Milano, venerdì 28 gennaio 2022.
Riceviamo e pubblichiamo.
A riscontro della nostra Nota «Manoscritto Lecco 170 / Filologia manzoniana allo sbando?», il Prof. Angelo Stella, Presidente del Centro Nazionale Studi Manzoniani, ha voluto cortesemente trasmetterci il suo orientamento sulle questioni da noi sollevate.
«La ringrazio delle sue osservazioni. Credo che studiose e studiosi le prenderanno in considerazione, e che si potrà arrivare, su aspetti ancora giustamente dibattuti, a conclusioni serenamente condivise.
Con i migliori auguri, Angelo Stella».
Osservazioni critiche sul docu-film di Pino Farinotti per la regia di Andrea Bellati. Scritto dal Professor Angelo Stella e Pino Farinotti. Prodotto dal Centro Nazionale Studi Manzoniani, con il contributo di Fondazione Cariplo.
20. Di chi fu figlio Alessandro Manzoni?
A riprova dell’attribuzione della paternità biologica a Giovanni Verri si porta un “si sapeva” e un quadro, forse regalatogli da Giulia Beccaria.
Che però potrebbe non essere quello che conosciamo, conservato presso la Villa di Brusuglio.
Parlato del docu-film – I numeri tra [parentesi] si riferiscono ai fotogrammi sopra riportati.
Jone Riva: [1] «La differenza di età e di nobiltà tra Giulia Beccaria e Pietro Manzoni furono la causa del fallimento del loro matrimonio. Dalla relazione tra Giulia e Giovanni Verri nacque Alessandro, che venne riconosciuto legalmente da Pietro Manzoni. Nella Milano intellettuale e nobile di quel tempo si sapeva della paternità di Giovanni Verri.
[2] Una testimonianza della paternità di Giovanni Verri è il quadro che Giulia Beccaria si fece fare da Andrea Appiani. È il ritratto di Giulia e sulla sinistra, quasi inserito in un secondo tempo, quasi un ripensamento, c’è il ritratto di Alessandro bambino. Questo quadro venne regalato da Giulia a Giovanni Verri quando, dopo essersi separata da Giovanni Verri, si unì a Carlo Imbonati.»
Nostre osservazioni – Giunti al ventesimo e ultimo capitolo della nostra analisi critica, chiediamo al lettore di considerarlo con una particolare attenzione. In esso infatti si discute su aspetti importanti per il dibattito sul mondo manzoniano, come l’attribuzione della sua paternità.
Per la verità riteniamo che la cosa in sé non abbia una grande importanza (come vedremo) per il posto di Manzoni nella nostra cultura. È interessante invece per il riflesso che questo aspetto ha avuto – e ha tuttora – sul come un problema di carattere storico-scientifico viene trattato dalle strutture che (come il Centro Nazionale di Studi Manzoniani – d’ora in poi CNSM) sono preposte a dare risposte veritiere ad aspetti della nostra cultura nazionale.
Richiamiamo inoltre l’attenzione del lettore su un aspetto che trattiamo nella seconda parte dell’analisi di questo Episodio, ossia la corretta identificazione e attribuzione del noto quadro che raffigura Giulia Beccaria e Alessandro Manzoni bambino.
Su questo aspetto riteniamo di avere espresso una valutazione mai prima da altri avanzata e di cui quindi rivendichiamo la priorità.
Ma veniamo alla discussione, riprendendo le parole di Jone Riva: la differenza di età e di nobiltà come cause del fallito matrimonio.
Per quanto riguarda la “differenza di età”, a parte l’essere gli anni di Pietro Manzoni cosa nota a Giulia prima delle nozze, in tutti i tempi sono falliti matrimoni tra coetanei e andati benissimo matrimoni tra contraenti molto distanti negli anni (tra Dacia Maraini e Alberto Moravia — per esempio — vi fu un lungo e appassionato rapporto d’amore, nonostante i 29 anni in più dello scrittore).
Per rimanere alla Milano del ’700 e all’ambiente dei nostri personaggi, tra i genitori di Carlo Imbonati (notoriamente una coppia molto affiatata) vi erano 26 anni di differenza (come tra Pietro e Giulia). E nel 1782 Pietro Verri, a 54 anni, sposò Vincenza Melzi d’Eril di anni 20 (differenza, 34 anni) da cui ebbe 9 figli.
Per quanto riguarda la “differenza di nobiltà” è opportuno ricordare che, al momento del matrimonio, Giulia Beccaria era semplicemente “donna Giulia”, potendo aspirare al titolo di “marchese” Giulio, suo fratello minore.
Giulia era chiamata “marchesa” per pura cortesia sociale, e “ridivenne” nobile, proprio sposando Pietro Manzoni, con il suo “sottile strato di nobiltà”.
Proprio ciò che era successo alla madre di Pietro Manzoni, la milanesissima Maria Margherita Porro, figlia di Fermo Porro, un figura influente del patriziato milanese e, ai primi del ‘700, anche capo dell’Amministrazione della città.
L’affermazione di Jone Riva è quindi non significativa sul piano generale e anche per la realtà del costume dell’epoca. Ma può essere fuorviante per uno spettatore ignaro delle vicende sentimental-amorose della Milano di fine ’700.
