22 giugno 2022
Ringraziando, riceviamo e pubblichiamo.
A commento della nostra Nota sul “Falso-Deledda” qui sotto riportata, Dino Gesuino Manca (Professore di Filologia della letteratura italiana, Storia della lingua italiana e Letteratura e filologia sarda presso l’Università degli Studi di Sassari) molto cortesemente ci ha così scritto il 20 giugno scorso:
«Gentilissimo Fabio Stoppani,
la ringrazio tanto. Come Lei saprà sono già intervenuto sul quotidiano sardo La Nuova (cfr. allegato) in merito alla vexata quaestio.
Da anni a lezione lo spiego agli studenti. Mi interessai della cosa dopo un convegno del 2014, dopo l’errata riproposizione della vulgata internettiana.
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Ciò che desta perplessità, oltre alla mancanza della fonte, è l’usus scribendi e il probabile errore (nel senso filologico di allontanamento, se non manipolazione, della volontà autorale) mascherato d’autenticità. Alcuni stilemi si trovano concentrati in modo sospetto (loci critici) in una descrizione dell’Elias Portolu (come vedo che anche Lei ha riscontrato), altri sono allotri, improbabili, poi un altro vago incipit in una lettera al De Gubernatis e il tutto viene rielaborato secondo una modalità versificatoria (usus scribendi) molto dubbia. Quasi si tratti di una sorta di contaminatio.
Ecco perché senza una fonte l’attribuzione dovrebbe restare incerta (in incerto abstine).
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Riconosco e ammetto che è facile ed è stato facile cascarci, ma è chiaro che adesso la deriva deve essere fermata.
Si dovrebbero invitare i divulgatori seriali a esibire la fonte, senza la quale per somma cautela si dovrebbe quanto meno sospendere il giudizio (scrivendolo ponevo una questione di metodo, in incerto abstine, appunto). Ripetere cento volte una bugia, infatti, non la trasforma in una verità.Sono quindi d’accordo con Lei e la ringrazio.
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Le auguro ogni bene.Cordiali saluti
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Dino Manca
Università di Sassari
Questa la nostra risposta del 22 giugno alla chiara e istruttiva comunicazione del Professor Manca:
«Gentile Professor Manca,
veramente grazie per il cortese interessamento e per le sempre preziose notazioni filologiche.
Sappiamo che Lei ha già da tempo avanzato motivate riserve a proposito della composizione “Noi siamo sardi”, falsamente attribuita a Deledda, e siamo certi che anche questa Sua ulteriore indicazione varrà a chiarire la questione sotto il profilo linguistico (salvo Suo diverso orientamento pensiamo di pubblicarla in allegato alla nostra Nota).
Come semplici osservatori delle problematiche deleddiane vorremmo però suggerire di non limitare l’opera di chiarimento al solo quadro linguistico.
Ci sembra infatti che i due temi cui nella nostra Nota abbiamo solo accennato, meriterebbero un approfondimento.
Chi meglio di Lei e dei Suoi colleghi sardi impegnati nelle commemorazioni deleddiane potrebbe dare risposte innovative rispetto al vissuto di Deledda sulla politica estera italiana nel primo trentennio del secolo e sul rapporto vendetta/perdono?
Quest’ultimo tema soprattutto pensiamo potrebbe utilmente fare da ponte anche a considerazioni sul rapporto tra Grazia Deledda e Alessandro Manzoni cui ci pare sia stato solo accennato.
Grazie comunque ancora per la Sua attenzione e un cordialissimo saluto da parte della nostra redazione e da me in particolare.
Fabio Stoppani
Centro Studi Abate Stoppani.»
Anche a ricordo di mia madre Anna Chiara Trogu di Oristano.
Milano, venerdì 20 maggio 2022
Premessa.
Nel luglio del 2021 amici della bella Sardegna ci avevano segnalato il caso della composizione “Noi siamo Sardi”, da alcuni anni diffusa sul Web e attribuita alla scrittrice nuorese Grazia Deledda senza alcun elemento critico a sostegno; in compenso, con l’assenso esplicito di Istituzioni e media anche nazionali (tra questi, Rai1 e Rai2).
Circa la paternità di questa composizione (limitandosi però a sensazioni soggettive, importanti ma non risolutive) gli amici sardi ci esprimevano i loro forti dubbi che fosse effettivamente di Deledda: “incoerente nei riferimenti linguistici”; “superficiale e confusa nelle determinazioni storiche”; “troppo enfatica” e , sul fronte etico, certamente “di spirito non deleddiano”.
Chiedevano al nostro Centro Studi se ci era possibile verificare quanto l’attribuzione a Deledda della composizione “Noi siamo Sardi” potesse godere di un qualche fondamento o fosse invece da considerare senza tante esitazioni come una delle numerose balle, apparse sul Web e poi pecorescamente fatte proprie anche da importanti mezzi di informazione e formazione.
Impegni già avviati ci hanno obbligato a lasciare passare più tempo del previsto per elaborare una risposta esaustiva alla domanda degli amici sardi e tra una cosa e l’altra è passato quasi un anno.
Mentre stavamo dando gli ultimi ritocchi alla nostra Nota per caricarla finalmente sul Web, abbiamo letto con molto piacere su “La Nuova Sardegna” del 9 maggio 2022 un articolo di Alessandro Marongiu che, seppure con minore determinatezza rispetto alla nostra riflessione, ne sosteneva il medesimo convincimento di fondo: la composizione “Noi siamo Sardi” non può essere attribuita a Grazia Deledda.
Marongiu riportava anche alcune considerazioni di Dino Manca (Ordinario di Filologia all’Università di Sassari e ben noto per le sue ricerche sulla scrittrice nuorese):
«La poesia le viene da anni attribuita ma per quante ricerche abbia fatto non ho mai trovato la fonte. Peraltro nel testo vulgato ci sono alcune spie linguistiche che dovrebbero indurre a maggiore cautela in quanto allotrie rispetto al suo usus scribendi. Tuttavia mantengo il giudizio sospeso.»
La “sospensione di giudizio” da parte di Manca ci ha un poco stupito. Il filologo sardo ci pare infatti sia più che attrezzato (sicuramente più di noi) per dare una risposta autorevole e definitiva alla questione.
Comunque sia, un “bravo!” a Marongiu che — in Sardegna sicuramente ancor più in controtendenza — ha avuto il merito di esprimere per primo pubblicamente un parere fermo su questa questione, in sé non particolarmente rilevante ma da non sottovalutare in quanto “esempio negativo” di come NON dovrebbero essere trattati certi aspetti della cultura.
È opportuno segnalare che il nostro Centro Studi non ha una specifica competenza su Deledda e la sua opera: nel rispondere all’invito degli amici sardi ci siamo quindi limitati ad applicare il nostro metodo di lavoro, basato sull’analisi di elementi oggettivi, verificabili e condivisibili da chiunque.
Solo come corollario abbiamo poi ritenuto potesse essere di una qualche utilità svolgere alcune limitate considerazioni su due aspetti impliciti nella composizione falsamente attribuita a Deledda:
— un supposto cosmopolitismo multiculturale della scrittrice nuorese;
— una sua supposta valorizzazione della “vendetta” come elemento significativo della fisionomia delle genti di Sardegna.
Si tratta solo di spunti, che proponiamo senza alcuna pretesa di esaustività, con l’augurio che gli studiosi dedicati all’opera della scrittrice nuorese possano / vogliano svilupparli con altra ampiezza: non sarebbe male se anche dall’Accademia della terra di Deledda giungesse un alt! a balle spacciate nel suo nome.
La composizione “NOI SIAMO SARDI”, indicata come di Grazia Deledda: un evidente FALSO, buono solo per i volutamente distratti.
Dalla deviante ma innocua composizione di anonimo (apparsa su un forum Web abbastanza casereccio) a una vera e propria campagna di disinformazione culturale, veicolata anche da Università, Istituzioni rappresentative, stampa e televisione nazionali (Rai1 e Rai 2), ormai tracimata oltre la decenza.
A evitare che un banale scherzo si affermi come verità storico-letteraria ai danni di una protagonista della nostra cultura contemporanea, diamo gli opportuni elementi conoscitivi perché ognuno possa constatare che quella “composizione” non solo NON È di Grazia Deledda ma anche ne stravolge il genuino pensiero su un importante tema etico.
Circola sul Web da quasi tre lustri (ci sembra di poter dire dal 2008), una composizione variamente versificata, titolata “Noi siamo Sardi” e firmata “Grazia Deledda”, senza alcuna altra indicazione, né di data né di fonte.
Questo il testo:
«Noi siamo Sardi.
Siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.
Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese.
Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.
Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare.
Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.
Noi siamo sardi.
Grazia Deledda.»
Per comodità — e perché sia da subito chiaro il nostro orientamento — denominiamo questa composizione il “Falso-Deledda”.
Il giochino è stato approntato utilizzando alcune espressioni del romanzo “Elias Portolu” di Grazia Deledda frammischiate a espressioni non solo del tutto estranee alla poetica e al vocabolario deleddiano ma anche oppositive al pensiero etico della scrittrice nuorese, in particolare in relazione al tema del rapporto “vendetta/perdono”.
Evidenzieremo anche il ruolo deleterio che Istituzioni e media esercitano nel nostro Paese col diffondere, senza alcuna verifica critica, proposte pseudo-culturali che sono solo GOGLIARDICI FALSI.
2008 / L’attribuzione a Grazia Deledda, espediente retorico in una discussione tra sardi sulla “vera sardità”.
Salvo accogliere con piacere diverse indicazioni, ci sembra che la prima apparizione del “Falso-Deledda” sia databile al febbraio del 2008, sul “Forum Sardegna” (sito Web “gentedisardegna.it”), dedicato a temi di varia natura, relativi alla “sardità”.
Il proponente della composizione sembra essere membro del forum dal 2006 e così si presenta: “femminile” il genere; “Ziama” il nome; “sarda” di origine e residente a New York (nel 2008 già da 15 anni).
Dal taglio dei suoi interventi sembrerebbe trattarsi di persona già matura — è opportuno però segnalare che il suo presentarsi come donna potrebbe essere un accorgimento mimetico così come la sua dichiarata residenza in New York.
Faremo comunque riferimento al proponente come alla “signora Ziama”.
Dal contesto delle discussioni sul forum “gentedisardegna.it” di quel periodo (2008) ci sembra di potere arguire che la composizione proposta come di Grazia Deledda, sia stata pensata dalla signora Ziama come espediente retorico per rafforzare una propria opinione sulla “sardità”, facendo leva sulla autorità del Premio Nobel nuorese, indiscussa tra i suoi interlocutori.
Secondo Ziama non avrebbe senso parlare di una “purezza sarda”, come sostenuto da altri partecipanti al forum, propensi all’idea della sopravvivenza di un nucleo genetico sardo risalente alla protostoria.
Per Ziama si dovrebbe semmai parlare di una “sardità relativa”, proprio come per tante altre regioni italiane, percorse nei secoli da popolazioni di varia origine.
L’incipit della composizione elenca infatti i popoli che (secondo Ziama ovviamente), avrebbero contribuito alla realtà sarda.
Sotto il profilo retorico, il nucleo centrale della composizione (basato sulla esaltazione del mondo naturalistico sardo e su un dato di colore storico-sociale — la vendetta, presentato come tratto caratteristico della fisionomia sarda) appare come una più che scontata “captatio benevolentiæ”, tesa anche a certificare il legame profondo che Ziama rivendica con la sua terra di origine, messo in dubbio da qualche partecipante alla discussione (dai vari interventi risulta che una nonna di Ziama era di origine romagnola).
Riservandoci di tornare più sotto sui contenuti di questa “invenzione” di Ziama e sui suoi anche pacchiani errori di carattere storico e filologico (ingenuamente fatti propri da tutti coloro che ne esaltano l’invenzione, facendosene a loro volta diffusori), per il momento ci limitiamo a indicare in questo forum “gentedisardegna.it” e al 2008 la “nascita” della composizione attribuita a Grazia Deledda.
2008-2012 / Svolazzamento in rete.
Nel 2008, lo stesso giorno in cui Ziama carica sul Forum la sua invenzione, firmandola “Grazia Deledda”, un altro partecipante alla discussione interviene e scrive (riferendosi alla composizione): “scusa Ziama ma questo te lo rubo”.
Comincia così lo svolazzamento del “Falso-Deledda” nella rete.
Nel 2011 lo troviamo (ma indicato come “anonimo, attribuito a Grazia Deledda”) sul sito “lezioni di bello”, assieme a una conturbante notazione di R. Petazzoni (“Chi è stato in Sardegna, non può dimenticare lo sguardo delle donne sarde: sguardo intenso cupo e ardente, fascino ammaliatore pieno di forza arcana, che parve e fu terribile” — La religione primitiva in Sardegna, 1912).
Nel 2012 il “Falso-Deledda” atterra sul sito “blog.libero.it” (questa volta firmato G. Deledda) senza alcun accentuazione particolare: evidentemente piace e tanto basta.
22 novembre 2013/ In occasione del nubifragio di Olbia, anche il Comune di Corsico (alle porte di Milano) partecipa al lutto della Sardegna citando il “Falso-Deledda”.
Il 19 novembre 2013 viene postato da “Fairy” su http:/win.leperledelcuore.it, un portale sardo di varia umanità, denso di affettuosi pensieri e “bacini bacini”.
Il messaggio è dedicato da Fairy «dal profondo del cuore ai miei conterranei e concittadini», in quei giorni colpiti dalla violenta alluvione che devastò la città di Olbia provocando 16 morti e 2.000 sfollati.
Lo scopo appare trasparente: testimoniare la vicinanza di un sardo ad altri sardi in difficoltà, con il richiamo alla comune origine.
È da rilevare però come, in questo caso, la composizione si regga solo sull’autorità della firma “Grazia Deledda”, icona della “sardità”.
Risulta infatti scarsamente declinabile con il contesto tragico del 19 novembre 2013 l’elenco dei vari popoli che avrebbero in qualche modo interagito con l’isola (spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi).
Nonostante questa evidente incongruenza, il messaggio piace e viene ripreso: il Comune di Corsico (immediatamente alle porte di Milano) pubblica il testo “Noi siamo Sardi” per esprimere la vicinanza della cittadina lombarda alle vittime e agli sfollati di Olbia.
Ci sembra che per la prima volta l’invenzione di Ziama viene così ripresa da una Istituzione pubblica, senza alcuna preoccupazione sulla sua veridicità o meno.
2015/ Navigando verso una dimensione “letteraria”.
Dopo questa uscita sul Web nel 2013, la composizione ha cominciato ad avere una propria esistenza autonoma anche di tipo “letterario”.
Nel 2015 viene infatti ripresa su www.pensieriparole.it (un sito di sponsorizzazione di Virgilio.it, il portale Internet italiano, di proprietà di Italiaonline Srl), non per una qualche ragione contingente ma proprio per una sua supposta appartenenza alla produzione poetica deleddiana, naturalmente senza uno straccio di riferimento critico, e naturalmente sfruttata a fini pubblicitari.
Ma fin qui siamo ancora nel campo dell’innocuo dilettantismo della rete, da poter considerare come ininfluente scoria della pseudo-cultura.
La cosa diventa preoccupante
dopo un paio d’anni.
2017 / Il “Falso-Deledda” presentato con l’assenso della Università di Cagliari come alta testimonianza per l’interpretazione del passato genetico e culturale della Sardegna.
Spiace infatti di dovere constatare che è scivolata nella accoglienza acritica del parto letterario della signora Ziama anche l’Università degli Studi di Cagliari, che, in specie quando si parla di Sardegna e della sua storia, dovrebbe teoricamente essere la più attenta alle balle internettiane e non.
Purtroppo, però, l’Università (Dipartimento di Storia, Beni culturali e Territorio) nel 2017 ha pubblicato (Carlo Delfino Editore) il volume “Corpora delle antichità della Sardegna — La Sardegna romana e altomedievale” con la copertura della “Regione Autonoma della Sardegna” (che ha anche finanziato l’iniziativa) e del “Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”.
