sua interezza), riportiamo l’incipit del capitolo dedicato alle tre zie laiche di Manzoni, con cui egli ebbe costanti rapporti anche per il non mediocre livello culturale dei loro rispettivi mariti:
«Oltre a queste zie monache Manzoni ne aveva altre tre, mogli di personaggi non di secondo piano nel contesto politico e culturale dell’epoca. Francesca (nata al Caleotto nel 1738) sposò nel 1756 Guicciardo Guicciardi di Ponte in Valtellina, appartenente al ramo della famiglia che dal 1722 era stato insignito del cavalierato di S. Stefano.
Guicciardo, laureato in legge, proveniva da una dinastia di giuristi e letterati: il suo matrimonio con Francesca permise ai Manzoni del Caleotto di legarsi non solo all’antica aristocrazia valtellinese (i Guicciardi erano difatti uniti da vincoli di parentela ai Parravicini, ai Sassi, agli Stampa e ai Quadrio), ma anche all’ambiente culturale che ruotava attorno al casato di Ponte e che trova riflesso in un testo a stampa del 1782 e in un sonetto galante dedicati proprio a Francesca. Quest’ultima ebbe diversi figli tra cui Nicola, con cui Alessandro ebbe fitta corrispondenza, e Francesca (nata nel 1767), sposa di un Giovanni Enrico Guicciardi, nonni paterni del senatore del regno e patriota Enrico Guicciardi (1812-1895).
Un’altra zia di Alessandro, e cioè Emilia (nata al Caleotto nel 1734), sposò nel 1749 il valsassinese Massimiliano Manzoni, discendente di altro ramo della famiglia. Egli aveva acquistato e ristrutturato l’antica dimora degli Arrigoni Taleggi di fianco alla Parrocchiale di Castello sopra Lecco (la stessa in cui Manzoni fu cresimato nel 1794) che certamente Alessandro frequentava quando stava nella poco distante villa del Caleotto. Massimiliano Manzoni, arricchitosi grazie al commercio del ferro nel Milanese, fu padre di don Antonio Manzoni, canonico di S. Nazzaro a Milano, legatissimo agli zii materni monsignor Paolo e Pietro Manzoni (di quest’ultimo fu testimone per le nozze con Giulia Beccaria, celebrate nel 1782, nonché esecutore testamentario) e al cugino Alessandro.
L’altra zia e cioè Rosa Manzoni (Caleotto, 1744 – Orta, 1817), andò in sposa nel 1764 a Gerolamo Gemelli di Orta (Orta, 1727-1806): vale la pena ripercorrere le vicende di questa zia del grande romanziere, soprattutto perché legata a luoghi come Orta e l’annesso Sacro Monte, dai quali come già ipotizzato in altri studi potrebbero derivare suggestioni figurative rimaste impresse nella sensibilità letteraria di Alessandro.»
È quest’ultima zia di Alessandro la protagonista del quadro più sopra riportato.
All’amico Ceroli la ricordava con simpatia e affetto: era “spigliata e disinvolta”, e si impegnava a insegnare al giovane Manzoni i passi delle danze più in voga e le canzoni alla moda (ma lo scrittore era negato sia come danzatore sia come cantante).
Affacciata con lui ragazzino alla finestra gli “insegnava un po’ di vita” spettegolando sui passanti, lesta a cambiar discorso se dietro di loro passava lo zio Monsignore.
Sulla base di questi ricordi, certo genuini, sembra che – tutto sommato – la famiglia Manzoni, ricca di donne anche spiritose e gaie, non doveva essere sempre quel mortorio claustrale che viene dipinto dai disinformati e viene da pensare che con quel nugolo di zie il giovane Alessandro si deve essere fatto le sue belle risate.
Comunque sia, per la riacquistata libertà dal convento, la zia Paola non era fan dell’Imperatore Napoleone, come dice Angela, confondendo maldestramente due Imperatori diversi, e di diversi paesi.
La zia Paola era invece fan dell’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena. Il quale, a partire dal 1782, aveva dato mano anche in Lombardia alla grande riorganizzazione dell’apparato religioso, sopprimendo (con confisca dei beni) oltre duecento istituti “contemplativi”, tra cui quello di San Lorenzo di Vimercate dove la zietta di Alessandro fu monaca fino al 1785, l’anno in cui nacque Alessandro.
Lo ricorda con precisione l’Abate Stoppani nel suo “I primi anni di A. Manzoni” (Milano, 1874) sulla base di confidenze che, alla morte di Manzoni, gli erano venute dal Ceroli (sacerdote rosminiano da sempre amico suo come lo era di Manzoni) il quale per oltre un decennio fece da assistente culturale allo scrittore, accompagnandolo spesso nelle sue lunghe passeggiate e raccogliendone molti ricordi dell’adolescenza (pag. 101):
«“Io per me, diceva la zia, sono del parere di Giuseppe II. Aria! aria!” soggiungeva, trinciando nell’aria de’ gran cerchi colla mano destra, quasi avesse voluto farsi largo, e sgombrarsi dattorno quel non so che, da cui aveva avuto impedito per tant’anni il respiro.»
Anche Napoleone batté quel percorso di “razionalizzazione” giuseppiniana, ma anni dopo. Nel 1796, per pagarsi le spese della campagna d’Italia, non da Imperatore ma come Generale in capo dell’armata. E poi nel 1810, allora sì da Imperatore.
Ma, nel 1810, la zia Paola era ormai parecchio anziana e non più in vena di trinciar cerchi nell’aria a dare forza al suo “Aria! aria!”
Riassumendo questa piccola memoria sulle zie di Manzoni – ex-monache o laiche che fossero – vale forse la pena di considerare con maggiore attenzione a quale altra “reclusa in convento” potesse pensare Manzoni quando tracciò gli interessanti fogli della “prima stesura”.
Non risulta che all’interno della famiglia Manzoni sorgessero mai problemi di “monacazioni forzate”. Tutto è possibile naturalmente ma la vicenda di queste zie monache, bene inserite nella larga famiglia Manzoni non fa pensare a grandi conflitti.
Oltre alle zie, anche la madre di Manzoni conobbe il convento.
Oltre che sulle zie, sarebbe opportuno indagare anche su un’altra donna, certo non finita monaca ma che nell’ambiente del convento passò gli anni della formazione, e con pessimi ricordi: la madre Giulia Beccaria, trattata in modo veramente indegno dal padre Cesare, aperto umanista nella riflessione filosofica e giuridica ma gretto e stolido nei rapporti privati, in particolare con la propria primogenita.
Quando, concluso il periodo dell’educantato, Giulia si scontrò con l’ostentato disinteresse del padre Cesare (nel frattempo risposato e padre del sospirato figlio maschio) pensò anche di farsi monaca.
Per sua fortuna presto incontrò Giovanni Verri che le fece comprendere quanto piacevole potesse essere la vita laica.
È del tutto comprensibile come, proprio in reazione all’esperienza mortificante del convento (Verri scriveva al fratello Alessandro: «quelle strane donne l’hanno fatta impazzire»), Giulia abbia sviluppato quel suo atteggiamento “libertino” (non “libertario”, come dice ingenuamente la VOCE FUORI CAMPO della trasmissione [41:03]) e genericamente ribelle degli anni della prima maturità, trasformato più avanti in un ostentato moralismo.
Gli altri temi dell’analisi critica.
La nostra analisi critica sulla trasmissione «Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi» condotta da Alberto Angela si sviluppa su altri temi, indicati qui sotto.