Abbiamo già detto sopra (vedi il precedente Episodio) che tra Giulia e Pietro non vi fu un matrimonio d’amore, naufragato poi di fronte alla differenza d’età o a una irrilevante (e anche inesistente, non avendo Giulia alcun titolo di nobiltà) differenza nella gerarchia nobiliare. Fu un matrimonio di interesse (combinato tra l’altro da un elemento non appartenente alle famiglie interessate, qual era Pietro Verri) come accadeva spesso allora — e anche poi.
La paternità biologica di Alessandro.
Questo argomento è maggiormente da considerare ma per ragioni opposte di chi mostra di darvi grande importanza.
Riteniamo infatti che il “peso del sangue” (blu, rosso o di qualsiasi altro colore), determinante sul piano biologico (caratteristiche somatiche, malattie, aspettativa di vita, ecc.), sia assolutamente nullo sul piano della fisionomia psico-moral-intellettuale di chiunque, sotto qualsivoglia cielo.
Gli individui vengono ovviamente formati dall’ambiente in cui nascono e vivono, soprattutto fino alla primissima maturità (a lato immagini del territorio lecchese come doveva vederli Alessandro nella sua puerizia e prima gioventù, proposti nel 1873 dall’Abate A. Stoppani nel suo «I Primi Anni di A. Manzoni»).
Ci pare di offendere il lettore nel ricordare questi elementi, da un pezzo universalmente accettati, ma il docu-film del Centro Nazionale Studi Manzoniani (d’ora in poi CNSM) non dice praticamente nulla sui primi vent’anni di Alessandro Manzoni se non – rileggete le parole di Jone Riva – che egli nacque dalla «relazione tra Giulia e Giovanni Verri». Il CNSM pone come primario un dato che — in mancanza di circostanze esperienziali e sociali precise, in questo caso non esistenti — è semplicemente irrilevante.
È infatti da sempre acquisito che — se veramente padre biologico di Alessandro fu Giovanni Verri — tale elemento non ebbe alcuna influenza sulla vita dello scrittore. Allora nessuno si agitò. Nessuna azione di nessun tipo venne avviata da nessuno in relazione a questo supposto dato biologico. Né esso ebbe riflesso sulle relazioni sociali dei Manzoni, allora e poi.
È solo ora, dopo oltre 200 anni, che questo dato (supposto che sia tale) sembra avere assunto un peso determinante. Tale da minimizzare ogni altra attenzione circa la formazione psicologica e culturale del giovane Manzoni nonché sulle sue relazioni affettive e sociali.
Si è studiato veramente poco sull’ambiente di Galbiate e della Lecco di fine ’700, dove Alessandro passò notoriamente i suoi primi 15 anni di vita e poi lunghi periodi fino ai suoi 33 anni. Ma si cita come elemento determinante di chissà che il supposto dono di un quadro di Giulia a Giovanni Verri.
Non si è ancora fatto uno studio documentato sulla formazione scolastica di Alessandro, né attorno ai suoi istitutori e professori. E neppure sui suoi compagni di collegio.
Alcuni di questi (per esempio del Longone) furono determinanti per l’orientamento giacobino dell’adolescente Manzoni. Come Giambattista Pagani, figlio e nipote di noti patrioti rivoluzionari, prima accarezzati da Napoleone e poi messi bruscamente in disparte per il loro carattere indipendente. La produzione poetica giovanile di Manzoni (ignorata dal docu-film del CNSM) deve essere attribuita a questi legami.
Ma su questo non si dice parola.
E si discetta invece sugli scambi amorosi (più o meno “puri”, a seconda del punto di vista da cui ci si mette) di Giulia Beccaria e del suo entourage sentimental-mondano.
È interessante notare che questo aspetto biologico dell’esistenza di Manzoni interessi oggi molto più che 200 anni fa.
A fine ’700, anche nella non mondanissima Milano, ogni signora che si rispettasse, appena sposata poteva cercarsi — e prontamente trovare — un cavalier servente, pronto a tutte le occorrenze, sociali e personali.
E molti dei mariti, di questi rapporti non solo erano perfettamente a conoscenza, ma ne favorivano nascita e sviluppo. Perché consentivano di coltivare a loro volta relazioni amorose libere e non subìte, come erano frequentemente quelle matrimoniali.
Il giovane Pietro Verri fu per anni amante ufficiale di Maddalena, sorella di Cesare Beccaria e sposata a Isimbardi. E Teresa, la vivace e un po’ fatua moglie di Cesare Beccaria e madre di Giulia, tenne per anni una relazione, perfettamente nota e accettata da Cesare, con il nobile conte Calderara.
Le “infedeltà” delle mogli (e dei mariti) erano quindi aspetti costitutivi di molti matrimoni. Così come lo erano gli inevitabili “incidenti” biologici che ne seguivano, a cui non sembra si facesse gran caso, essendo determinanti gli aspetti legali delle nascite (chiunque fosse il padre biologico, l’importante era si mantenesse inalterato il quadro successorio).
È curioso che proprio oggi, apparentemente in un clima molto più aperto di allora, questo aspetto sia così intensamente considerato. O forse non è solo curioso.
Ci pare che, dietro questa attenzione, espressa da Jone Riva (ma evidentemente propria del CNSM) vi sia il congelamento della riflessione sulla storia come insieme di relazioni complesse. A favore di una storia vista solo da una prospettiva intimista e soggettiva.