Il volume, di 498 pagine, contiene 29 contributi di Accademici (Università di Sassari, Cagliari, Padova, Bologna) e di Responsabili della Soprintendenza di diverse aree della Sardegna.
Tra questi ultimi anche Rubens D’Oriano (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari, Olbia-Tempio e Nuoro) che ha presentato uno studio dal titolo “La Sardegna e il mare”.
Nel quadro del suo contributo, D’Oriano polemizza (p. 42) con quella che egli definisce una
«errata autoidentificazione dei Sardi di oggi nelle popolazioni nuragiche, quindi un “Noi Sardi di oggi ci riconosciamo nei gloriosi autoctoni Nuragici e chi è venuto dopo è nostro invasore-colonizzatore-sfruttatore”.»
A fronte di questa particolare visione del passato della Sardegna, D’Oriano ha una sua diversa opinione e per sostenerla mette sul tavolo una carta che egli ritiene vincente (p. 43, evidenziazioni nostre):
«La critica a questa mitologia è piuttosto ovvia: i Sardi di oggi, come i Siciliani, i Cretesi, i Toscani, i Catalani, non possono che essere l’esito della stratificazione genetica e culturale di tutte le popolazioni che si sono avvicendate nell’Isola, Nuragici certo, e prima ancora Neolitici, Campaniformi, e poi Fenici, Greci, Cartaginesi, Romani, Bizantini, Arabi, Pisani, Aragonesi, come era già chiaro a una delle più alte voci che questa terra abbia finora espresso, il Premio Nobel per la letteratura Grazia Deledda, che già circa un secolo fa insegnava «Siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi» nell’incipit della poesia che si intitola (guarda caso) “Siamo Sardi”.
Si badi che la citazione da parte del Soprintendente D’Oriano non è da considerare come frutto di una sua personale visione, eventualmente da considerare “originale”, ma è evidentemente largamente condivisa.
Nella Introduzione al volume Giuseppe Dessena (Assessore regionale della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport) così infatti sintetizza l’obiettivo dello studio:
«La Sardegna si conferma una terra che accoglie nel proprio grembo, […] tradizioni e istanze esterne dimostrando, […] la sua funzione di centralità nel Mediterraneo, e smentendo quella linea di interpretazione che sostiene che l’insularità abbia prodotto e produca di necessità un chiuso e muto isolamento. Il patrimonio di studi raccolto e rielaborato è destinato alla fruizione pubblica e perciò stesso alla crescita culturale dell’intera comunità.».
Con questa citazione del “Falso-Deledda” da parte di un noto Soprintendente dell’Archeologia sarda (all’interno di uno studio prodotto dalla prestigiosa Università degli Studi di Cagliari) nonché con il pieno plauso dell’Assessore regionale alla Pubblica Istruzione, si può ben dire che l’invenzione della signora Ziama ha compiuto abbastanza rapidamente un bel po’ di strada dal 2008: la sua invenzione in salsa “deleddiana” è assurta a garanzia di una visione “ufficiale” della storia dei Sardi.
Verrebbe proprio da dire: ne hai fatta di strada, tia Ziama!
Ma per il vero lancio mediatico a livello nazionale del “Falso-Deledda”, bisogna aspettare ancora un pochino.
28 aprile 2018/ Dinamo Sassari.
Noi siamo sardi: in tutta l’isola si celebra “Sa die de sa Sardigna”.
«La Dinamo, squadra della Sardegna, celebra “Sa die de sa Sardigna”: giornata di festa in memoria di vespri sardi dell’aprile del 1794.
[…] La Dinamo è la squadra di un’isola, di un popolo orgoglioso della sua storia e consapevole della sua forza: domenica scorsa, in occasione della sfida con la Reyer Venezia, il gruppo di tifo organizzato, ha colorato il Pala Serradimigni con una meravigliosa e suggestiva coreografia dedicata alla Sardegna. In un tripudio di bandiere dei quattro mori, con il sottofondo musicale con le note di Procurade ’e moderare suonata con le launeddas, sono state scandite le parole di Grazia Deledda della celebre poesia “Noi siamo sardi” che hanno emozionato i cinquemila presenti. Un inno all’isola, alla Sardegna, all’identità di un popolo combattivo e indomito come quello sardo.
Nel giorno de “Sa die de sa Sardigna”, la Dinamo Banco di Sardegna Sassari -prima realtà cestistica dell’isola- celebra la festa del popolo sardo che, nel 1794, diede vita a quei moti che costituirono la prima presa di coscienza dei propri mezzi. Ambasciatrice della Sardegna in Italia ed Europa, la Dinamo celebra la “Giornata del popolo sardo” insieme alla sua gente, unendosi ai festeggiamenti di un’isola intera, impegnata da Sassari a Cagliari, da Oristano a Nuoro, a commemorare questa importante ricorrenza. Una giornata all’insegna della tradizione e dell’identità, con la chiara e orgogliosa consapevolezza della storia dove affondano le nostre radici.»
Chiude l’annuncio il “Falso-Deledda”, in edizione integrale, con bene evidente il titolo — Noi siamo sardi— nonché il nome della millantata autrice: Grazia Deledda.
Luglio 2019/ Non può mancare il murale a Macomer (con una parola atta a rivelare il falso — ma nessuno se ne accorge).
È ovvio che in questo tripudio di citazioni del “Falso-Deledda” non poteva mancare la voce (o la mano, per la precisione) degli artisti di Macomer.
In occasione del Festival della Resilienza (Macomer, luglio 2019) il pittore Paolo Mazzucco, in arte Mamblo, dedica a Deledda la grande parete esterna di un edificio, riportando la parte finale del “Falso-Deledda”.
Della composizione l’artista tralascia l’incipit cosmopolita e multirazziale (che era stato invece l’elemento chiave per la scelta del Cagliari Calcio) e si concentra sulla parte per così dire “etnico-naturalistica”.
Da notare che, coerente con la sua fisionomia di sardo adottivo, “Mamblo” ha corretto “alla sarda” una parola del “Falso-Deledda”; una parola chiave per confermare la non appartenenza a Deledda del “Noi siamo Sardi” (guardando la scritta di Mamblo il lettore attento se ne accorge di sicuro e abbastanza in fretta — noi ne parliamo più sotto).
19 settembre 2019/ Il Cagliari Calcio ne fa una icona antirazzista.
Il 19 settembre 2019, prima della partita Cagliari-Genoa (si teneva al Sardegna Arena), il Cagliari Calcio distribuisce agli spettatori un volantino in cui si stimmatizzano gli insulti rivolti da una piccola parte della tifoseria al giocatore Lukaku in occasione di Cagliari-Inter, giocata pochi giorni innanzi, il 1 settembre 2019.
“No al razzismo”. Lo ha ribadito il Cagliari calcio, questa sera prima della gara con il Genoa alla Sardegna Arena, distribuendo ai tifosi un volantino per sensibilizzare tutti su un tema caldo, a evitare episodi non consoni e individuare subito i responsabili.
“Aiutaci a far capire a chi dovesse tradire i nostri valori che questo non può essere il suo stadio”, si legge nel volantino, che si conclude con la celebre poesia del Premio Nobel Grazia Deledda “Noi siamo Sardi”, che inizia così: “Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi”.
Il lancio ANSA viene ripreso da molte testate nazionali (per esempio, corriere.it, tgcomm24.mediaset.it, repubblica.it), assicurando una larga diffusione alla composizione, dalla signora Ziama nel 2008 fantasiosamente attribuita a Grazia Deledda.
Nel 2021, grazie all’avallo prestigioso di una importante realtà sarda e della stampa nazionale, con l’avvicinarsi delle celebrazioni per i 150 anni dalla nascita della scrittrice sarda (Nuoro, 28 settembre 1871), la composizione “Noi siamo Sardi” si è progressivamente conquistata un largo spazio sulla rete, accompagnata da espressioni anche entusiastiche:
“stupenda”, “esprime in modo grandioso la sardità”, “grazie Grazia”, “E queste non sono poesie: sono sante parole” ecc. ecc.
24 aprile 2021/ Anche “ Il Provinciale” di RAI 2, condotto da Federico Quaranta, si fa diffusore del “Falso-Deledda” inventato dalla signora Ziama.
Il lancio definitivo nell’immaginario nazionale della composizione inventata da Ziama si deve a “Il Provinciale”, un programma che «conduce attraverso i valori e i principi più sani della provincia italiana, alla scoperta di un’Italia poco conosciuta, in luoghi e lungo sentieri che accendono l’immaginazione», ideato da Giuseppe Bosin, Andrea Caterini, Lillo Iacolino, Francesco Lucibello e dal conduttore Federico Quaranta.
Sabato 24 aprile 2021 lo stesso Quaranta, infatti, come avvio della puntata “Gallura, tra stazzi banditi e poeti”, declama (con aria molto ispirata e voce adeguatamente impostata) alcuni brani del “Falso-Deledda”, chiudendo la citazione con il nome di Grazia Deledda e volendone richiamare idealmente il volto.
«Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi … della rosa canina,
del vento, dell’immensità del mare … siamo una terra antica, di silenzi, di orizzonti ampi e puri …
… di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta … noi siamo sardi.
Grazia Deledda.»
Che dovevano pensare i 400.000 spettatori che hanno seguito la trasmissione Rai2 del 24 aprile 2021?
Inevitabilmente che le parole dette con tanta partecipazione da Filippo Quaranta sono state effettivamente scritte da Grazia Deledda.
Come corollario, sarà rimasto loro in mente anche che Grazia Deledda, mostrata idealmente nel programma attraverso il volto della cantante-etnografa Paola Giua, fosse rossiccia di capelli e “galluresa”.
E sì, perché la brava Paola Giua è una artista che canta soprattutto in gallurese (dialetto romanzo primario, con forti influssi dal corso) e che nel filmato si presenta con i capelli ramati.
Peccato che sia tutto un pasticcio con nessun rapporto con la realtà.
I “Bellissimi capelli NERI” di Grazia Deledda.
In “Cosima”, romanzo inedito e pubblicato dopo la sua morte, Deledda descrive se stessa con molto realismo.
Ne riportiamo due brani dall’edizione critica curata da Dino Manca del 2016 (p. 33 e p. 40):
«Piccola di statura, con la testa piuttosto grossa, mani e piedi minuscoli […] aveva però una carnagione chiara e vellutata, bellissimi capelli neri lievemente ondulati e gli occhi grandi, a mandorla.»
«Il vestitino giallo, con guarnizioni rosse è quello di Cosima, che parrebbe ridicolo e pure dà risalto al suo viso pallido e ai folti capelli neri.»
Infatti, non solo Grazia Deledda aveva i capelli nerissimi ma — soprattutto — non era gallurese ma di Nuoro, dove si parla una variante particolarmente conservativa e arcaizzante di “sa limba”, la vera lingua sarda — tutt’altra cosa dal gallurese.
La città di Deledda era ed è il capoluogo di una “regione storica” sarda che nulla ha a che vedere con la Gallura (altra “regione storica”) né per l’ambiente fisico né per la lingua, né per la storia, né per le tradizioni, soprattutto con riguardo all’ultima parte dell’800, quando Grazia Deledda si formò come donna e come scrittrice (guarda la cartina con le regioni storiche sarde).
Tanto la settentrionale Gallura, tutta affacciata sul mare e con ottimi porti naturali come Olbia, era di necessità aperta alle influenze esterne, altrettanto la centrale Barbagia di Nuoro alla nascita di Grazia Deledda era rimasta praticamente invariata nella sua vita millenaria.
Anche le bene organizzate legioni romane si erano dovute arrendere alla natura aspra dei luoghi e al carattere non proprio mite degli abitanti dell’interno sardo. I quali riuscirono sempre a tenerle in costante stato di allarme, costringendo i disonesti funzionari di Roma caput mundi (uno per tutti, Marco Emilio Scauro, Propretore della Provincia Sardinia et Corsica nel 55 a.C.) a insultarli — ma da lontano — per bocca dei loro ben pagati avvocati (uno per tutti, Marco Tullio Cicerone), definendo “infidi” i sardi (diciamo noi, che non volevano sottomettersi alle loro ruberie) e “per nulla attraenti” le sarde (diciamo noi, che non si prestavano alle loro disoneste pretese erotiche).
La pasticciata trasmissione condotta da Quaranta ha dato la stura alle più audaci fantasie di enti, società commerciali, organismi culturali (diciamo così) e giornalisti che si sono avventati sul “Falso-Deledda” come mosche sul miele.
Bisogna dire che la passione per lo scherzo della signora Ziama ha contagiato anche figure che, per formazione e impegno professionale, dovrebbero / potrebbero essere un pochino più attente nella scelta dei loro riferimenti letterari e di immagine.
27 luglio 2021/ Milo Manara e l’isola in fiamme: un disegno e la poesia “Noi siamo sardi” di Grazia Deledda.
Il celebre fumettista usa le parole della scrittrice premio Nobel per dire “Coraggio Sardegna!”
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Il grande fumettista Milo Manara su Instagram rivolge un pensiero alla Sardegna in questi giorni flagellata dal fuoco con un potente disegno e le straordinarie parole della poesia di Grazia Deledda “Noi siamo sardi”:
«Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi. Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese. Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto. Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’Immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta. Noi siamo sardi.”
Il disegno è un cavallo inghiottito dalle fiamme, “Coraggio Sardegna!!!” l’esortazione finale.
28 luglio 2021/ Anche lo stilista Marras coinvolto (suo malgrado?) nell’omaggio al “Falso-Deledda”.
A proposito di assensi, forse inconsapevoli, al “Falso-Deledda”, lo stilista Antonio Marras (per altro decisamente apprezzabile per la sua interpretazione in chiave moderna dell’universo del costume sardo tradizionale) per l’allestimento del Padiglione Clemente del Museo Nazionale Sanna di Sassari (riaperto a fine luglio 2021 dopo tre anni di chiusura) ha presentato sue creazioni con un riferimento — ma implicito, si badi bene — alla composizione attribuita a Deledda.
Il commentatore dell’evento Alessio Onnis ci ha però messo del suo e su Artribune del 28 luglio 2021 ha presentato come esplicito il solamente indiretto riferimento di Marras al “Falso-Deledda”:
«La sala successiva, di tipo “fanta-etnografico”, riunisce una serie di manichini che indossano gli accessori del vestiario femminile tradizionale sardo, ma che l’estro creativo dello stilista ha volutamente stravolto rispetto al loro uso quotidiano. […] le gonne diventano copricapi, i corpetti vengono indossati al rovescio, tutto viene decostruito e reinterpretato allo scopo di rielaborare la cultura millenaria sarda attraverso le stratificazioni di varie culture dei popoli che si sono succeduti sull’isola, […] mettendo in dialogo diverse forme culturali.
In tutta la mostra non compare alcuna etichetta o didascalia, […] La tradizione non appartiene solo al passato, ma è presente e quindi futuro, è sempre in divenire, e Antonio Marras in questo suo estroso allestimento ha reso concrete le parole della poesia Noi siamo sardi di Grazia Deledda: “Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, /romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi. // [ecc. ecc. — viene riportata tutta la composizione della signora Ziama]»
2021 / Per raccontarsi al mondo anche la Città di Bosa si affida al “Falso-Deledda”.
Per la stagione turistica 2021 la Città di Bosa ha lanciato il progetto “Bosa, città dei colori” che sul sito Web dedicato al lancio della proposta conclude il messaggio promozionale riportando la parte finale del “Falso-Deledda”, assurto così a suggello “storico-culturale” per questa “città” posta nel cuore della Sardegna originaria:
«Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta. Noi siamo sardi.
Grazia Deledda
Sarebbe opportuno che, almeno a livello istituzionale, i riferimenti culturali di realtà significative come è storicamente la città di Bosa (ma questo discorso vale ovviamente per ognuno degli oltre 8.000 Comuni del nostro bel Paese) venissero vagliate con una particolare attenzione: una invenzione dopo l’altra e ci si potrà presentare Trento come una città sarda e Cagliari come il capoluogo della Val d’Aosta.