Nel caso di Manzoni, un frammento di questa visione è stata espressa alcuni anni fa da Natalia Ginzburg nel suo «La famiglia Manzoni» (vedi in proposito la nostra Nota); e più recentemente in contributi più o meno romanzati, come quello di Marta Boneschi «Quel che il cuore sapeva».
Queste rappresentazioni degli ambienti lariani sono tratte da “I Primi Anni di A. Manzoni” dell’Abate Stoppani del 1873. Stoppani voleva evidenziare il legame organico tra la personalità artistica di Manzoni e l’ambiente naturalistico e sociale in cui era vissuto dalla nascita fino alla piena adolescenza.
Nulla di male se i romanzieri sviluppano le loro creazioni seguendo anche i suggerimenti dell’invenzione (che romanzieri sarebbero altrimenti?). Meno bene se un certo modo di presentare le vicende umane viene proposto come criterio scientifico.
Ci sembra che da parte di scienziati della storia e della lingua italiana (non è il CNSM da 80 anni autorevole consesso di specialisti in queste discipline?) non si possa trattare di Manzoni con il linguaggio e l’orizzonte del “commento-rosa” – seppure non più “bacchettone” ma “moderno”, “libero”, “aperto alle istanze esistenziali”, ecc. ecc.
Nel caso del docu-film del CNSM ci sembra che si sia voluto andare anche oltre, fornendo a questo approccio intimistico e soggettivo il supporto del più concreto dato “biologico”.
Quasi a dire — questa è quanto meno l’impressione che ne abbiamo ricavata noi — che l’origine della complessa personalità di Manzoni debba essere ricercata soprattutto nel fatto di essere figlio genetico di Giovanni Verri.
Non a caso, nella pagina introduttiva della sezione del sito di Casa Manzoni dedicata alla nuova sistemazione museale, si legge: «Alessandro Manzoni, figlio legale di Pietro e di Giulia Beccaria, crebbe “senza famiglia”: eppure il destino […] lo aveva voluto discendente delle due più illustri famiglie milanesi, di Cesare Beccaria e dei Verri, che avevano dettato all’Europa una nuova civiltà giuridica e culturale.»
Sono interessanti queste parole: non solo danno per acquisito che padre biologico di Manzoni fu Giovanni Verri (il che è tutt’altro che certo sul piano della ricerca storico-scientifica — giriamo al CNSM il suggerimento già avanzato da un brillante storico lecchese di promuovere una prova tecnica basata sul DNA dello scrittore) ma ignorano l’aspetto legale e fattuale della vita di Manzoni.
Cancellano il dato storico che il giovane Manzoni con i Verri (e anche con Cesare Beccaria) non ebbe nessunissimo rapporto (l’attento Pietro Verri nella sua fitta corrispondenza ne accenna al fratello Alessandro residente a Roma solo per segnalare – nel 1784 e tra altre “novità cittadine” — che Giulia era incinta, ma senza nessunissimo riferimento a un coinvolgimento nella faccenda del comune fratello Giovanni).
Quelle parole fanno di Alessandro Manzoni un “milanese” solo in quanto — eventualmente — figlio biologico di un milanese.
Ma ignorando che Pietro Manzoni lo allevò come proprio figlio a tutti gli effetti fino alla sua maggiore età.
Quanto dice in modo discorsivo Jone Riva sembrerebbe seguire il pensiero del CNSM, in relazione sia alla paternità biologica di Manzoni sia del riflesso che ciò avrebbe avuto sulla sua personalità, orientamenti, sensibilità.
Ci era parso che il tempo di queste facezie a base di “sangue” (fonte però anche di tragici epiloghi) fosse passato, ma evidentemente non è così e, quindi, diciamone noi qualche cosa.
Il cosiddetto riconoscimento da parte di Pietro.
Jone Riva dice che, nato da Giulia e Giovanni Verri, Alessandro «venne riconosciuto legalmente da Pietro Manzoni».
Lo spettatore potrebbe ricavarne l’idea che Giulia (travolta da passione) vivesse more-uxorio con Giovanni Verri una bella storia d’amore, allietata dalla nascita di un figlio. E benedetta dalla compiacenza di un marito, lontano ma disponibile a mettere a tacere la cosa dando il proprio nome al piccolo. Ovviamente tutto ciò con la realtà ha solo un vago rapporto.
Pietro Manzoni (a lato le partecipazioni di nozze con Giulia) non aveva alcun bisogno di “riconoscere legalmente” Alessandro. Pietro era dal 20 ottobre 1782 marito a tutti gli effetti di Giulia, e con lei regolarmente convivente.
Alla nascita Alessandro era quindi de jure e de facto definito e considerato da chiunque come figlio di Pietro.
Semmai, Pietro avrebbe potuto — eventualmente ma con scarse probabilità di successo — attivarsi proprio per l’azione contraria – ossia “disconoscere” Alessandro, denunciando una relazione extra-coniugale della moglie Giulia. Cosa che non avvenne e non venne da nessuno presa in considerazione.
A due giorni dalla nascita, Alessandro fu messo a balia a Galbiate, in una tenuta dei Manzoni a due passi da Lecco, e per i successivi vent’anni fece prevalentemente riferimento al territorio lariano come suo ambiente di relazione e di formazione.
Pietro considerò infatti Alessandro come proprio figlio — sempre, e fino al testamento con il quale lo dichiarò suo erede universale. Dal 1792 (anno della separazione da Giulia) e per i successivi 13 anni, fu anzi l’unico a occuparsi di Alessandro, essendo Giulia impegnata in altre relazioni, e poi, dal 1796, residente all’estero.
Era così “noto” che Giovanni fosse padre naturale di Alessandro?
Cominciamo col dire che dai diretti interessati (Giulia, Pietro, Giovanni, Alessandro) non abbiamo assolutamente nessuna testimonianza.
A sostegno delle sue parole, Jone Riva porta un “si sapeva”:
«Nella Milano intellettuale e nobile di quel tempo si sapeva della paternità di Giovanni Verri».
E una “testimonianza”:
«Una testimonianza [del concepimento extra-matrimoniale di Alessandro, ndr] è il quadro che Giulia Beccaria si fece fare da Andrea Appiani. […] Questo quadro venne regalato da Giulia a Giovanni Verri quando, dopo essersi separata da Giovanni Verri, si unì a Carlo Imbonati.»
Da un lato è pochino per un CNSM, dall’altro veramente troppo. Vediamo perché.
“A Milano si sapeva”.
Ci pare che l’espressione “si sapeva” possa essere fuorviante.
Si “sa” di qualche cosa a seguito di una specifica azione conoscitiva, basata su dati oggettivi e riconosciuti come tali.
Circa la paternità di Giovanni Verri, l’unico soggetto che eventualmente potesse “sapere” era Giulia Beccaria, ma ciò solo nell’ipotesi che essa, in un periodo dato, non avesse avuto rapporti sessuali se non esclusivamente con Giovanni Verri.
Ma Giulia non lasciò mai in proposito alcun documento (e anche in quel caso se ne dovrebbe valutare la veridicità).
Eventualmente, quindi, a Milano sulla paternità biologica di Alessandro, si poteva forse “dire”, ma di certo non “sapere”.
La questione non è ovviamente terminologica, ma attiene al metodo con cui una struttura scientifica (qual è il CNSM) analizza, testimonia e “crea cultura” su un dato storico.
Sotto questo profilo, su questa questione specifica, il CNSM ha sviluppato una valutazione che ci limitiamo a definire superficiale, non avendo il Centro Nazionale neppure citato le poche fonti che pure potrebbero essere valutate. E quindi facciamolo noi.
Delle migliaia di studi che ormai da due secoli si sono condotti sulla fisionomia di Manzoni e sulla sua epoca, attorno alla “paternità biologica” di Manzoni (distinta dalla “paternità giuridica”), abbiamo solo tre testimonianze databili e non anonime.
Le consideriamo brevemente seguendone la cronologia.
1º — Lettera di Giuseppe Gorani a Giovanni Verri del 16 gennaio 1808.
Venne resa nota da A. Giulini solo nel 1925 (ma censurandola sconsideratamente di un decisivo “vostro”) e, nella sua interezza, nel 1989 (ossia 181 anni dopo essere stata protocollata da Giovanni Verri nel suo archivio personale) da P. Campolunghi («Romanzo e realtà nelle vere paternità di Giulia Beccaria e di suo figlio Alessandro Manzoni (Verri)», 1998), purtroppo con considerazioni di contenuto non particolarmente brillanti e con una sconcertante quantità di errori di fatto.
Campolunghi ha infatti infilato ben 24 errori nella trascrizione della lettera e preso un doppio abbaglio anche sulle sue caratteristiche materiali.
L’autore scrive infatti: «La lettera consta di un foglio tipo pergamena, di cm. 42 x 32».
Il primo abbaglio sta in quelle due parole “tipo pergamena”: non è ovviamente chiaro cosa intendesse Campolunghi con l’impiego dell’espressione “tipo pergamena”.
Come noto la pergamena è un supporto per la scrittura tratto da pelli animali, usato nell’antichità e rarissimamente nelle epoche successive, di certo non nella corrispondenza quotidiana nel 1808; appare poi bizzarro da parte del ricercatore il riferirsi a un suo supposto “tipo”: che razza di considerazioni storico-critiche possono discendere da questa confusa indicazione persino sulla materialità del documento da lui presentato come “prova” inconfutabile di una paternità di Giovanni Verri rispetto ad Alessandro Manzoni?
Il secondo abbaglio sta nelle proporzioni indicate da Campolunghi: “cm 42×32”. Da quanto si può vedere dalla fotografia da lui stesso proposta nel suo libro, risulterebbe invece un diverso rapporto: accettando la sua indicazione dei 42 cm di base, l’altezza della lettera sarebbe infatti di cm 27 e non 32, come da lui scritto.
Due abbagli che rendono piuttosto debole qualsiasi considerazione critica seria circa la corretta datazione del supporto della lettera.
Ma veniamo agli errori di testo.
Nella trascrizione proposta al lettore nel suo libro, su 625 parole Campolunghi ci ha regalato ben 24 errori, alcuni dei quali anche seri ai fini di una valutazione critica del documento.
La dissestata trascrizione di Campolunghi è resa un po’ meno deprimente solo dalla discreta riproduzione fotografica dell’originale che il ricercatore ha avuto la buona idea di stamparvi accanto e per cui deve essere ringraziato.