15 dicembre 2021/ Quattro assi pigliatutto — in onore (si fa per dire!) di Deledda. Peccato che Grazia fosse contrarissima al gioco delle carte.
Certo stimolati dalla sua riproposizione acritica sui media nazionali, alcuni imprenditori hanno pensato di utilizzare il “Falso-Deledda”, sfruttando così (a gratis, come si dice) il prestigio della scrittrice nuorese: in collaborazione con Dal Negro (storico produttore di carte da gioco) hanno infatti messo sul mercato un mazzo di carte che ne riporta il testo, distribuito nei quattro assi.
Qui di seguito il promo-pubblicitario di Web TV Sardegna Live:
«Il mazzo di carte “Prendas de Giogu”, illustrato dall’artista Scyna Suffiotti, ha come protagonisti personaggi storici sardi che con le loro vite emozionanti hanno fatto la storia della nostra Isola, ripercorrendo così un periodo che va dal medioevo fino ai primi dell’Ottocento.
L’evento è stato presentato dal critico d’arte Efisio Carbone con relatori il generale Giangabriele Carta e il prof Antonio Salis. I canti del Coro “Su Redentore” di Nuoro hanno poi impreziosito l’incontro.»
E sì! perché Grazia Deledda non solo non ha mai scritto nulla a favore dei giochi di carte, ma ne ha anzi svolto una critica severa.
Per esempio nel racconto “Cattive compagnie” del 1921 Deledda descrive con realismo il meccanismo pervertitore del gioco d’azzardo:
«Hai mai veduto una casa da giuoco? Andiamoci, solo per vedere.
Elia accettò. Un tempo egli era stato un giocatore disperato. […] Era una casa di lusso, frequentata da uomini ben vestiti, eleganti, da artisti, […] Un uomo piccolo, […] s’avvicinò e salutò il negoziante.
– Non giochi? – gli domandò.
– Stasera no! Siamo venuti solo per vedere, con quest’amico forestiere.
– E che ha paura di giocare? Si può perdere, ma si può anche vincere! – disse lo sconosciuto con accento beffardo.
Elia ebbe vergogna dei suoi buoni propositi. L’antica passione lo vinse.
— Posso anche giocare — disse con disprezzo. — E se anche perdo, non mi uccido! —. E sedette al tavolo verde. Dapprima vinse, poi, come sempre accade, perdette il danaro vinto e il danaro suo, poi vinse ancora, perdette ancora. Rimase con dieci lire in moneta d’argento e con la busta che conteneva l’offerta per la Madonna di Pompei. Egli si ricordò di Pasqua che lo aspettava, sola, nell’albergo; vide davanti a sé la figura solenne del vescovo di Olbia. Che fare? Egli guardò con rabbia l’amico negoziante, che lo aveva condotto in quel luogo maledetto. Ma gli parve di non riconoscerlo più. L’amico s’era trasformato in nemico: aveva gli occhi, non più dolci e sereni, ma verdi per la cupidigia e l’ansia del giocatore. […]
Pasqua dormiva quando egli rientrò. Era già l’alba. Elia batté all’uscio del vecchio, e gli raccontò ogni cosa come ad un padre.
— Avevate ragione voi – gli disse. — Talvolta il diavolo assume l’aspetto di un cattivo compagno.»
Anche in “Canne al vento” il personaggio del giovane Giacinto, giocatore incallito, non è certo un esempio di moralità: è proprio per debiti di gioco che, come impiegato pubblico, raggira un ingenuo cittadino sfuggendo alla galera solo per la bontà di quest’ultimo ma giocandosi il suo buon posto di lavoro.
È per il suo incontrollabile vizio che dal continente “ritorna” all’isola, al paese e alla famiglia della madre, come ultima spiaggia di una vita già ai suoi inizi intaccata dalla inconcludenza.
Ma anche qui, sempre alla ricerca di un facile guadagno con le carte (mai realizzantesi, naturalmente) precipita nell’abisso dell’usura, delle cambiali firmate con il nome dell’ignara e incolpevole zia Noemi, posta così di fronte al bivio se rovinare la vita propria e delle sorelle o consegnare alla galera l’amorale nipote.
Anche nell’ultimissima possibilità — cinquanta lire — che Giacinto si compra (sempre dall’usuraia) con l’idea di cambiare finalmente vita, la debolezza ha la meglio e lo sciagurato si gioca gli ultimi soldi con una unica partita alle carte — innocuo passatempo o passaporto per la rovina, come Deledda descrive con efficacia (Canne al vento, Treves, 1913, p. 140):
«Tuttavia finirono nella bettola quasi deserta; solo due uomini giocavano silenziosi e un terzo guardava ora le carte dell’uno ora le carte dell’altro, ma a un cenno di don Predu si avvicinò ai nuovi venuti e tutti e quattro sedettero intorno a un altro tavolo.
Il bettoliere, un piccolo paesano che pareva un ebreo della Bibbia, col giustacuore slacciato sulle brache orientali, portò il vino in un boccale levantino e depose una lucerna di ferro nero in mezzo alla tavola; e il Milese con la testa reclinata a destra mescolò pensieroso le carte guardando ora l’uno ora l’altro dei suoi compagni.
— Quanto la posta?
— Cinquanta lire, — rispose Giacinto.
Trasse il biglietto dell’usuraia.
Perdette.
Sulla lucerna nera la fiammella azzurrognola immobile pareva la luna sul rudero della torre.»
29 ottobre 2021/ Al Senato della Repubblica è la massima Istituzione della terra natia di Deledda a farsi portavoce del falso della signora Ziama.
Il 29 ottobre 2021 la Sala Capitolare di Palazzo della Minerva ha ospitato il convegno “Grazia Deledda, la donna che non mise limiti alle donne”, promosso dal Presidente della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico del Senato, sen. Gianni Marilotti, all’interno delle celebrazioni per i 150 anni dalla nascita della scrittrice.
Tra gli interventi, quello (da remoto) del Presidente della Regione Autonoma della Sardegna, Christian Solinas, che ha così concluso il suo contributo all’evento: «Alla Deledda siamo legati istintivamente dall’empatia che suscitava questa donna sarda che seppe incantevolmente esprimere l’amore per la propria terra nei versi celeberrimi più volte citati, che recitano: Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.»
Naturalmente in questi casi non è bello infierire e del resto è presumibile che il Presidente della Regione Sardegna abbia letto ciò che gli uffici gli hanno passato, senza averne una grande consapevolezza.
La cosa però dà da pensare per almeno due aspetti:
— perché in questa occasione è stato il Presidente della terra natia della scrittrice nuorese a farsi ingenuo diffusore del “Falso-Deledda”, per di più all’interno del Senato della Repubblica;
— perché nessuno degli intellettuali che per vocazione e funzione dovrebbero essere chiamati a tutelare la cultura nazionale e regionale (stiamo pensando soprattutto agli Accademici) si è preso la briga di alzare la manina e dire: adesso basta con queste fantasie, diamoci un taglio!
In attesa che i saggi si diano una svegliata, torniamo ai media nazionali: dopo il “libera tutti”! avviato dalla trasmissione di Quaranta, anche Linea verde ha innalzato il “Falso-Deledda” a bandiera della “sardità”.
19 dicembre 2021/ Linea Verde: il “Falso-Deledda” (presentato come “una delle poesie più famose di Grazia Deledda”) diventa il “manifesto turistico della Sardegna”.
A ruota del programma condotto da Quaranta, troviamo Linea Verde, andato in onda il 12 dicembre 2021 con una carrellata di interviste “dal Sini a Monteferru”. Nel programma non si recitano i versi attribuiti a Deledda ma a essi fà riferimento la presentazione del programma stesso:
«“Noi siamo sardi”, una delle poesie più famose di Grazia Deledda inizia così: “noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, bizantini, piemontesi” e la penisola del Sinis sembra raccontare proprio di questi passaggi di popoli.»
Il parto della signora Ziama è quindi ormai riuscito a posizionarsi come “manifesto” della narrazione nazional-popolare (è proprio il caso di usare questo termine) attorno alla Sardegna.
A questo punto non poteva mancare il contributo dell’Alberto nazionale. E infatti …
16 aprile 2022/ Anche Alberto Angela con “Ulisse” su Rai1 ha attribuito il Falso-Deledda” alla scrittrice nuorese.
E ci ha poi messo del suo, facendola apparire in un paese del Sud Sardegna (da lei mai né descritto né visitato) e facendole pronunciare parole di cui essa si sarebbe vergognata.
Sempre sul filo promozional-turistico anche il programma “Ulisse — Il piacere della scoperta”, trasmesso su Rai1 il 16 aprile 2022 ha attribuito il “Falso-Deledda” a Grazietta.
Ma il geniale Alberto Angela (per uno sguardo alla sua serietà filologica vedi qui) ha voluto fare di più: ha fatto del paese di Tratalias (mai citato in alcuna opera di Deledda né da lei mai visitato) il luogo di intime meditazioni e riflessioni della scrittrice nuorese, da cogliere quasi in presa diretta.
Forse pensando di dare maggior pathos alle parole del “Falso-Deledda” (per la recitazione dobbiamo confessare di avere sentito di meglio) il disinvolto Angela ha assegnato alla attrice Daniela Cossiga il ruolo di Grazia, condendo il tutto con alcune mediocri immagini paesaggistiche della Sardegna (sotto questo profilo aveva fatto meglio Quaranta).
Alberto Angela/RAI1 ci mostra quindi la Cossiga/Deledda mentre esce dalla Chiesa di Santa Maria di Monserrato (ripetiamo, mai citata in alcuna opera di Deledda né da lei mai visitata); le gira intorno; entra in una abitazione posta sul retro della chiesa stessa; guarda su un anonimo nulla fuori dalla finestra, si presume da un secondo o terzo piano.
Poi si gira con aria truce verso lo spettatore mentre il suo parlato recita (con inflessioni alla Barbablù) la frase finale del “Falso-Deledda”: “montagne bruciate dal sole e dalla vendetta”.
Che briiivido!!! Che emoziooone!
Peccato che questa deprimente rappresentazione non c’entri nulla né con la parola né con lo spirito di Grazia Deledda.
A margine, una osservazione già svolta a proposito del murales di Macomer: la sarda, sardissima attrice Daniela Cossiga, certo senza rendersene conto, recitando il “Falso-Deledda” pronuncia “alla sarda” una parola che nella composizione è invece proposta nel corretto e corrente italiano (un poco di pazienza e, più sotto, questa sgusciante parola verrà evidenziata!).
2. Entriamo nel merito: il “Noi siamo sardi” non è di Grazia Deledda.
Come abbiamo appena illustrato, dagli e dagli, moltiplicando irresponsabili esternazioni, figure note e influenti (con il massiccio e pecoresco supporto dei media nazionali, anche mentre erano in corso le commemorazioni per i 150 anni della nascita di Grazia Deledda) hanno inevitabilmente dato apparenza di verità a un non troppo sofisticato falso letterario.
Per fare un po’ di chiarezza, pur nella condivisione delle buone intenzioni anti-razziste che sono presumibilmente alla base di alcuni usi pubblici della composizione in esame, qui di seguito esporremo quindi le ragioni per cui essa non può e non deve essere considerata frutto della creatività e sensibilità di Grazia Deledda.
Del “Noi siamo Sardi” nessuna traccia nella bibliografia deleddiana …
Come già autorevolmente espresso da chi si occupa in modo sistematico dell’opera di Deledda (vedi sopra la dichiarazione di Dino Manca), un dato che possiamo considerare acquisito è che:
— la composizione in oggetto non è mai stata riportata in nessuno degli studi bibliografici sulla scrittrice nuorese.
— non appare citata nel suo epistolario in entrata e in uscita;
— non se ne è mai fatto cenno in alcuna pubblicazione, letteraria o meno, a lei coeva o successiva.
Naturalmente nulla vieterebbe potersi trattare di un inedito.
Ma è ovvio che, in questo caso, sarebbe stato interesse dello scopritore darne ampia pubblicità; indicare dove, come, perché, in quali circostanze sia emerso questo reperto, rimasto eventualmente nascosto per tanti decenni.
Ma in proposito — invece — il silenzio più assoluto.
È altrettanto ovvio, d’altronde, che l’onere della prova sta allo “scopritore” — non basta dire: “ho trovato in cantina questo dipinto che vi assicuro essere di Leonardo, arrangiatevi voi a dimostrare il contrario!”.
Abbiamo quindi chiesto lumi sia ad alcuni dei diffusori della composizione sia a ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro).
ISRE, molto gentilmente, il 10 luglio 2021 così ci ha risposto:
« […] il nostro Istituto ha condotto approfondite ricerche sulla poesia “Noi siamo sardi”, attribuita a Grazia Deledda, senza trovare alcuna informazione sulla stessa.
Gli stessi studiosi e docenti universitari che da anni si occupano dell’opera della scrittrice, sono stati consultati dai nostri uffici, ma hanno confermato di avere più volte cercato fonti e documenti utili a confermare l’attribuzione di questa poesia alla scrittrice, ma senza alcun risultato.»
… da parte dei diffusori della composizione, invece, silenzio tombale …
Il Cagliari Calcio ha infatti mantenuto il silenzio, così come le altre strutture e personalità da noi consultate (per esempio il quotidiano “La Nuova Sardegna”; per esempio il fumettista Milo Manara; per esempio il noto archeologo D’Oriano; per esempio “Sardegna Eventi”, ecc. ecc.).
Riteniamo che questo imbarazzante silenzio non sia da attribuire a cattiva educazione (per quanto un normale riscontro poteva anche essere dato) ma alla impossibilità a formulare una qualsivoglia risposta che non fosse un “ci spiace, non lo sappiamo”.
La composizione di cui ci stiamo occupando infatti NON è di Grazia Deledda, come andiamo di seguito a dimostrare.
Un obiettivo circoscritto.
Senza avviare grandi riflessioni su Deledda (per questo ci sono fior di accademici, o no?) ci limiteremo a dimostrare, testi alla mano, come quella composizione sia stata compilata accostando a espressioni, effettivamente usate da Grazia Deledda in un suo romanzo del 1903 (“Elias Portolu”), espressioni che non solo poco hanno a che vedere con lo stile e la sensibilità etica della scrittrice nuorese ma che anzi li contraddicono.
Nel “Falso-Deledda”, per esempio, proprio con la prima frase si suggerisce suggestivamente al lettore che Grazia Deledda avesse ed esprimesse una visione dello sviluppo storico sardo come esempio di cosmopolitismo e multiculturalismo, frutto straordinario di una unificante “cultura mediterranea”.
Più sotto mostreremo come questa visione, oggi da molti condivisa in forme più o meno esplicite, non fosse neppure lontanamente immaginata da Deledda. La scrittrice nuorese, sensibilissima a cogliere la realtà della “sua“ Sardegna non ci ha infatti lasciato nessuna sua riflessione su questa supposta “cultura mediterranea” sovranazionale e sovra-razziale.
Allo stesso modo, nel “Falso-Deledda”, la “vendetta” è presentata come elemento fondante della cultura e della fisionomia sarda — ma nella vera Deledda le cose stanno in tutt’altro modo.
Nella sua elaborazione, infatti, la “vendetta” viene rifiutata a pro’ del “perdono”— evidentemente tutto un altro universo etico, certo differente dalla prospettiva propostaci in forme più complesse da altri (per esempio da Manzoni) ma comunque sufficientemente chiaro nelle conclusioni.
Le fonti.
Per un quadro generale dell’opera di Deledda ci siamo avvalsi dei testi messi gratuitamente a disposizione del pubblico da Sardegna Digital Library.
Per le ricerche statistico-testuali ci siamo invece avvalsi di una edizione digitale dell’intera opera deleddiana, disponibile a Euro 0,49 (sì, mezzo Euro) sul portale https://webreader.mytolino.com.
L’edizione (comunque sufficiente per gli scopi che ci siamo prefissi con questa Nota) per la verità non è un granché da un punto di vista filologico.
Mancano per esempio le 156 pagine di “letture” redatte da Deledda per il “Libro della terza classe elementare — 1930-31” (già più che affermata, la scrittrice avrebbe anche potuto farne a meno!); e manca anche il racconto “Gabina” del 1892, che utilizzeremo più avanti per alcune considerazioni sull’universo etico di Deledda.