Qui sotto presentiamo quindi la nostra trascrizione ricavata da questo originale fotografico datoci da Campolunghi, indicando al contempo gli errori in cui è incappato il ricercatore.
Per la “statistica dei sentimenti”, rileviamo che delle 625 parole che compongono la lettera: 211 sono dedicate all’elogio del destinatario Giovanni Verri, solutore efficiente di una faccenda amministrativa dell’elogiatore, il conte Gorani; 112 parole sono invece dedicate al raffreddore dell’ipocondriaco Carlo Verri, fratello di Giovanni; 75 alla felicità di una vecchia e brutta governante cui Giovanni aveva riaccordato il saluto; 147 a Donna Giulia, al matrimonio di Alessandro, al suo essere figlio di Giovanni, ai saluti a Giovanni da parte di Blasco; 66 alle raccomandazioni a Giovanni per la spedizione di un suo pacco e a considerazioni sulle ciarle con cui i vecchi importunano i vecchi amici.
Il riferimento alla dichiarata paternità di Giovanni Verri non è quindi in una lettera a sé ma è infilato all’interno di notizie di varia umanità al cui centro brilla sempre l’astro del Conte Giovanni Verri — Donna Giulia è invece posta immediatamente dopo il riferimento alla vecchia e brutta governante.
Attenzione: nella nostra trascrizione non facciamo menzione delle tracce di due timbri, apposti sulla facciata del destinatario ma nella riproduzione a della lettera stampa dataci da Campolunghi malamente distinguibili.
In proposito riportiamo quindi quanto si limita a indicare il ricercatore: «MILANO»; «(CO)MO.GEN.| 18»; segnaliamo noi che, nella propria rappresentazione, a contorno di quest’ultima scritta Campolunghi ha inserito due fregi perfettamente definiti di cui nell’originale della lettera appaiono solo vaghissime tracce: è un peccato non abbia però detto nulla a supporto della sua scelta.
Rileviamo inoltre che il ricercatore nulla ha detto a proposito della tariffa di trasporto in “dècimes” (1 dècime = 2 soldi) per il porto dovuto (13?, 14?), che pure è in bella evidenza vergata a lato dell’indirizzo.
La nostra trascrizione della lettera e la segnalazione dei 24 errori di Campolunghi.
La lettera di G. Gorani a G. Verri del 16-01-1808, si compone di un foglio piegato in due, a formare 4 facciate.
Per la migliore intelligenza del documento, abbiamo posto in prima evidenza i dati del destinatario nonché il protocollo di casa Verri che nell’originale occupano la 4a facciata.
A indicare il cambio di riga nell’originale, abbiamo utilizzato il segno [ \ ].
La parola trascritta erroneamente da Campolunghi è evidenziata in colore rosso]; in colore blu la parola da noi trascritta fedelmente dall’originale manoscritto.
È nostra l’evidenziazione in verdino del brano relativo al matrimonio di Alessandro e alla sua paternità, assegnata da Gorani a Giovanni Verri.
________
1808 \
Milano 16 Gennaro \
Lettera Conte Gorani] Gorani. \–––––––
A Monsieur \
Monsieur Le Chevalier Comte Jean \
Verri al Belvedere Soborgo di \
S. Agustino presso \
Como
.
[1a facciata]
Milano il] li 16 gennajo 1808
.
Carissimo amico
.
Non ho avuto io sempre ragione di sostenere e di provare che \il cavagliere conte Giovanni Verri ha tanto ingegno e per lo meno \
quanto ne aveva Pietro e quanto ne ha Alessandro, ma di essi \
una maggiore] maggior sensibilità, un animo più nobile, più generoso \
ed una ingenuità più amabile? Quanto a Carlo, questi non \
può entrare in paragone, giacché le sue idee] idée sono in un \
disordine totale a segno di prender gli obbrobri] obbrobrj per \
onori, e di far sì] far un sì gran caso di ricchezze delle quali \
non ne sa l’uso il più interessante. \——Il rapporto che voi fate nell’ultima vostra del 12 corrente \
della mia attuale condizione colla guerra è assai spiritoso e d’una \
verità sensibile. Comincio a sperare di riuscire perché] perche dimostro \
una fermezza che non sento nel mio animo, ma sentendo \
la somma importanza degli avvisi vostri, io li metto in \
esecuzione e parlo in un modo ben diverso e non do \
a vedere ad altri quanto io sia debole. Così amatissimo \
amico, io vi dovrò tutto, un’entrata quasi triplicata, \
il pensiero che mi facesti nascere di ottenerla e di più \
i mezzi di conseguirla. Ma però io sospiro, alle volte \
io dispero e mi pajono anni] pajono venti anni i pochi] poche mesi \
.
[2a facciata]
che ho passato] passati in questi combattimenti. \
——Vi hanno detto vero quelli che vi assicurarono che vostro fratello \
Carlo stava bene, ma contuttociò Astolfi non aveva torto. Carlo \
infatti ha avuto un raffreddore, ma siccome egli teme assai di morire, \
si credeva già quasi morto perché] perche gli era venuto il timore di \
avere un mal di petto, e quindi si trattenne] tratenne a letto per varj \
giorni. Voi vedete che il nostro filosofo in certi casi imita \
Policenella] Policinella, lasciandosi intimidire sin] sino quasi ad una vera \
pusillanimità. Tanto egli inorridisce] inoridisce all’idea di perdere delle ricchezze \
delle quali non se ne sa servire e le distinzioni che lo diso= \
=norano. La cosa mi par così, ne mi sarebbe difficile \
di provarlo sino all’evidenza. \
——La povera Prada ha tripudiato nel vedersi restituito il vostro saluto. Questa \
donna mi è assai utile; quantunque vecchia e brutta] bruta essa ha un \
amico che l’assiste e vive con lei in un modo a far di tutto per \
essergli di soglievo. Questo suo amico lavora per me, corre, sollecita] sollecita, \
e fa miracoli in mio favore e se riuscirò] riescirò a fare un contratto \
lodevole, io gli sarò in gran parte debitore di un siffatto] sifatto beneficio. \——Dona Giulia Manzoni colloca il di lei figlio e vostro e gli \
dà in moglie una figlia di quel Blondel di Vevay il quale \
si è arricchito nel nostro paese tenendo delle possessioni \
in affitto e negoziando in sete e] ed in grani. Questa figlia \
si dice assai bella e non ha che sedici anni. E’] E stata \
educata in Ginevra] Genevra. Imaginatevi ora cosa diranno \
.
[3a facciata]
le nostre dame milanesi quando sapranno che un cavagliere ricco \
sposa la figlia d’un mercante e fittabile e quel che è peggio ancora \
per esse, una eretica? Questo matrimonio avrà il suo effetto \
fra pochi giorni. Blasco che mi incarica di richiamarlo \
sempre alla vostra memoria è assai contento \
dell’imeneo del suo pronipote. Avrà certo \
ragion di esserne contento, se pure potrà \
darsi pace di tutto quello che si dirà nel \
paese, mentre i nostri compatriotti \
non hanno ancora imparato a \
domesticarsi con certe idee] idée. \
M’accorgo, amico graziosissimo, d’esser troppo \
prolisso e questo è il diffetto dei poveri \
vecchi i quali non hanno mai finito \
di seccare il loro prossimo, e voi che \
siete tanto generoso e buono, voi me \
lo perdonerete riflettendo] rifflettendo che il vecchio è ancor più parolayo] parolajo quando \
s’incontra con un vero amico. Vi raccomando sempre il \
mio ballotto che sentirò con somma sodisfazione \
giunto al suo destino. Vi abbraccio e vi prego dei soliti saluti \
al P. Borda, a tutti di casa vostra e principalmente \
alla Sig.ra Paolina.
Come probabilmente anche a molti lettori, a noi pare proprio che su questa lettera di Gorani a Verri vi sia ancora molto da lavorare.
Le abbastanza incredibili sviste di P. Campolunghi (tra l’altro autorevolmente validate dal Centro Nazionale Studi Manzoniani che nel 1999 pubblicò sui propri “Annali” un sostanzioso contributo di Campolunghi sul medesimo tema, segnato anch’esso dagli abbagli da noi evidenziati) suggeriscono di riavviare praticamente da zero l’intera indagine critica su questo documento.
Ciò detto per chiarezza, bisogna comunque dire che questa lettera, da Campolunghi meritoriamente resa pubblica nella sua interezza, è in realtà l’unico “documento” che, sulla questione “paternità biologica” di Alessandro, potrebbe aspirare a una qualche valenza sul piano della ricerca storica.
È però indispensabile che essa sia correttamente contestualizzata, cosa fino a ora mai fatta da nessuno (così almeno ci pare ma saremmo felicissimi di ricrederci).
In sé e per sé l’affermazione di Custodi («il di lei figlio e vostro») può infatti anche valere proprio nulla, anche perché essa non suscitò nel Verri alcuna reazione nota: a quanto ne sappiamo, egli si limitò ad archiviare la lettera, esattamente come per tutta la corrispondenza in arrivo, senza manifestare per essa alcunché.
Ci occuperemo quanto prima e con maggiore dettaglio di questo documento — valga per il momento il dato di fatto che questa missiva di Gorani a Verri non costituì oggetto di nulla per tutta la vita di Manzoni: nessuno ne fece mai il minimo cenno, in alcun modo.
Dicevamo che la lettera di Gorani potrebbe essere presa in considerazione ma è necessario sia analizzata in modo più approfondito di quanto fino a oggi fatto:
a/ determinazione delle caratteristiche del supporto cartaceo e sua corretta collocazione temporale;
b/ verifica attraverso vere perizie grafologiche delle autografie di Gorani e Verri (tutt’altra cosa dei “riconoscimenti a occhio” da parte di chi aveva o ha dimestichezza con i loro manoscritti);
c/ verifica attraverso le opportune indagini strumentali della datazione degli inchiostri usati (da Gorani nella lettera e da Verri nella sigla di protocollo);
d/ verifica della congruenza dei dati postali riscontrabili sulla lettera;
ma soprattutto:
e/ individuazione delle ragioni e del tono della lettera, elementi sui quali ci pare nessuno abbia riflettuto a dovere.
Perché quel taglio così smaccatamente adulatorio da parte di Gorani?