Anche la trascrizione dei testi non è un granché e presenta numerose mende. È quindi possibile che alcuni dati nelle “occorrenze” da noi più sotto riportati non siano precisi al mille per mille ma — per i nostri obiettivi — ciò ha una importanza solo relativa.
Due distinte “accumulazioni”.
La composizione “Noi siamo sardi” ha una sua struttura ben riconoscibile.
In termini retorici è infatti composta da due distinte “accumulazioni” (cercate qualche esempio su Internet, ne trovate a iosa) il cui concetto di insieme (“noi siamo sardi”) è posto ad apertura e a chiusura.
La prima “accumulazione” (siamo spagnoli, africani, ecc.) è da considerare senz’altro non coordinata sul piano logico (è “caotica”, secondo il lessico della retorica); la seconda invece presenta una certa coerenza.
Cominciamo quindi col suddividere la composizione della signora Ziama in queste sue distinte parti strutturali:
Accumulazione A.
Fisionomizzazione etnico-storica.
Frase 1/ Noi siamo Sardi. Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.
La abbiamo definita “accumulazione caotica” perché questa enumerazione pone sullo stesso piano termini concettualmente molto distanti come, per es., “africani” e “pisani” — sarebbe come in tassonomia porre sullo stesso livello sistematico i mammiferi e lo scoiattolo comune (una delle 279 sottospecie degli Sciuridi, una delle 34 famiglie dei Roditori, a sua volta uno dei 19 ordini dei mammiferi).
__________
Accumulazione B.
Fisionomizzazione etnico-naturalistica.
Frase 2/ Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese.
Frase 3/ Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.
Frase 4/ Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare.
Frase 5/ Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.
Frase 1/
«Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.»
La prima frase del “Falso-Deledda” suggerisce una collocazione della Sardegna nel contesto dell’esperienza storica dell’area mediterranea e, a supporto, propone un elenco disomogeneo di popoli o realtà geo-politiche che sarebbero stati determinanti per la definizione della fisionomia dell’isola.
Ci possono essere modi diversi di vedere la storia del Mediterraneo ma a noi qui interessa solo verificare come Deledda si esprimesse a proposito di “spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi”.
Cominciamo dal lemma “africano”/a/i/e.
In tutta l’opera di Deledda (complessivamente oltre 4 milioni di parole, di cui circa 3 milioni di argomento “sardo”) ne abbiamo trovate 7 (sette) occorrenze: in nessuna di queste il lemma “africano/a/i/e è utilizzato a indicare abitanti o popoli del continente africano, come andiamo qui di seguito a documentare (“pos” indica la “posizione” nella citata edizione Kindle):
pos. 4102 / “Cagliari” (da Natura ed Arte, Milano, 1899, n. 12)
«Si è ben lontani dal forte centro della Sardegna; qui il clima, il suolo, l’aria, i venti africani […]»
pos. 6897 / “Memorie di Fernanda” (1889):
«Pochi minuti dopo ci trovammo in giardino, in un magnifico viale di tigli d’Olanda e di ailanti del Giappone, vicino a cui crescevano delle stupende ketmie africane.»
pos. 35910 / “Il Nonno” (1908):
«che portava l’odore delle coste africane. All’orizzonte, sopra il […] »
pos. 38393 / “Sino al confine” (1910):
«le campagne coltivate sembravano deserti africani! Quelle due voci animavano […]»
pos. 83146 / “I giochi della vita” (“Il fermaglio”, 1920):
«come Speranza usava fare con gli africani comprati a Viadana. » [sono dolcetti, quelli che in “Il fermaglio” Speranza divorava “a pezzettini a pezzettini, intorno intorno, lentamente” — ndr]
pos. 121636 / “Cenere” (1929):
«per lavorare in una miniera africana, non s’era saputo più […]»
Ci ripetiamo (ma può forse essere utile): in tutta l’opera di Deledda, in nessuna delle 7 occorrenze individuate, il termine “africano/i” è utilizzato come sostantivo a indicare abitanti o popoli del continente africano.
La cosa non è ovviamente così bizzarra: il continente Africa è costituito, oggi come ai tempi di Deledda evidentemente, da centinaia di etnie nettamente distinte, con oltre 2.000 lingue perfettamente differenziate e con storie geo-politiche le più diverse — anche in relazione al Mediterraneo.
Con la sua militanza giovanile nell’area della etnografia, Deledda non sarebbe mai cascata in una indicazione così generica — a qualcuno risultano influenze bantù o ashanti sulla Sardegna?
E passiamo ai “bizantini” …
Su 21 occorrenze (stiamo sempre parlando dell’intera opera di Deledda dedicata alla Sardegna, pari a circa 3 milioni di parole) solo UNA accenna incidentalmente ai bizantini come entità politica (“Monte Bardia”):
«Dopo l’insurrezione dei Sardi contro la dominazione bizantina, fuggiti i fiacchi Greci da Cagliari […]»
Nelle altre 20 occorrenze Deledda ci riporta come “bizantini” per lo più elementi architettonici e decorativi:
vetri / mosaici / finestroni / figure / corporatura / Madonne / sculture di animali / croci / medaglie / rabeschi / santi in legno / la pieve di Santo Antioco.
Solo un accenno incidentale, quindi, ai “bizantini” come soggetto storico-politico! E da qui si vorrebbe inferire che Deledda considerasse la fase di dominio dell’Impero di Bisanzio sull’isola come co-fondante della fisionomia sarda contemporanea?
Occhio alla risposta perché, se volessimo applicare questo criterio ad altre realtà, potremmo ugualmente dire, e a maggior ragione, che l’eredità bizantina è stata determinante anche nel definire la fisionomia di romagnoli, marchigiani, liguri, laziali, pugliesi, calabresi, siciliani (qui sotto — in colore rosa — l’estensione dell’Impero Bizantino verso il 600): avanzeremmo cioè una osservazione puramente suggestiva e senza alcun valore aggiuntivo in relazione alla Sardegna.
… e che dire degli “arabi”? …
Il lemma “arabo”/a/i/e compare in tutta l’opera di Deledda per 31 occorrenze: anche in questo caso, nessuna di queste fa riferimento agli “arabi” come popolo o entità storico-politica, come il lettore può verificare:
lamentoso arabo metro / immerse le membra arabe dentro le perle pure / una interessantissima aria araba / voglio raccontarti una leggenda araba / volto nero e arso di arabo / eravamo montate su eleganti cavallini arabi / lo vidi su un cavallo arabo / di quella strana bellezza araba / tipo di donna araba, alta, secca / fratello, col pallido viso arabo / avrai d’effluivi arabici il crine imbalsamato / ricordava le donne arabe nate dal sole / graziose teste di arabe provocanti / pallida e coi grandi occhi arabi / monotono di qualche donna araba / magra, dalla fine testa araba / Ella ha un viso da araba / il profilo arabo della giovine vedova / una figura di donna araba / Vestita da araba, con un costume / album di fotografie egiziane ed arabe / le donne imbacuccate come arabe / silenziosa e nera dal profilo arabo / alto e nero come un arabo / scuro in viso come un arabo / voluttuosa come una fanciulla araba / viso bruno e rapace di arabo / in casa un giovane servo arabo / sue avventure, del servetto arabo / voglio raccontarti una leggenda araba / immobile come un piccolo arabo / quel mobile arabo da museo / perfetto discendente dei pirati arabi / quella bella moretta che mi par già di aver conosciuto in Arabia?
Allora, anche degli arabi “storico-politici”, nessuna traccia!
E, in effetti, quando Deledda ha voluto riferirsi agli “arabi” come entità storico-politica, ha sempre utilizzato il termine “Saraceni”.
Del resto anche dei “Libici” (così nell’antichità classica si indicavano gli abitanti del Nord-Africa prospiciente all’Italia), Deledda scrive solo due volte: in “Cosima”, descrivendo se stessa: «le caratteristiche fisiche sedentarie delle donne della sua razza, forse d’origine libica»; nella favola “La fanciulla di Ottana”, dove si accenna al libico Sardus Pater come oggetto di culto.
… e concludiamo con i “piemontesi”.
In tutta l’opera di Deledda il lemma “piemontese”/i ricorre solo tre volte (su 3 milioni di parole) e mai in relazione alla funzione e al ruolo storico-politico della regal Casa che, anche “per volontà della Nazione”, costituì il Regno d’Italia nel 1861:
— «Ella era figlia d’un capitano piemontese» [Amori moderni];
— «il severo capo mastro piemontese» [Fior di Sardegna];
— «e un sarto piemontese, elegantissimo» [Cenere].
Abbiamo provato ad allargare un pochino la maglia di ricerca ma con poco successo: per “Regno di Sardegna” abbiamo una sola occorrenza (“Cagliari”):
«Costituito il così detto Regno di Sardegna, l’isola continuò […]»
Per “Casa Savoia”, 1 occorrenza (“Cagliari”):
«i Sardi si legarono a casa Savoia; e nel 1793 respinsero […]»
Riassumendo su questo aspetto, possiamo ben dire che “africani”, “bizantini”, “arabi” e “piemontesi” non erano da Deledda considerati termini utili a indicare alcune delle realtà storico-politiche che dal “Falso-Deledda” vengono invece poste come elementi costitutivi della “fisionomia sarda”.
Ma la vera Deledda che diceva su altri popoli, su altre influenze?
Vediamo innanzitutto se in Deledda sono rintracciabili enumerazioni di popoli che abbiano avuto a che fare con la Sardegna, e di che tipo.
Noi ne abbiamo trovate tre (ben vengano altre segnalazioni).
La prima è nel Prologo di uno scritto del 1899 dedicato alle leggende (con accostamenti anche immaginifici, evidenziazioni nostre):
«Sono personaggi storici che si mescolano coi diavoli, con le fate, con le streghe e le janas; sono i giganti, da cui il popolo sardo crede fossero abitati i nuraghes, sono i Saraceni, i Pisani, i Genovesi, gli Spagnoli, i Giudici, i Vescovi che in ogni tempo, — dopo la dominazione romana, di cui soltanto i Sardi, pur restando tanto profondamente latini, negli usi e nella favella, non si ricordano quasi, — fecero del bene e del male all’isola. Sono i Doria e i Malaspina, sono i giudici di Torres, i viceré aragonesi, i frati, le maliarde fiorite nel medio-evo, sono le scorrerie e le avventure dei pirati saraceni, negli ultimi secoli prima del mille, […]»
La seconda è in “Leggende di Sardegna — Superstizioni, 1893”
«Tradizioni certamente antichissime, anteriori ai Saraceni ai Latini ai Cartaginesi, che i Sardi hanno saputo conservare attraverso tante vicende e mescolanze di popoli.»
La terza enumerazione è in “Cagliari, 1899”:
«Altri storici la chiamarono Carales, ed anche Jalea, da Jolao, condottiero di una colonia greca, che i più dicono fondatore di Cagliari.
Altri la ritengono fondata dai Fenici, dietro cui vennero gli Etruschi, i Troiani, gli Iberi, i Galli, i Greci e i Cartaginesi che conquistarono tutta l’isola, tenendola loro schiava per tre secoli, dal VI avanti Cristo.
Durante le guerre puniche, passata la Sardegna ai Romani, Cagliari si sollevò, ma il console Tito Manlio Torquato riuscì presto a domarla.».
«Dopo la sollevazione dei Sardi Pelliti, soffocata nel sangue, Cagliari passò, dopo i Romani, ai Vandali, ai Greci, ai Goti, poi di nuovo ai Greci. Cacciati questi, la Sardegna fu divisa in giudicati, con a capo piccoli principi; ma l’indipendenza sarda durò poco. Nel 700 Liutprando, Re dei Longobardi, in fama di pio e di santo, aiutò l’invasione dei Saraceni in Sardegna.»
Quindi?
Quindi Deledda, là dove accenna ai popoli che si sono presentati in Sardegna come conquistatori o mercanti, oltre a due delle 9 realtà che compaiono nel “Falso-Deledda” (ossia gli Spagnoli e i Pisani) ne ricorda ben 12 (Saraceni, Genovesi, Aragonesi, Latini, Greci, Etruschi, Troiani, Iberi, Galli, Vandali, Goti, Longobardi) che non compaiono nel “Falso-Deledda”.
D’altro lato (lo abbiamo visto sopra), negli elenchi di Deledda non compaiono ben cinque delle 9 entità elencati nel “Falso-Deledda” — africani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.
Definita la cosa sul piano strettamente documentale, possiamo concludere questa prima parte della nostra analisi con una breve riflessione di carattere ideologico-culturale.
Era nelle sensibilità di Grazia Deledda esprimersi in termini “di cosmopolitismo mediterraneo”?
Arriviamo alla cosa con un paio di passaggi.
Come abbiamo già anticipato, la prima frase del “Falso-Deledda” è una classica “accumulazione caotica”, ossia che si snoda lungo un percorso non necessariamente logico.
Va da sé che, anche se non ordinata secondo una logica rigorosa, nel “Falso-Deledda” quella enumerazione di popoli ed esperienze socio-politico-culturali, vasta come l’intero bacino mediterraneo e lunga 3.000 anni, può suscitare — in chi possiede un certo tipo di sensibilità si intende — un riflesso di positiva apertura (ed è certo in questo senso che la frase è stata impiegata a fini antirazzisti dal Cagliari Calcio nel 2019).
Dobbiamo però chiederci — stiamo discutendo di questo, non è vero? — se il senso di cosmopolitismo mediterraneo e di multiculturalismo che se ne può trarre poteva appartenere a Grazia Deledda.
Possiamo tranquillamente rispondere che NO!
I sentimenti di “cosmopolitismo”, più o meno internazionalista, che possono intravedersi in quella frase potevano forse appartenere a tendenze (minoritarie comunque) del movimento socialista / anarchico europeo al tempo della scrittrice nuorese (150 anni fa). Ma in Italia certe idee (pensiamo anche alla questione femminile) risultavano molto annacquate proprio dall’accentuato localismo, di cui era espressione anche Grazia Deledda, seppure in lei in forme non regressive.
Il sentirsi come positivo amalgama di plurisecolari esperienze diverse può appartenere a una parte della nostra collettività: ma questo — eventualmente — oggi, nella ineludibile manifestazione a tutti i livelli della globalizzazione.
Ma di sicuro non in quel tardo ’800 in cui si formava Deledda, caratterizzato anche dalla cruenta affermazione del colonialismo, con tutto il corollario delle teorie razziste di certo positivismo, cui non fu sicuramente estranea la stessa giovane Deledda; giova ricordare che, ingenuamente, ancora nell’edizione Speirani del 1901, il suo “La via del male” riportava in dedica «Ad / Alfredo Niceforo e Paolo Orano / che amorosamente visitarono la Sardegna» certo non benvoluti in Sardegna per i loro studi di taglio lombrosiano sul banditismo sardo come portato di una genetica corrotta.
Ci sembra che, di fronte alla aggressione dell’Italia alla Libia del 1911, una delle più sgangherate e insieme sanguinarie avventure militariste del tempo (qualche anno dopo divenuta, con il genocida Graziani, protocollo macabro per tutti i colonialisti europei e non) Deledda (come molti intellettuali, si intende) se ne sia distaccata solo in termini di generica etica religiosa, senza affrontare la questione sul piano geo-politico o delle relazioni multiculturali, come possiamo leggere in “Canne al vento” del 1913 (pp. 89-92, evidenziazioni nostre):
«Tutto il giorno la fisarmonica suonò accompagnata dai gridi dei rivenditori, dall’urlo dei giocatori di morra, dai canti corali o dai versi dei poeti estemporanei.
Raccolti entro una capanna, seduti per terra a gambe in croce intorno a una damigiana verso cui si volgevano come a un idolo, i poeti improvvisavano ottave pro e contro la guerra di Libia, eran parecchi e si davano il turno, e intorno a loro si accalcavano uomini e ragazzi […].