Perché, a quasi 23 anni dalla nascita di Alessandro (7 marzo 1785), quel riferimento a Giulia Manzoni — riportato (ci sembra proprio intenzionalmente) subito dopo chiacchiere su una vecchia e brutta governante? E — sopratutto — a una paternità di Giovanni Verri (a quanto risulta, dallo stesso mai riconosciuta e nemmeno in qualche modo ricordata), e ciò in una missiva che poteva essere facilmente intercettata da malevoli controllori?
Tra l’altro, nel periodo in cui Giulia Beccaria (prima del matrimonio con Pietro Manzoni) ebbe la nota relazione amorosa con Giovanni Verri, Gorani non era a Milano (basta guardare alla sua biografia): tutto ciò che egli poteva sapere sulle vicende amorose Giovanni/Giulia era quindi de relato e non frutto di una sua conoscenza diretta.
Perché quei riferimenti ad Alessandro come a un ricco “cavaliere” (Alessandro mai appartenne a quell’ordine)?
Perché quel presentare Blondel padre quasi fosse uno sconosciuto, quando invece era in Milano ben noto per il recentissimo acquisto del fastoso Palazzo Imbonati affacciato su Piazza San Fedele ma soprattutto per gli abbastanza recenti e ingenti acquisti dei beni religiosi messi in vendita da Napoleone?
Perché quella serie di errori di fatto (Blondel indicato come cittadino di Vevay — era invece nato a Villette/Losanna; l’educazione di Enrichetta indicata essersi svolta a Ginevra — tutta l’educazione della giovane si svolse invece in Lombardia) veramente curiosi in un Gorani che si propone come molto vicino a tutto l’ambiente milanese di cui egli parla — tanto più che in da molto tempo Gorani viveva a Ginevra e quindi avrebbe potuto facilmente evitare fesserie come dare Enrichetta come educata nella città elvetica.
Perché tutto questo da parte di un attempato nobile cadetto (da sempre alla ricerca di denaro) rivolto a un solo poco meno attempato nobile cadetto, anch’egli da sempre votato al medesimo impegno?
Vedremo di approfondire la cosa più in là, indagando meglio sulle attività di Gorani in quel periodo e anche sulla attendibilità “tecnica” della lettera in questione (l’indagine, da quel poco che abbiamo potuto constatare, potrebbe risultare non così semplice essendo la lettera originale nella disponibilità esclusiva della Biblioteca Ambrosiana di Milano).
Decisamente ancor meno interessanti sono gli altri due documenti.
.
2º – Note dalla Collection Custodi.
Ms. ital. 1555, fol. 201, datato 20 ottobre 1827:
«Giulia Beccaria, ripugnando di vivere col marito D. Pietro Manzoni, si era decisa a provocare il divorzio per il fondato motivo di essere egli inabile al matrimonio, per la mancanza de’ testicoli.»
Ms. ital. 1555, fol. 203 rº, senza data:
«Per asseveranza di Pietro Taglioretti, di Sigismondo Riva e di altri amici della Giulia Beccaria-Manzoni, il vero padre di Alessandro Manzoni fu il cavalier Giovanni Verri.»
Queste note rimasero nascoste tra altre migliaia del Custodi per 78 anni e vennero pubblicate solo nel 1905 dal bibliotecario francese L. Auvray. Il quale assemblò secondo propri criteri (e dandovi titoli propri) frammenti sparsi qua e là nella grande mole della Collezione Custodi.
Su questo documento entriamo più in dettaglio qualche paragrafo più sotto; basti per il momento constatarne il carattere “de relato”; nonché ricordare la forte e mai nascosta ostilità di P. Custodi nei confronti di A. Manzoni da lui considerato corresponsabile (in uno con Federico Confalonieri) della uccisione (20 aprile 1814 in Milano) del Ministro delle Finanze Giuseppe Prina, di cui Custodi era stato a lungo stretto collaboratore al Ministero durante il napoleonico Regno d’Italia e amicissimo sul piano personale.
Chiunque può comunque considerare che se Pietro Manzoni fosse stato nella condizione indicata da Custodi (e nella impossibilità quindi di avere una normale vita sessuale), la già esperta Giulia se ne sarebbe evidentemente resa conto alla svelta e avrebbe potuto chiedere — con sua grande soddisfazione morale ed economica — l’annullamento immediato del matrimonio.
La giovane sposa scelse invece di macerarsi per sette anni in un legame da lei dichiarato insopportabile — fino a che non conobbe il galante, di bella presenza e ricchissimo Carlo Imbonati (ma questa è naturalmente una osservazione impertinente).
Va da sé che l’argomento — “mi voglio separare perché mio marito è senza testicoli e non può adempiere ai doveri coniugali” — era perfettamente funzionale ad ottenere la separazione, come immancabilmente avvenne.
Così come va da sé che gli amici della espansiva Giulia non ebbero alcuna remora a confermare il “fatto” con le loro testimonianze, opportunamente orchestrate dall’onnipresente Pietro Verri, già organizzatore delle nozze della Giulia e poi del loro scioglimento.
3º – Frase di Niccolò Tommaseo
«Colloqui con Manzoni», Cap. I, paragrafo II: C. Beccaria):
«Anco di Pietro Verri (il Manzoni) ragiona con riverenza, tanto più ch’egli sa, e sua madre non glielo dissimulava, di esser nipote di lui, cioè figliolo d’un suo fratello, cavaliere di Malta».