.Il poeta Serafino Masala di Bultei, col profilo greco e vestito come un eroe di Omero, cantava:
Su turcu non si cheret reduire,
Anzis pro gherrare est animosu,
S’arabu inferocitu est coraggiosu,
Si parat prontu nè cheret fuire….
[Traduzione Deledda: «Il Turco non vuole arrendersi, / Anzi nel combattere è animoso, / L’Arabo inferocito è coraggioso, / Si slancia pronto né vuole fuggire»]
[…]E Gregorio Giordano di Dualchi, bel giovane rosso vestito come un trovatore, si lisciava i lunghi capelli con tutte e due le mani, se li tirava sul collo, e cantava quasi singhiozzando come una prèfica:
Basta, non poto pius relatare,
Discurro su chi poto insa memoria;
Chi àppana in dogni passu sa vittoria,
De poder tottu l’Africa acquistare;
Tranquillos e sanos a torrare,
Los assistan sos Santos de sa Gloria,
E cun bona memoria e vertude
Torren a dom’issoro chin salude!
[Traduzione Deledda: «Basta, non posso più raccontare, / Discorro quel che posso a memoria; / Che abbiano (gl’Italiani) in ogni passo la vittoria / Da poter tutta l’Africa conquistare; / Tranquilli e sani possano tornare, / Li assistano i Santi della Gloria, / E con buona memoria e virtù / Tornino a casa loro con salute!»]
.Applausi e risate risuonavano; tutti ridevano ma erano commossi. […]
.
Un Baroniese smilzo alto e nero come un arabo, invitò Efix a bere e gli raccontò episodi della guerra, di cui era reduce.
— Sì, — diceva guardandosi le mani, ho strappato il ciuffo ad un Sirdusso, uno che adorava il diavolo. lo avevo fatto voto di prenderglielo, il ciuffo; di prenderlo intero, con la pelle e con tutto. E così lo presi, che possiate vedermi cieco, se mentisco! Lo portai al mio capitano, tenendolo come un grappolo: sgocciolava sangue nero come acini d’uva nera. Il capitano mi disse: bravo, Conzinu!
Efix ascoltava, con in mano una rosellina di macchia. Si fece il segno della croce con lo stelo del fiore, e disse:
— Ti confesserai, Conzì! Hai ucciso un uomo!
— Nella guerra non è peccato. È forse di nascosto? No.
Allora cominciarono a discutere, ed Efix guardava la rosellina come parlando a lei sola.
— Ad uccidere tocca a Dio.»
Meritoriamente, la ormai matura Deledda (nel 1913 aveva 42 anni), nella immediatezza della “operazione speciale” italiana contro la Libia, condannava quindi con efficacia le atrocità dei criminali di guerra.
Al contempo però proponeva come orizzonte per cui sentirsi “commossi” la conquista dell’intera Africa.
Con buona pace, ovviamente, di ogni eventuale pensiero “cosmopolita” o “internazionalista”, nel nome di una comune civiltà europeo-mediterranea.
È poi fin pleonastico (ma meglio ripetersi che fare finta di nulla in nome di non si sa quale “senso di opportunità”) ricordare come nel già citato “Libro per la terza classe elementare, 1930-31” (redatto da Deledda per la sezione “Letture”), nella sezione “Storia” (opera di Ottorino Bertolini) così venivano proposti agli italici 700.000 bambini della terza elementare (e alle loro famiglie) i rapporti con le culture “africane” e “mediterranee” (pag. 283):
«Che cosa sono le colonie? In Africa, nell’Asia, nelle Americhe vi sono grandi estensioni di terre, ricche di prodotti naturali, ma abitate da popolazioni indigene ancora barbare o selvagge, che non le sanno sfruttare.
I popoli bianchi, invece, grazie alla loro civiltà, conoscono il valore di quei prodotti […] È quindi ben naturale che i popoli bianchi si siano adoperati ad occupare quelle terre, per trarne i prodotti tanto necessari al benessere della loro patria, e per recare agli indigeni la luce ed i benefici di una civiltà superiore. Le terre così occupate son dette colonie.»
Evviva la chiarezza!
E ancora (p. 287):
«La conquista della Libia, di Rodi, del Dodecanneso: 1911-1912.
Guardate su la carta geografica la nostra Italia: non sembra un molo gigantesco lanciato nel mare Mediterraneo verso l’Africa? Su questo mare l’Italia ha infatti i suoi maggiori interessi, e su di esso era stata padrona nell’antichità e per gran parte del Medio Evo.
Ma in seguito Francesi e Inglesi avevano occupato le rive africane bagnate dal Mediterraneo, fatta eccezione solo della Libia […] Se anche la Libia fosse caduta sotto il dominio di un’altra grande potenza europea, l’Italia si sarebbe trovata come prigioniera nel Mediterraneo, con suo gravissimo pericolo. La conquista di quella regione era dunque assolutamente necessaria: e nel settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia tra l’entusiasmo indescrivibile di tutto il popolo.
La guerra durò un anno e fu vittoriosa.»
Inutile evidenziare che il tutt’altro che sprovveduto professor Bertolini (notare come le giustificazioni per le aggressioni di rapina, scritte in alfabeto latino o cirillico siano sempre le medesime), nello scrivere “dell’entusiamo di tutto il popolo” mentiva sapendo di mentire e misconosceva il ruolo ricoperto in quella occasione da quello che nel 1930-31 era suo signore, padrone e committente.
Per tutto il settembre del 1911, infatti, una parte significativa d’Italia manifestò apertamente — e in alcune città anche con notevole decisione — contro l’aggressione alla Libia: vi furono intellettuali e politici (ricordiamo per tutti Amadeo Bordiga fra i più incisivi) che denunciarono con chiarezza il carattere imperialistico (nel senso più moderno) dell’azione italiana; in tutta Italia vi furono manifestazioni e comizi nel corso dello sciopero generale nazionale, appositamente indetto per il 27 settembre dalla Confederazione Generale del Lavoro (CGdL); a Forlì la protesta assunse un carattere pre-insurrezionale il 26 e il 27: il repubblicano Pietro Nenni e l’allora socialista Benito Mussolini furono in prima linea — e con grande efficacia — nel dirigere i manifestanti in azioni dirette (per questo loro ruolo scontarono poi parecchi mesi di galera).
Comunque sia, con riferimento ai primi tre decenni del ’900, vissuti con piena consapevolezza da Deledda (e caratterizzati dal più gaglioffo sciovinismo anche da parte dei radicali cui essa era allora vicina), l’attribuire alla scrittrice nuorese quel particolare modo di pensare e sentire, sotteso per la nostra sensibilità attuale alla prima frase del “Falso-Deledda”, è quindi solo un falsare — non importa se consapevolmente o meno e con fini eventualmente non retrivi — i più riconoscibili elementi costitutivi della nostra storia politica e culturale.
Ma passiamo al secondo blocco del “Falso-Deledda”.
“Accumulazione” B.
Fisionomizzazione etnico-naturalistica.
Ricordiamo che questa seconda accumulazione è composta di 4 frasi:
Frase 2/ Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese.
Frase 3/ Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.
Frase 4/ Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare.
Frase 5/ Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.
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Come anticipato, per confezionare il suo testo, la signora Ziama ha preso (cambiandone l’ordine) qualche parola ed espressione dal più che noto romanzo di Deledda “Elias Portolu”.
L’opera fu per la prima volta pubblicata nel 1900 sulla «Nuova Antologia»; resa in volume con l’editore Roux e Viarengo nel 1903; ripubblicata (dopo intenso lavoro correttorio) dai Fratelli Treves nel 1917, nel 1920 e infine nel 1928 (di seguito facciamo riferimento a questa ultima edizione).
Per analizzare l’operato della signora Ziama nel comporre il suo “Falso-Deledda”, cominciamo col riportare il testo delle frasi 2/3/4 del “Blocco B” e le confrontiamo con il testo della vera Deledda di “Elias Portolu”, ricordando che per le parti qui analizzate il testo è rimasto inalterato nelle diverse edizioni.
Le parti copiate dalla signora Ziama dal romanzo di Deledda le abbiamo evidenziate in [verde tra parentesi quadre]; le parti di sua invenzione e che non hanno alcun riscontro con alcuna opera di Deledda le abbiamo evidenziate in [rosso, tra parentesi quadre].
Frase 2/
Falso-Deledda:
«Siamo le [ginestre d’oro giallo] che [spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese].
Deledda (Elias Portolu p. 37):
«sul sentiero roccioso spiovevano, come grandi lampade accese, le ginestre d’oro giallo.»
Come si vede, non tutte le espressioni sono identiche (per es. “sentieri rocciosi” > “sentiero roccioso”) e hanno altra disposizione e senso; è però chiaro che la signora Ziama ha pescato in quelle due righe di Deledda.
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Falso-Deledda:
Frase 3/ «Siamo la [solitudine selvaggia], il [silenzio immenso] e [profondo], lo [splendore del cielo], il [bianco fiore del cisto].»
.Frase 4/ «Siamo [il regno ininterrotto del] [lentisco], [delle onde che ruscellano i graniti antichi], [della rosa canina, del vento], [dell’immensità del mare].»
Deledda (Elias Portolu, p. 39):
«L’orizzonte stendevasi ampio e puro, il vento odoroso passava ondulando le verdissime brughiere: ineffabile sogno di pace, di solitudine selvaggia, di silenzio immenso appena rotto da qualche richiamo lontano di cuculo, e dalle voci sfumate dei viandanti. Ed ecco, d’un tratto, il sublime paesaggio profanato e desolato dalle bocche nere e dagli scarichi delle miniere: poi di nuovo pace, sogno, splendore di cielo, di pietre fosche, di lontananze marine: di nuovo il regno ininterrotto del lentischio, della rosa canina, del vento, della solitudine.»
Per ogni verifica, qui sotto mostriamo le due pagine (37 e 39) del romanzo “Elias Portolu” da cui la signora Ziama ha preso le espressioni di Deledda.
Ricapitolando.
Per le frasi 2-3-4 la signora Ziama ha preso qua e là parole e singole espressioni dal romanzo “Elias Portolu” di Deledda, ne ha modificato l’ordine e ne ha fatto una insalata mista con parole/espressioni di propria invenzione, estranee al registro espressivo di Deledda.
Infatti, tutte le espressioni della chiusa della composizione:
Frase 5/ “Siamo una [terra antica] di [lunghi silenzi], di [orizzonti ampi e puri], di [piante fosche], di [montagne bruciate dal sole e dalla vendetta]”
non trovano alcun riscontro in alcuna opera di Deledda.
Può essere a questo punto utile verificare partitamente le 9 espressioni inventate dalla signora Ziama per constatare quanto siano lontane dal vocabolario di Deledda.
Espressioni estranee od oppositive a Deledda.
Frase 3/ bianco fiore del cisto
.
Frase 4a/ lentisco
.
Frase 4b/ onde che ruscellano
.
Frase 4c/ sui graniti antichi
.
Frase 4d/ immensità del mare
.
Frase 5a/ terra antica
.
Frase 5b/ lunghi silenzi
.
Frase 5c/ orizzonti ampi e puri
.
Frase 5d/ piante fosche
.
Frase 5e/ montagne bruciate dal sole e dalla vendetta
Frase 3/ “il bianco fiore del cisto” …
Il riferimento al colore del cisto non ricorre mai in nessuna opera di Deledda: la scrittrice caratterizza infatti questa bella sempreverde, endemica della Sardegna, solo come “massa”.
Abbiamo infatti 5 occorrenze come “macchie di cisto”; 2 come “boschetti di cisto”; una sola è legata all’ “odore del cisto”.
NEPPURE UNA ricorrenza è relativa al suo colore.
Ciò può forse apparire curioso (il fiore bianco del cisto è ben presente a chiunque conosca anche un poco la Sardegna) ma così è: Deledda in tutta la sua opera letteraria non ne fa mai riferimento.
Vi sono quattro occorrenze che legano “bianco” a “fiore” ma tre in senso traslato e nell’unico in senso proprio non v’è traccia del cisto:
• “gli oggetti sulla mensola, il fiore bianco nel vasetto prezioso”;
.• “Non il dolce e mite primo amore che sboccia, e muore come un bianco fiore d’inverno”;
.• “nel finestrino della cameretta, come un fiore bianco che a poco a poco si tingeva di rosa”;
.• “e dal pugno parve sbocciare un grande fiore bianco: un fazzoletto che ella aveva rubato a Lia”.
Frase 4a/ “Lentisco” versus “lentischio” …
Nel costruire il suo “Falso-Deledda”, la signora Ziama è incorsa in uno dei più tipici errori dei falsari caserecci.
Per riferirsi all’arbusto sempreverde delle Anacardiaceæ, ha infatti utilizzato un termine — lentisco — oggi come ieri di uso corretto e corrente ma del tutto estraneo al vocabolario di Grazia Deledda.
Deledda infatti MAI usò il termine “lentisco” e invece — e per ben 130 occorrenze — usò sempre il termine “lentischio” (del resto, come il da lei mai troppo ammirato/imitato D’Annunzio).
Nonostante nella odierna lingua italiana sia considerato corretto il termine “lentisco”, tuttora i sardi spesso e volentieri dicono (e scrivono di riflesso) “lentischio”.
Ricordate quanto abbiamo detto a proposito del murale di Macomer?
Lì, l’artista Paolo Mazzucco in arte Mamblo (piemontese ma sardo di elezione), certo senza rendersene conto ha riportato il testo del “Falso-Deledda” ma con l’ “errore” proprio della dizione sarda, da lui adottata.
Frase 4b/ “onde che ruscellano” …
Anche in questo caso l’espressione non compare in nessuna delle opere di Deledda.
Dobbiamo però rilevare che l’attribuirla a lei è non solo un falso documentale ma anche una vera e propria deformazione del come la scrittrice nuorese rappresentasse, a sé e al lettore, l’elemento naturale “onda/onde”, che ricorre per 230 volte nell’opera deleddiana, in particolare con riferimento al mare.
In Deledda esse infatti:
frusciano / si slanciano / balzano / urlano / risuonano / sembrano diavoli / si sollevano / mormorano / battono / si muovono vanamente / saltano / travolgono / rigettano / sono piccole e bianche / lontane / trasparenti / di luce argentea / di sangue e di inchiostro / bianche / verdastre / chiazzate d’oro e di zaffiro / nere e inargentate / si divertono / bagnano / danzano / flagellano / corrodono / si sbattono / conducono / scavalcano / sono gioconde / divertenti / eguali / feline e feroci / si dividono / si slanciano / si avanzano / si spingono / si spandono / si ritirano / saltano con agilità feroce / sono cosa viva / ridono / rombano agitate / rumoreggiano / sono di azzurro intenso / insanguinate dal tramonto / assaltano / esaltano gli odori / paiono ghirlande di fiori azzurri e dorati / sono violacee e sanguigne / si increspano / si lamentano / sono agitate / simili ai giorni della vita / assaltano vanamente / hanno forza irrefrenabile / assalgono le roccie / frusciano / scintillano / si baciano / sono lontane / tiepide / con riflessi d’oro / coperte di schiuma / grigie / verdastre / grosse e spumanti / si frangono / muggiscono / danno carezze brutali / sono argentee / scintillanti / basse / cattive / mordono con denti di schiuma / tornano indietro di furia / comunicano segreti paurosi / hanno voce tetra / colore livido / divorano / sono crudeli / hanno schiuma tenera / quelle del torrente sono pietre stritolate / hanno bacili d’argento / sono grosse e lanose / danno suoni d’organo.
Questi appena elencati sono gli oltre 80 modi con cui Deledda caratterizzò le onde ma …
ma … tra tutte le espressioni manca il “ruscellare”.
D’altra parte la cosa non è così bizzarra.
Ruscellare.
Nella lingua sarda, “ruscellare” non esiste; in quella italiana è derivato da “ruscello”, dal latino “rivuscellus” (piccolo rivo); indica lo scorrimento di un liquido (tipicamente acqua); lo si può dilatare verso l’idea di “allargamento”; indica comunque sempre il risultato di una pulsione o interna (a un monte) o esterna (dal cielo) dall’alto verso il basso.
Troviamo ruscellare/rucellare nella “Istoria Fiorentina” (Vol. 11) di Marchiònne di Coppo Stefani, scritta a metà del ’300 e pubblicata alla fine del ’700; è presente sporadicamente dai primi dell’ottocento; ha una impennata ai primi del ’900.
Oggi, con la rete Web, gode di grande favore: molti “ruscellano”, in ogni tipo di circostanza.
Ma Deledda mai lo utilizzò.
Avrebbe potuto? Dipende.
“Ruscellare” è trasposizione di senso che sul piano poetico potrebbe anche funzionare, purché però usato in modo appropriato.
Nel libro appena citato di Baldassarre Buonaiuti, nella rubrica titolata “Come fu una grande mortalità nella città di Firenze”, il cronista del ’300 descrive la pestilenza che devastò la città di Firenze nel 1349 e così usa il termine “rucellare” (ruscellare):
«era cominciata una pestilenza […] forse in quattro case, e in uno mese n’era morti dieci e lasciatone due, e poi restata; ma per la città quasi niente si sentì, se non in sul Marzo e Aprile; allora cominciò a rucellare, e bastò insino al Settembre molto fiera […]»,
Nell’uso che ne fà Bonaiuti “rucellare / ruscellare” indica quindi lo scorrimento / allargamento di un qualche cosa.
Più tardi il termine venne usato in modo più restrittivo a indicare un liquido che scorra dall’alto verso il basso; per esempio acqua che, veniente dal cielo o dall’interno di un monte, scenda su tronchi, pietre, erbe.
Abbiamo cioè un movimento tendenzialmente continuo e unidirezionale — dall’alto al basso (non si può pensare a un “ruscellamento” verso l’alto).
In questo senso anche Deledda avrebbe quindi potuto usarlo — ma mai lo fece.
Nella sua opera il lemma “ruscello” ha una sua presenza (76 occorrenze) ma in Deledda esso:
cade mormorando sul granito / scorre / mormora / stagna /scroscia / sussurra / è limpido / pietroso / giallo / è striscia argentea / ha uguale rumore / ha acque splendide.
In Deledda quindi il ruscello compie alcune azioni, ma mai “ruscella”.
Nel caso delle onde, se sono di torrente, non ruscellano proprio perché onde, quindi masse più o meno consistenti d’acqua; se di mare, potrebbero ruscellare dopo essersi abbattute su scoglio; in questo senso l’espressione potrebbe avere un suo impiego; ma, per definizione, in questo caso sarebbe un ruscellamento a singhiozzo, cioè si verrebbe a negare la natura di continuità, tipica del “ruscello” comunque inteso.
L’espressione quindi funziona, ma solo a metà e non è da meravigliarsi che in Deledda non compaia mai.
Frase 4c/ “sui graniti antichi” …
In 121 occorrenze, in Deledda il granito non è mai “antico”, come ce lo ha voluto rappresentare la signora Ziama.
Nell’opera deleddiana il granito è infatti:
umido / chiaro / grigio / scuro / può essere “percosso dal vento” / duro e grigio come il volto di un padre addolorato / può essere “rosso / patinato dal tempo”; può essere “argenteo” / in forma di “sfinge”.
Per la verità in Deledda non si riscontra una grande numerosità delle qualità del “granito”.
Nella sua opera, il granito è soprattutto complemento di materia a specificare oggetti della quotidianità (scalini, davanzali, piazze, ballatoi, trugoli, ecc. ecc.) o elementi della natura (pareti, lastre, dirupi, distese, ecc.).
Mai però compare il concetto di “antichità”, forse perché giudicato dalla Deledda come pleonastico (non esiste il “granito” nuovo o fresco, non è come il formaggio).
Frase 5a/ “terra antica” …
Anche questa espressione in Deledda non compare nonostante il lemma “terra” compaia 885 volte.
Là dove il sostantivo è accompagnato da un aggettivo, questo esprime almeno 84 diverse qualità, per modo che in Deledda la terra è:
arata / monda / bassa / divina / meravigliosa / leggendaria / misteriosa / color d’oro / bella / dei miracoli / splendida / umida / commossa / gonfiata / nera / natia / lontana / odorosa / selvatica / vergine / voluttuosa / seminata / selvaggia / febbricitante / silenziosa / putrida / solida / immobile / madre / straniera / di giganti sepolti / ingrata / smossa / bagnata / fiorita / muta / promessa / grigia / specchio / fresca / calda / addormentata / dura / magra / assetata / di sogno / di conquista / ignota / infocata / oscura / fangosa / di banditi / gialla / bianca / puzzinosa / nerastra / feconda / sacra / scavata / buia / fredda / rossiccia / raggrinzita / gelata / fuggente / ringagliardita / indurita / polverosa / irrigata / benedetta / gonfia / agitata / pagina bianca / stordita dal sole / triste e misteriosa / bruna / della speranza / abitata / candida / tormentata / in riposo / rocciosa.
La terra di Deledda è anche attiva e quindi:
tace / rifiorisce / sorride / fiorisce / trema / frana / al suo centro è Satana / palpita / si vela di melanconia / si avvicina alle stelle / le geme il cuore / oscilla / inghiottisce / sente i palpiti del cuore / riferisce messaggi / gode / romba / oscilla / si assopisce in un sogno / vive di luce / si rinnova / si spacca al gelo / ha un aspetto sinistro / odora come tomba dissepolta / è posseduta dal sole / ringrazia / cessa di camminare / rimane stordita dal vento / è torturata dall’inverno / dorme tranquilla / sembra sgombra di uomini / è bruciata da lunghe siccità / non tradisce e dà all’uomo le erbe e i frutti.
La terra in Deledda compie quindi molte azioni ed è qualificata in vari modi, ma mai è indicata come “antica”.
Anche in questo caso — probabilmente — per Deledda valeva il discorso già fatto per il granito — la terra è antica per definizione, vuota ripetizione il dirlo.
Frase 5b/ “una terra di lunghi silenzi” …
L’espressione “lunghi silenzi” in Deledda ricorre solo due volte; ma o con nulla a che vedere con la Sardegna; o con nulla a che vedere con la terra:
– «Dopo i lunghi silenzi e le solitudini del Po» (Nostalgie, 1914);
– «e dopo lunghi silenzi più significativi ancora, mi disse» (Colombi e sparvieri, 1912).
Il singolo lemma a sostantivo ricorre invece 24 volte e così abbiamo “silenzi”:
azzurri / grigi dell’anima mia / gialli del gran sole d’oro / della notte / delle campagne / del plenilunio / della valle / della penombra di una chiesa / delle solitudini / del reclusorio / quelli del cielo sono placidi o azzurri / del bosco sono immensi / della vecchia casa malinconici / di lei sono improvvisi o esacerbati.
Frase 5c/ “orizzonti ampi” …
In Deledda il termine “orizzonti” compare 55 volte. Gli orizzonti deleddiani sono:
selvaggi / vespreggianti / si tingono di lilla / smorti / immensi / pallidi / ineffabili / lontani / solenni / silenziosi / luminosi / vaporosi / vasti / purissimi / argentei / grandi / di velluto / chiari / fumosi / mai prima sognati / limpidi / azzurri / allagati / aperti.
L’espressione “orizzonti ampi” compare una sola volta: è in “Memorie di Fernanda”. Primissimo romanzo della diciasettenne Deledda, si svolge in Bulgaria con un registro lontanissimo da quello della scrittrice che conosciamo.
Frase 5d/ “piante fosche” …
In Deledda sono 9 le occorrenze del termine “fosche”.
Tali sono:
rocce / figure / visioni / pietre / le tinte dell’imbrunire / le macchie dei boschi.
Quindi nella sua produzione nessuna pianta è descritta come fosca.
Il termine “foschi” ricorre invece 48 volte e tali sono:
pensieri / presentimenti / vestiti / quadri di epoche / colori / toni.
Ma in Deledda foschi sono soprattutto gli occhi che con questa caratterizzazione sono richiamati per 37 volte.
Frase 5e/ “montagne bruciate dal sole e dalla vendetta” …
In Deledda le montagne appaiono in ben 363 occorrenze ma neppure una volta sono rappresentate come “bruciate”.
Nell’opera della scrittrice nuorese infatti le montagne sono:
verdi / dorate / diafane / argentee / aride / azzurre e bianche / velate dalla nebbia / scoscese / in manti di nebbia azzurra / addormentate / con riflessi d’oro / grigie / frastagliate / di granito / imbalsamate / calcaree / azzurre / chiazzate di boschi / alte / basse / eguali / bianche / nereggianti / rocciose / di azzurro / di rosa / nere / brune / azzurre e bianche / coperte di boschi / selvagge / verdi e granitiche / velate di vapori azzurri e ardenti / fulgenti di ginestre fiorite / di madreperla / livide / violacee / turchino-nerastre / verdi e azzurre / natie / lontane / marmoree / chiare / rosse e azzurre / bianche e nere / veli azzurri / azzurre e rosee / color malva e oro / di fior di lino / olezzanti nel silenzio verde / scintillanti / solitarie / di viola / di azzurro e di rosa / orribili / azzurreggianti / enormi pietre preziose / azzurre evanescenti / paurose / dai profili argentei / rosseggianti / di un azzurro fosco / di marmo azzurrognolo venato di rosa e di viola / lilla / grigie e fredde / dolcemente bionde / di bronzo / cerule / grigie e violacee / nere flagellate dal sole / alte / striate di nebbia cerula / verdi e scoscese / profilate d’argento / turchine / grigie e paonazze / vaporose / in nuvole d’oro / rosee / grigie e viola / tigrate melanconiche.
In Deledda la tavolozza delle montagne si estende su 80 colori ma non troviamo neppure un accenno al fatto che esse possono essere “bruciate dal sole”, né tantomeno “bruciate dalla vendetta”.
Questo formidabile elemento della natura, così presente nella realtà sarda, è presentato nel “Falso-Deledda” in forma drammatica, negativa: il sole infatti le “brucia”.
La signora Ziama poteva allo stesso modo dire “baciate dal sole”; ma certo il bacio sta un po’ lontano dalla “vendetta”.
Perché la signora Ziama associa la vendetta alle montagne?
Una risposta potrebbe essere: chi è offeso, fugge, si isola, si rifugia sui granitici monti inaccessibili, privati della verzura dalla vandalica scure del progresso (per esempio, per farne traversine ferroviarie).
E quindi “bruciate”, spogliate dalla dolcezza della vita rifiorente; lì l’offeso matura i sentimenti e i piani di “vendetta”.
Il processo mentale che ha mosso la signora Ziama è abbastanza trasparente ma l’approdo non può essere Grazia Deledda dalla quale le montagne sono caratterizzate in tutt’altro modo.
Intanto, lo abbiamo visto, in Deledda le montagne sono sempre molto colorate; anzi “multicolorate”, a seconda della stagione e dell’ora del giorno.
Inoltre non sono mai negative:
— “chiamano a un vago sogno”;
— “s’ergono violacee tra il cielo d’oro e il mare d’oro”;
— “spariscono in mari di azzurre vaporosità”;
— “sono portatrici d’azzurro infinito, come il mare e il cielo”;
— “sono come nuvole … con larghe macchie argentee di granito”;
— “nascondono i buoni giganti che accumulano roccie e coltivano querce rigogliose e fresche”;
— “su una delle loro cime sorge la casa della madre della Luna, coi venti che le giocano davanti, come ragazzi”;
— “fra di loro l’alba indugia in fulgidi candori di perla”;
— “dietro di loro sale dal mare come un immenso petalo di glicine, la delicata e violacea aurora autunnale”;
— “di fronte a quelle cerule della costa si impone la nobile idea di giustizia e di pace”;
— “sopra una delle loro alture rocciose, fra roveti e macchie, una chiesetta campestre, da quel fondo di cielo cremisino guardava con infinita dolcezza sul piano arato”;
— “le loro linee lontane destano in cuore una dolcezza strana, e danno l’idea di versi immensi scritti dalla mano onnipotente d’un divino poeta sulla pagina celeste dell’orizzonte”.
Potremmo andare avanti così — per un bel pezzo — a riportare come Grazia Deledda vedesse le montagne e ce le volesse fare vedere attraverso le sue sentite parole.
Ve lo possiamo assicurare: in lei non troverete mai l’idea della “montagna bruciata dalla vendetta”.
È questa una vera assurdità della signora Ziama che si è fatta prendere la mano da una mediocre letteratura più coerente con gli spaghetti western che con Grazia Deledda, la quale la pensava — e ne scriveva — in tutt’altro modo, come andiamo a dimostrare nella sezione che segue.
3. La vera Deledda: no alla vendetta, sì al perdono.
Contrariamente a quanto ha voluto spacciare la signora Ziama (e i suoi poco accorti ripetitori), è obbligatorio sottolineare che lungo tutto il corso della sua esistenza, a proposito della “vendetta” (concepita sia a livello emotivo sia a livello para-istituzionale, pensiamo al cosiddetto “diritto barbaricino”), Deledda ha mantenuto una posizione univoca: no alla vendetta, sì al perdono.
Ci danno testimonianza di questo orientamento esistenziale moltissimi spunti della sua vasta composizione e in proposito ci potranno confortare con dovizia di esempi gli specialisti della sua vita e opera.
Da parte nostra ci limitiamo ad alcuni accenni orientativi.
Troviamo per esempio significativa una sua lettera a Epaminonda Provaglio del 23 giugno 1892 (evidenziazioni nostre):
«preparo un volume di novelle sarde: me ne aveva incaricato un editore di Milano, promettendomi mille lire; però ora abbiamo rotto il contratto perché l’editore pretendeva che io scriva racconti di sangue e di delitti, ché, ignorante che esso è, crede che in Sardegna non si viva che di odio e di fucilate! Io non scriverò mai simili cose e non macchierò giammai il nome della mia patria, come fecero tanti altri autori sardi, anche se mi dessero in compenso tutto l’oro del mondo.»
Mica male come presa di posizione da parte di una ventunenne del cuore della Barbagia — e nel 1892!
C’è inoltre una sua opera (non molto citata, ancorché ben nota) che, nel corso di quasi quarant’anni, dalla scrittrice nuorese venne presentata in tre versioni (molto differenziate quanto a mezzo espressivo, taglio narrativo e pubblico di destinazione) che ci offre la possibilità di verificare in modo immediato:
— quanto Grazia Deledda sia stata sempre estranea alla ideologia della vendetta;
e
— quanto invece convinta della funzione risolutiva del perdono nelle relazioni personali e sociali. Siamo molto lontani dalla riflessione di Manzoni sul medesimo tema ma di certo alla estremità opposta della valorizzazione della “vendetta” come modalità di soluzione dei conflitti.
Dal racconto “Gabina” / “Di notte” (1892-1894); al melodramma “La grazia” (1921): è sempre il medesimo messaggio di opposizione alla vendetta, da Deledda declinato senza ripensamenti nel corso di trent’anni da adulta della sua non lunga vita.
Dall’analisi di questa opera di Deledda abbiamo escluso ogni riferimento al film “La Grazia”, uscito nel novembre del 1929 per la regia di Aldo De Benedetti e spacciato — allora come oggi — come “fedele” alla narrazione di Deledda.
In realtà il film del 1929 è non solo perfettamente infedele ai due trattamenti che fece Deledda della sua creazione ma è anche volgarmente deformante e del pensiero di Deledda e della Sardegna intera. Al di là quindi dell’ottimo lavoro che fecero nel 2005 Sergio Naitza e Susanna Puddu per riproporci il film benissimo restaurato, riteniamo che esso non rivesta alcuna importanza nell’economia di questa Nota — ne faremo eventualmente una critica specifica e a sé stante (comunque non volutamente anodina, come le tante che circolano).
“Gabina”, 1892 (mutata in “Di notte” nel 1894).
«Nuoro, Sardegna, 1 maggio [1892]
Egregio Signor Direttore,
A suo tempo ho ricevuto la sua cortese risposta alla mia cartolina; e, adottando il suo consiglio, Le invio un racconto sardo, puramente sardo, anzi davvero accaduto. Si degni leggerlo e giudicarlo e, se crede, lo pubblichi nella sua Rivista.»
Così la ventunenne Grazia Deledda inviava ad Angelo De Gubernatis, fondatore e direttore della rivista “Natura e arte”, il componimento “Gabina – Racconto sardo”, pubblicato sulla rivista stessa nel settembre successivo, da p. 636 a 650, per 6.610 parole e quattro illustrazioni.
Il medesimo racconto venne ripubblicato con il titolo “Di notte”, due anni dopo, nella raccolta “Racconti sardi” (Editore Dessì, Sassari, 1894).
Rispetto alla prima edizione del 1892, per il volume “Racconti sardi”, Deledda, oltre al titolo apportò al racconto oltre duecento interventi correttori: la più parte di carattere linguistico e di stile, certo da considerare ma inessenziali ai fini del nostro discorso.
Di seguito presentiamo un nostro compendio delle 6.610 parole del racconto di Deledda del 1892.
GABINA / RACCONTO SARDO
(“Natura ed Arte” — Fasc. 19/1 settembre 1892).
Nostro compendio (le parti evidenziate sono dell’autrice).
«Nel paese di A… in una notte tempestosa, Gabina, di 9 anni, si sveglia cercando la mamma Simona che sempre le dorme accanto.
Non la trova ma sente voci agitate dalla cucina sottostante; spaventata, pur col freddo e la pioggia battente, vi si avvicina da una scala esterna e da una larga fenditura della porta …
… vede la sua bella mamma Simona, il nonno Tottoi, i suoi due robusti zii Tanu e Predu, quest’ultimo armato di fucile: sono tutti rivolti verso un bell’uomo sui quarant’anni, legato a una rozza scranna …
… e sente sua madre dire con asprezza: difenditi Elias; “t’odio e da dieci anni non sogno che la vendetta”; traditore, perché mi hai lasciata, dopo due anni di fidanzamento, sapendomi gravida? dacci una scusa valida e ti uccideremo soltanto, altrimenti ti abbrucieremo vivo.
Tanu e Predu fissano duramente l’uomo.
Questi esclama: “se errai non fu mia colpa, ma del caso e per volontà di Dio!”; ricordi? quando decidemmo le nozze, andai a Nuoro per comprare gli anelli; non lontano da Fonni mi prese la tempesta; cadde malamente il cavallo e io, affondato per ore nella nebbia e nella neve, svenni.
Mi svegliai in una grande stanza, assistito da una bella ragazza, la padrona di casa; un suo pastore, trovatomi morente, mi aveva portato a Fonni. Con alte febbri lì rimasi più giorni, sempre assistito dalla dolce giovane — si chiamava Cosema; le dissi del matrimonio deciso con te, cui sempre pensavo; di come, col mio modesto ma sicuro podere, potevo assicurare la serenità della nuova famiglia.
Una sera mi svegliai: Cosema mi stava baciando sulla bocca; finsi di dormire e la mattina dopo decisi di andarmene.
La giovane mi implorò di non tornare al paese; si era informata: tutti dicevano che Simona poteva essere incinta di un altro; “mi raccontò mille storie che non ricordo bene, che non sentii bene, ma dalle quali emergeva chiara per me una sola cosa. Che ero mistificato in una guisa infame, che Simona non mi amava, ma lo fingeva per coprirsi di una colpa di cui non io solo ero il complice!”
Simona lo interrompe con ira: era solo tuo quell’essere che portavo in grembo; “tutto ciò che è poi accaduto accresce la mia sete di vendetta”; “mi avevi lasciato incinta per preparare in quattro o cinque giorni il nostro matrimonio e dopo un mese ho saputo che avevi sposato una fanciulla di Fonni”.
Anche i fratelli apostrofano duramente Elias: “Ah, con chi ti credevi tu? La nostra famiglia ha vendicato sempre le offese ricevute: e noi stanotte, noi che ti abbiamo cercato per dieci anni in tutti i villaggi di Barbagia, pei monti nevosi o per le gole dirupate, noi laveremo col tuo sangue la macchia impressa al nostro nome!”
Il prigioniero si dice pronto a morire e continua il racconto: ancora malato, rimasi in quella casa. La giovane, bella e ricca, si disse innamorata di me; debole e oppresso da quello che appariva un tradimento di Simona cedetti all’amore della giovane; la sposai; con lei ho vissuto in questi dieci anni.
Non ho altri figli e voglio il bene della mia bambina cui, anche se lontano, ho sempre pensato: un giorno sarà ricca come lo sono io; chiedo ancora perdono: “è stata la volontà di Dio!”
I fratelli di Simona lo interrompono feroci: sei un traditore, meriti la morte; Predu punta l’arma contro Elias.
“Nessun fremito di paura o esitazione tremava in quei cuori induriti da una vita aspra e stentata, che avevano per religione la vendetta, l’odio per Dio. — Una notte essi avevano giurato, d’intorno a quel medesimo focolare, su quello stesso fuoco che mai si spegneva, di lavare col sangue l’offesa ricevuta, e, attesa per mesi ed anni, finalmente giungeva l’ora sognata. E s’accingevano ad uccidere un uomo con raccoglimento quasi religioso, sicuri di compiere un dovere; convinti di mancarvi se perdonavano; a fronte alta, davanti a quel Dio di cui ignoravano le massime, ma che supponevano crudele al pari di loro.”
Il vento, la pioggia, i tuoni scrosciano fuori con fragore: è “la giusta ira di Dio per il delitto che si sta per consumare in quella casa nera e desolata”.
Da fuori si sente un rumore sordo: Simona corre alla porta della cucina, la spalanca; la sua bimba Gabina, fradicia di pioggia gelata, è stramazzata svenuta.
Elias grida: la mia bambina, salvatela!
“Tanu e Predu si guardavano confusi e interdetti. Certo, la piccina aveva inteso e visto tutto!”
Il nonno ordina: portatela a letto e chiamate subito il dottore; la madre di Gabina e gli zii indicano l’uomo legato.
“Il padre di Simona — molto superstizioso — sorride amaramente, pensando che là sotto stava la mano di Dio che li avvertiva; la luce inonda l’anima del vecchio e un gran pensiero gli brilla nella mente.”
Riflette e poi sentenzia: “è la mano di Dio; lasciatelo andare”.
Elias viene slegato; Simona lo accompagna alla porta e gli dice: “vattene e ricordati di tua figlia! E rimase lì finché il passo di lui non morì in lontananza, fra gli urli della procella”.
Come si può facilmente constatare, sul piano narrativo il racconto della giovane Deledda presenta parecchie falle (il nostro compendio è fedele).
Il lettore non capisce infatti come sia possibile:
— primo: che Elias abbia prese per buone e quasi senza batter ciglio le calunnie della bella fonnese contro Simona, incinta e sua quasi sposa — arriva anche a dire “non ricordo bene cosa mi disse”;
— secondo: che Elias, non sia immediatamente tornato al paese per fare i conti o con i calunniatori o con la fidanzata (e i suoi due fratelli, certo conniventi in caso di inganno);
— terzo: che Simona, saputo a distanza di un mese che Elias si era sposato con una giovane di Fonni (a una giornata di cammino), non abbia spedito i suoi due robusti e armati fratelli a vedersela con lo sciagurato traditore (Elias non racconta di essersi nascosto o di sue fughe in Australia o in altri lontani lidi con la sua bella e ricca Cosema);
— quarto: che Elias sia finito legato come un salame nella famiglia da lui tradita: i fratelli di Simona lo avevano trovato per caso all’osteria del paese? c’era andato lui di sua volontà? e che fine aveva fatto la sua legittima sposa Cosema? ecc. ecc.
Alla base di queste incongruenze narrative vi è certo la scelta di fondo di fare vivere la vicenda in un microcosmo, del tutto senza contatto con la società — quindi, per definizione, innaturale.
Sappiamo che la vicenda si svolge in un paese, in una comunità più o meno ampia. Ma di essa nulla ci viene detto, così come dei suoi componenti e delle relazioni tra i suoi diversi nuclei: tutto avviene all’interno della casa della famiglia di Simona e ha come attori esclusivamente la bambina Gabina, sua madre Simona, i tre maschi della famiglia e il quarto, estraneo seppure così vicino a tutti loro.
I collegamenti con l’esterno sono affidati esclusivamente al racconto di Elias; il quale è però vago e riporta la sua vicenda come vissuta in un sogno lungo dieci anni.
Deledda comunque nulla dice in risposta ai più che legittimi interrogativi cui abbiamo più sopra accennato e lascia il lettore a bocca asciutta, come se le interessasse poco della coerenza narrativa e di una anche minima forma di verosimiglianza della sua narrazione.
In realtà, sembra proprio che la giovanissima Deledda con questo racconto volesse solo evidenziare due questioni:
— la crisi della controparte maschile di fronte alle responsabilità della generazione/matrimonio;
— quale rapporto deve/può esserci tra le istanze di tutela dell’onore/vendetta e le istanze della umanità e della sensatezza?
Per questo secondo problema il racconto di Deledda, ancorché elementare, è abbastanza esplicito:
a/ costretti a una continua e brutale lotta per la sopravvivenza, gli uomini si fanno feroci;
.
b/ non confortati dalla collettività, dimenticano i comandamenti fondamentali della antica religione e ne elaborano una propria basata sulla vendetta, sull’odio e sul sangue;
..c/ ma Dio, che vigila perché l’uomo non piombi nell’abisso della brutalità e dell’omicidio, lancia loro un avvertimento attraverso l’involontario intervento dell’innocente Gabina;
.d/ il capo-famiglia comprende l’avvertimento di Dio; lascia la via della vendetta e dell’odio e imbocca quella del perdono.
Va da sé che in “Gabina/Di notte” l’eterno tema è solo abbozzato ed è trattato in modo piuttosto grossolano. Ma il racconto presenta comunque spunti di un certo interesse:
— da un lato abbiamo l’espressione di una misteriosa forza della vita — l’eros — che svia l’uomo dall’adempimento dei suoi doveri di sposo e di padre. Dopo due anni di fidanzamento ufficiale, saputosi padre Elias ha abbandonato la pur amata compaesana Simona come preso da un incantamento; egli ha consentito a che le insinuazioni della estranea Cosema su una possibile sua non responsabilità nella gravidanza di Simona gli colmassero il cuore ma neppure lui sa perché; ciò che sa dire è solo: “è stato un caso, il volere di Dio” — (Cosema ricorda piuttosto esplicitamente la nereide Calipso o altre similari creature, affascinanti per il protagonista anche perché estranee alla comunità e ai suoi sottesi obblighi);
— dall’altro abbiamo invece il manifestarsi inflessibile di una “legge”, negativa perché basata sull’odio e sul sangue ma pur sempre prodotta dagli uomini; resi duri dall’asprezza della vita, ma “liberi” rispetto al fato e rispettosi dei vincoli comunitari.
Paradossalmente, sotto questo aspetto, la vendicativa famiglia della tradita Simona può apparire come “più evoluta” rispetto all’ondeggiare di Elias, fuggente i suoi impegni e inconsapevole preda dell’eros.
Il superamento di queste due forme di gestione della vita — entrambe primitive — viene da Deledda proposto (un po’ sommariamente per la verità) attraverso il richiamo alla religione nota, quella del Dio dei cristiani, più o meno riconosciuto.
Naturalmente è un Dio vissuto in modo confuso: il patriarca Tottoi più che da una riflessione etica è spinto dal timore di una entità sentita come potenzialmente terribile e incontrastabile.
I suoi due figli si adeguano al suo volere perché l’intervento della piccola Gabina non può essere né soppresso né ignorato: ora che la bimba ha visto e saputo, non è possibile ucciderle il padre.
L’unica via di uscita è accordare il perdono.
Si tratta certo di un perdono a metà: al colpevole Elias è risparmiata la morte ma non l’allontanamento dalla famiglia.
Ma è comunque un perdono e una concessione di ulteriore fiducia: Simona si limita infatti a ricordargli l’impegno verso la piccola Gabina, senza alcuna altra prescrizione che l’onestà di padre.
Nonostante questi limiti, è innegabile che la soluzione proposta da Deledda costituisca nel racconto l’unico pilastro di una certa consistenza: la giovanissima scrittrice nuorese coglie le problematiche del vivere in collettività e cerca di indicarne una soluzione condivisibile e perseguibile nel tempo.
Altro che faccina simil-feroce della Cossiga/Deledda che sibila “montagne bruciate dalla vendetta”!
L’attrice non ne ha naturalmente gran colpa — è il suo mestiere — ma i capi-commessa di Rai1 e Rai2, almeno quando parlano di Deledda, dovrebbero stare più accorti e smetterla di rifilare al pubblico i loro insulsi “pasticcini all’odio-sangue”.
Proprio quelli che, nella sua lettera a Epaminonda Provaglio, Deledda giurò di mai ammannire ai suoi lettori, per rispetto alla propria terra.
Ma facciamo passare quasi trent’anni e vediamo come Deledda riprese i temi del racconto “Gabina/Di notte” del 1892/94, adattandoli — anche pesantemente — ad altri mezzi espressivi ma mantenendone il medesimo messaggio etico.
Per la scena musicata e cantata, il racconto “Gabina/Di notte” cambia titolo e diventa “La Grazia”.
Verso la fine del 1919, per e con il musicista Vincenzo Michetti (e in collaborazione col librettista Claudio Guastalla), Deledda cominciò a lavorare per trasformare il suo racconto giovanile nel libretto per un “melodramma pastorale”.
Il libretto verrà pubblicato da Ricordi nel 1921 con il titolo “La Grazia” e portato in scena in Roma nel 1923 al Teatro Costanzi, con le scenografie e i costumi ideati dall’artista sardo Giuseppe Biasi, già in buoni rapporti con Deledda (ce ne sono rimasti gli interessanti bozzetti).
Per questo adattamento al teatro, Deledda apportò diverse modifiche strutturali all’impianto del racconto pubblicato nel 1892 sulla rivista di De Gubernatis ma ne lasciò intatti i due fili conduttori già ricordati.
Vale la pena di vedere queste modifiche con un poco di dettaglio per continuare a seguire il pensiero della scrittrice nuorese sui due temi della “fuga dalle responsabilità” e della “vendetta/perdono”.
Cominciamo intanto a delineare lo svolgimento del melodramma con un nostro fedele compendio del libretto edito da Ricordi nel 1921.
Nostro compendio di
“La Grazia” / Ricordi Editore, 1921.
Dramma pastorale in tre Atti / di / G. Deledda, C. Guastalla, V. Michetti / per la musica di / Vincenzo Michetti (Simona, Soprano / Elias, Tenore / Tanu, Baritono / Tottoi, Basso / Pietro, Tenore / Cosema, Soprano).
«Atto Primo.
Rosso tramonto sulla montagna; una rustica cucina affollata: intente al pane Simona, le amiche Anna e Oli, le cugine Banna e Teresa; la piccola figlia Gabina; il fratello Pietro; il padre Tottoi, rosario alla mano; la zia Vissenta; una vicina di casa; una venditrice ambulante di tela; poi una giovane con una brocca d’acqua.
Da fuori, un canto d’amore. Tottoi compra una cuffietta per la nipotina Gabina.
Lascia il tuo lutto di vedova — così le cugine a Simona; che alla figlia Gabina ricorda: come era bello il tuo babbo; tu eri tanto piccina … partì al tramonto per un paese lontano; lo accompagnai sino in fondo al sentiero, poi scomparve; venne una tempesta; Elias, dove sei, cuore mio?
Paesani si affacciano alla porta; uno a Simona: sempre bella sei — e le intona un madrigale d’amore; si beve e si ride. Tottoi, indicando una scranna: “quella aspetta qualcuno; ch’egli un giorno possa tornare salvo e senza peccato”.
Gli ospiti salutano ed escono; rimangono Simona, Gabina, Pietro, Tottoi.
Simona, le mani sul capo di Gabina: Signore Iddio, pietà per questo fiore del mio peccato; dov’è il mio Elias? Se l’hanno ucciso, giuro di vendicarlo. Di vendicarmi, s’è vivo! — pare il simbolo dell’odio e della vendetta.
Entra Tanu, il fratello giovane di Simona; fa allontanare la bimba e annuncia: Elias è vivo — ha tradito te e noi. È a Orlai, ganzo di una donna bella e ricca; lo ammazzerò come un cane, a colpi di pietra.
Simona: solo io deciderò il suo destino. Morrà, lo giuro ma avendo sentito l’urlo del mio odio e dolore. Morrà legato su quella scranna che gitteremo sul fuoco! Tanu e Pietro giurano anch’essi; così Tottoi, pronunciando “secondo la giustizia di Dio!”.
Atto Secondo.
All’aperto, una china rocciosa; all’orizzonte verdeggianti pianure, sui monti ghirlande di neve. Una fonte, il Santuario e la statua della Vergine della Neve di cui si celebra la festa. In costume, pellegrini di Nuoro, Orune, Bitti salgono al Santuario cantando laudi, con fiori, ceri e doni votivi all’altare. Donne cucinano su fuochi tra pietre; gli uomini bevono e si scambiano battute; i giovani corteggiano le fanciulle tra schermaglie e innocenti commenti.
Tra la folla, vestiti a festa, schioppo a tracolla, Tottoi, Pietro e Tanu si guardano intorno. Elias, bello nei suoi trent’anni, discende il sentiero; Tanu lo scorge, allontana Pietro e Tottoi. Gli amici, celiano e bevono con Elias. Tra amiche appare Cosema: giovine, bella, riccamente vestita; suscita complimenti.
Elias la trae in disparte: questa festa è un supplizio! mentre pregavo, nostra Signora mi ha indicato la via… andiamocene. Cosema: rimani, nostra Signora comanda che oggi siamo lieti.
Giovani e donne si dispongono alla danza: dov’è il suonatore? Tanu: canterò io, se volete — Sì, sì. Intona! Nel tramonto, tenendosi per mano, uomini e donne, in circolo, al ritmo dell’ondeggiante ballo sardo. In molti li guardano, Elias è indifferente; qualcuno ancora prega davanti all’altare.
Tanu canta: nella foresta abitava un pastore, una figlia, bella come un fiore, e due figli; il cane e lo schioppo per lupi e ladri; erano felici ma un giorno il ladro entrò e il cane non abbaiò.
Portava offerte d’amore; si bevette i baci più puri e dette il bacio del traditore… Disse: Vado a comperare l’anello della fede e la benda per sposare.
Aspetta, aspetta! il traditore non torna più! la povera fanciulla, piange e non canta più!… Ma quel traditore tristo visse molt’anni felice, finché la giustizia di Cristo…
I danzatori, commossi, si fermano, Elias si avvicina — non è così, ragazzo, la storia vera la canterò io: non visse felice; quando partì camminava con l’amore a fianco ma il mago lo legò a una catena intrecciata di rose!… Aveva una spina nel cuore, voleva tornar al primo amore e viver sereno.
Lo interrompe Tanu: lascia mago e rose; la storia è scritta a parole di sangue! Quel vile si nascose lontano… ma è stato trovato; non è ancor morto perché qualcuno lo aspetta vivo.
Elias riconosce Tanu: verrò; non sono quel vile che hai detto.
Cosema: che dici ? nessuno ti porterà via. Io t’amo e non voglio… t’ucciderebbero!
Elias: Cosema, passione selvaggia che m’hai per tant’anni tenuto nella tua dolce balìa, or debbo seguir la mia via! Ciò che Dio ha scritto si deve compire!… È laggiù una bimba cui diedi la vita; la mia ripongo nelle sue piccole mani…
Elias, Tottoi, Pietro e Tanu si incamminano.
Intermezzo.
In una notte solcata da lampi, nella camera di Simona, la piccola Gabina stende le sue manine e ricerca invano la mamma; tremante va alla porta-finestra e, sotto la pioggia battente, discende la scaletta e da una fessura della porta guarda nella cucina e vede … a destra del focolare sono Tottoi e Pietro con il fucile sulle ginocchia; alla sinistra, legato alla scranna, è Elias; alle sue spalle, Tanu; davanti a lui Simona, la mamma di Gabina.
Atto Terzo.
Simona, guarda Elias con odio e angoscia: difenditi, scusati almeno! Ti odio!… credevo in te come in Dio!… mi sei passato sul corpo e sull’anima!… t’aspettavo, e t’amavo!… ho sofferto l’onta di me che non sapevo scordarti e non sapevo morire!… grida in me, contro di te, l’odio eterno, l’eterno dolore di tutte le donne tradite, di tutti i figli abbandonati! E ti condanno a morire. Ma prima parla, voglio sapere.
Elias racconta: tutto era dolce, ricordi?… In quel dolce tramonto l’amore ci cantava in cuore; ma la tormenta gelida mi colse e chiusi gli occhi pensando a voi, pensando a te, Simona!…
Alto era il sole quando mi destai nel tepore di un letto, in una grande casa: mi guardava una giovane donna, bella come la Madonna; i suoi servi m’avevano trovato come morto e portato alla sua casa… Ma non chiedermi di più: ero legato al mio peccato, e l’anima volava qui, volava a te!
Simona, impietosita, è presa da incertezza; Tanu la richiama severamente.
Elias: Tanu, in te vidi la mano che Dio mi offriva per liberarmi dall’incantamento; sono venuto con voi per rivedere Simona e la creatura mia che sempre ho amato … e a morire!
Simona, turbata, ah, se ti potessi credere!… Tanu: Simona, egli mente come al primo bacio! Pietro, scuotendo il fucile: non esci vivo di qui. Tottoi, solenne: non s’è mai perdonato a un traditore.
Elias: ammazzatemi ma prima voglio vedere mia figlia — gli gridano: è figlia nostra, non tua.
Elias: badate! io parlo di là della vita, se me la negate la porto con me!
Simona si muove come per andare a prendere la bimba; i fratelli e il padre le intimano di uscire e di non ritornare — no, resto sino alla fine! Contro Elias, legato alla scranna, Pietro punta il fucile.
Di fuori si ode un gemito: Mamma!…
Con un grido Simona apre la porta; la piccola Gabina giace svenuta a terra, livida: Gabinedda mia! cuore mio! — Simona abbraccia la figlia, la bacia: è morta! morta!
Tanu e Pietro si guardano confusi.
Elias implora: ammazzatemi, ma lasciatemi sentir che respira, ch’è viva; padre, ti supplico … nel nome di Cristo fammi baciare mia figlia!…
Dalla porta entra il chiarore d’un’alba serena; il vecchio Tottoi solleva il capo e il viso pare inondato da una nuova luce: lasciatelo… È la mano di Dio!… Lasciatelo, dico!
Disciolto da Tanu, Elias si avvicina a madre e figlia, s’inginocchia e pone la fronte sul corpo di Gabina…
… e allora si vedono le tenere braccia della bimba muoversi, lentamente sollevarsi e intrecciarsi come in un abbraccio sulla testa del padre.
Tottoi: alzando le mani, come per benedire: figli, è la mano di Dio!»
Se ne razionalizza lo svolgimento ma le premesse (la passione tra fidanzati, la crisi maschile di fronte alla paternità) e finale (il perdono risolutore) rimangono invariati.
Chiediamo al lettore di riprendere quanto abbiamo più sopra scritto sul racconto “Gabina”, da cui è tratto il melodramma pastorale “Grazia” che abbiamo appena compendiato.
Come potrà agevolmente constatare, tra la prima stesura del 1892 e il suo sviluppo per la scena del 1921, Deledda ha apportato mutamenti sostanziali allo sviluppo narrativo mantenendo però:
— le premesse ambientali (Elias e la compaesana Simona, serenamente fidanzati ufficiali da due anni, concepiscono una creatura e decidono di sposarsi; Elias fugge colto da una crisi da responsabilità paterna);
— il messaggio etico di fondo: rispetto alla vendetta (in sé solo distruttiva) il perdono offre una soluzione positiva ai problemi dei rapporti umani.
Vediamo meglio la cosa.
a/ Nucleo familiare e comunità.
Nel racconto “Gabina” del 1892 la vicenda si svolgeva esclusivamente all’interno del nucleo familiare; il mondo esterno veniva richiamato solo per l’appartenenza di Elias alla medesima comunità di Simona e attraverso il suo racconto — ma come in un sogno.
_________Nel melodramma “La grazia” del 1921, al contrario, la comunità è più che presente: conosce gli avvenimenti e partecipa simpateticamente alla solitudine di Simona, vista come fatalità; d’altra parte è davanti alla collettività cui appartiene la rivale Cosema che si ha il disvelamento del tradimento di Elias.
Con questo coinvolgimento delle due comunità, Deledda rende molto più facile lo scioglimento del dramma: non è più solo un fatto interno al nucleo biologico primitivo (che non può che percorrere le vie del primitivismo) ma diventa elemento collettivo, condivisibile e, quindi, risolvibile.
b/ Un sentimento quasi nobile contro incantamento, sensualità e falsità.
In “Gabina” Elias, il protagonista del tradimento, è tale perché preso da un invincibile incantamento e da Cosema, fonte di erotismo ma anche, per amore, di inganni e falsità. Dimentico di tutto Elias la sposa, vive con lei per dieci anni; non ci viene detto che ne è di lei.
_________In “La grazia” Cosema né trama né inganna: è solo una affascinante innamorata. Elias ne è stato incantato per la nobile bellezza, “simile a quella della Madonna”: si è trattato di una malìa quasi celestiale. Elias inoltre non ne è lo sposo ma l’amante — egli è quindi libero.
Come è ben chiaro, con questa seconda lettura della vicenda Deledda abbandona il lato insondabile e incontrollabile dell’eros primitivo e mette invece in campo l’innamoramento come pulsione non necessariamente solo erotica, governabile anche grazie al richiamo alla divinità.
c/ Razionalità contro cieca casualità.
In “Gabina”, non ci viene detto come Elias si ritrovi nella casa della sua quasi sposa, abbandonata incinta dieci anni prima. Deledda ce ne dà solo un vago indizio, facendo ricordare a Gabina che gli uomini di casa mancavano da tre giorni. La presenza di Elias nella cucina di Simona appare come aspetto del generale “incantesimo”.
_________In “La grazia”, la vicenda è un poco più strutturata sul piano narrativo. Benché rimanga un mistero di come ci siano voluti dieci anni, Tanu ha ritrovato Elias. Prima ancora di saperlo, però, Elias “guarisce” per maturazione interna dalla passione per Cosema cui dà praticamente il congedo, essendo confermato nella sua scelta dalla Madre per antonomasia. Messo di fronte alle proprie responsabilità, ammette la debolezza ma rivendica l’amore sempre portato a Simona e Gabina; va a testa alta al suo destino.
d/ Perdono per intercessione divina contro superstizione e opportunismo.
In “Gabina” il “processo” a Elias, condotto da Simona, trova una conclusione assolutoria per l’intervento inconsapevole di Gabina: colpita dal freddo e dall’emozione ella sviene irrompendo nell’azione proprio mentre si sta per eseguire la condanna a morte del padre naturale; ciò viene visto dal vecchio Tottoi come un segnale / avvertimento lanciato dall’invincibile Dio: non è possibile uccidere il padre davanti alla piccola Gabina; l’unica soluzione è il perdono. Non è un granché come perdono (è mosso da superstizione ed è a metà, Elias viene infatti allontanato dalla famiglia) ma è pur sempre tale.
_________In “La grazia” le cose sono un pochino più elaborate. È sempre l’intervento involontario di Gabina, apparsa come ormai morta, a determinare lo scioglimento del dramma. Ma qui la divinità opera non in quanto “ammonisce” ma in quanto manifesta la propria benevolenza: la piccola Gabina torna alla vita accarezzata da chi la aveva generata ma l’aveva abbandonata prima che uscisse alla vita; è così reso manifesto che questo babbo ritrovato — e che si è ritrovato — debba rientrare a pieno titolo nella famiglia.
È chiaro che, anche in questo caso, il perdono accordato dalla famiglia a Elias è ancora condizionato dal volere della divinità e non scaturisce da un atteggiamento autonomamente “divino” assunto dal dispensatore del perdono stesso (come per esempio è in Manzoni).
La vicenda è comunque mantenuta nel quadro di una comunità omogenea, si risolve per l’assunzione di responsabilità ed è assolutamente scartata l’opzione della vendetta.
Per il nostro discorso sul “Falso-Deledda” possiamo fermarci qui: attraverso una sua narrazione (“Gabina” / “Di notte”), replicata con mezzi diversi a distanza di trent’anni con il melodramma “La Grazia”, Deledda ci ha chiarito il suo pensiero sulla “vendetta”, indicandoci anche attraverso questa via come sia assolutamente incongruo volerne fare l’autrice del “Noi siamo sardi”.
Fabio Stoppani
P.S.: Ora che il giochino letterario della signora Ziama può considerarsi smontato, ci sembra che sarebbe opportuno da parte sua rivelarsi pubblicamente — sarebbe certo accolta con simpatia.
Adiosu tia Ziama!
A proposito di casi analoghi di attribuzione farlocca …
Il lettore attento al fenomeno delle attribuzioni “superficiali” più o meno in buona fede (comunque un bel problema per la cultura in generale), può leggere forse con un certo interesse un’altra nostra Nota, dedicata a dimostrare, documenti alla mano, un altro caso di attribuzione di fantasia.
«Manoscritto Lecco 170» / “Gli Sposi promessi”
Una anodina frasetta di sei parole (collocata in un manoscritto di anonimo, preteso del 1824 e custodito presso il Museo Manzoniano di Lecco), da importanti figure della filologia accademica “manzonista” di Parma e Bologna è indicata — a “occhio” — come un inedito autografo di Don Lisander.
Con sprezzo del ridicolo è inoltre presentata come prova secondo cui l’autore de “I Promessi Sposi” fin dall’inizio avrebbe dato alla “Prima Minuta” del 1823 il titolo “Gli Sposi promessi”.
Una “rivelazione”, sobriamente presentata dai media lariani come una “rivoluzione nella storia della letteratura italiana”, che ha offerto lo spunto per una lettura integrale sul Web della “Prima Minuta”, ribatezzata “Gli Sposi promessi”, da parte di alcuni dei più noti nomi del “manzonismo” accademico ufficiale del nostro bel Paese.
Peccato che alle spalle di questa incredibile sparata:
— non sia stata prodotta alcuna analisi strumentale sul fascicoletto che riporta la frasetta (potrebbe tranquillamente essere stato realizzato negli anni ’50 del ’900);
— sul contesto cultural-manzoniano siano state pubblicate (edizioni del Centro Nazionale Studi Manzoniani) elucubrazioni che ci limitiamo a definire favolistiche e con una massa incredibile di errori e distrazioni degne della peggiore italica commedia dell’arte.
Nella nostra Nota «FILOLOGIA MANZONISTA ALLO SBANDO?» presentiamo il “Parere pro veritate” di una vera perizia grafologica (da noi commissionata) che indica come “apocrifa” la frase attribuita a Manzoni dagli accademici e mettiamo in luce il disastro metodologico che le accademiche “manzoniste” hanno posto alla base delle loro fantastiche considerazioni:
— 203 errori nella “trascrizione diplomatica” del «Manoscritto Lecco 170»;
— un incredibile silenzio su una più che probabile manipolazione dell’intero documento recante la frase attribuita a Manzoni;
— 23 vistose difformità di trama rispetto alla “Prima Minuta” di A. Manzoni nell’Epilogo che dovrebbe (secondo le accademiche “manzoniste”) riproporla fedelmente — cavolo! se il Manzoni ci aveva scritto sopra, doveva averla pur letta!
A seguito della nostra Nota, il Presidente del Centro Nazionale Studi Manzoniani, Prof. Angelo Stella, ha avuto la sensibilità di riconoscerne la fondatezza, auspicando da parte delle accademiche “manzoniste” una revisione del loro impianto critico.
Ma dalle stesse, silenzio tombale, così come da parte del Museo Manzoniano di Lecco — chi se ne impippa della cultura e del Manzoni!