Questa memoria di Tommaseo venne scritta sotto sua dettatura nel 1855-1856 (lo scrittore era allora non più vedente) e da lui mai più riconsiderata. Egli infatti morì convinto di avere perduto l’intero fascicolo che venne invece ritrovato dagli eredi e reso pubblico solo nel 1928.
Non è difficile pensare che, tornandoci sopra, da esperto scrittore si sarebbe accorto del ridicolo di quella frase ispiratagli solo dalla sua anche patologica propensione al particolare piccante (per anni tempestò di richieste Cesare Cantù per avere notiziole sulle vite private del bel mondo milanese da usare per le sue cronachette scandalistiche).
È infatti veramente solo ridicola l’idea che nel 1824-25, nel pieno della ridefinizione dell’immagine di Donna Giulia (da libertina senza scrupoli a pia matrona votata alla edificazione religiosa e al bene della famiglia), Manzoni potesse svagare un Tommaseo (straniero e senza relazioni, poco più che ventenne e sempre alla fame nonostante il talento letterario) col racconto dei giovanili tornei amorosi della propria madre, ricordando anche una propria nascita adulterina — roba proprio da ridere!
Come si vede, si tratta di due riferimenti molto sintetici, redatti sotto forma di appunto, dai 23 ai 70 anni dopo la nascita di Manzoni e rimasti non solo non sviluppati dopo la prima stesura di getto ma anche a tutti ignoti (salvo forse pochi intimi degli autori) fino ai primi decenni del 1900 (oltre 115 anni dopo).
Rinviando ad altra sede per una valutazione complessiva su queste tre testimonianze (utili comunque al contestualizzare la figura del giovane Manzoni), per il momento vorremmo limitarci a sottolineare che nessuna di esse fu nota fino a molti anni dopo la morte di Manzoni e dei suoi figli. E nessuna di esse ebbe alcuna influenza né sui primi né sugli ultimi anni di Manzoni; né su di lui né sulla sua famiglia, ambiente, città, nazione.
Una nuova testimonianza proposta dal CNSM sotto forma di dipinto.
Come abbiamo visto, nel docu-film non si cita alcun elemento a sostegno del “si sapeva”. Ma si giuoca un’altra carta, evidentemente considerata di peso: una “testimonianza” pittorica.
Riprendiamo le parole pronunciate da Jone Riva all’inizio del capitolo:
«Una testimonianza della paternità di Giovanni Verri è il quadro che Giulia Beccaria si fece fare da Andrea Appiani. È il ritratto di Giulia e sulla sinistra, quasi inserito in un secondo tempo, quasi un ripensamento, c’è il ritratto di Alessandro bambino.»
Il dipinto cui Riva fa riferimento (di proprietà privata e conservato presso Villa Manzoni di Brusuglio) è noto per le tante riproduzioni: rappresenta Giulia e Alessandro ai suoi 5 anni e passa, ossia nell’estate del 1790 (vedi qui a lato).
Ma torniamo a Jone Riva: «Questo quadro venne regalato da Giulia a Giovanni Verri quando, dopo essersi separata da Giovanni Verri, si unì a Carlo Imbonati.»
La frase è breve ma comprende ben tre elementi: dono — separazione — unione.
Li consideriamo lasciando come ultimo l’argomento “dono”.
«[…] dopo essersi separata da Giovanni».
Che significato dobbiamo dare a questa espressione?
La “separazione” è un atto formale, a modifica di un dato altrettanto formale — un matrimonio, per esempio.
Ma Giulia né era sposata con Giovanni Verri né con lui mai convisse. Era sposata con Pietro Manzoni con il quale conviveva regolarmente.
Come poteva quindi “separarsi” da Giovanni Verri?
Forse Jone Riva intendeva dire che Giulia, con Giovanni, si era “lasciata” / “mollata” nell’autunno del 1790. Ma è molto probabile che il rapporto tra Giulia e Giovanni si fosse interrotto già prima.
E che, dopo Giovanni, Giulia avesse avuto una relazione con l’architetto Taglioretti, già amico dello stesso Giovanni (lo dice Custodi, anche se le sue parole sono state piegate ad altre interpretazioni, ma con “aggiustamenti” non accettabili su nessun piano, come vedremo poi).
Questa parte della frase di Jone Riva appare quindi di non facile interpretazione.
«[…] si unì a Carlo Imbonati.» – E a questa seconda parte della frase che significato possiamo attribuire?
Dobbiamo forse vedervi da parte di Jone Riva la propensione a collocare le relazioni di Giulia in un quadro di normalità istituzionale?
Con Giovanni si “separa”, con Imbonati si “unisce”.
Lo spettatore può infatti associare la parola “unione” a quelle “unioni civili” recentemente approvate in parlamento ed equiparate per molti aspetti al matrimonio.
Nell’autunno del 1790 Giulia Manzoni — e fino al 23 febbraio 1792 — viveva nella medesima casa del marito Pietro Manzoni.
Con Imbonati, quindi, non poteva “unirsi”. Semmai poteva avere avviato con lui una relazione extra-coniugale, dopo avere interrotto (non sappiamo con precisione quando) una precedente relazione extra-coniugale con Giovanni Verri e — con ogni probabilità — un’altra ancora con Taglioretti.
Ma veniamo al “dono” del dipinto e rileggiamo la frase di Jone Riva, molto assertiva:
«Questo quadro venne regalato da Giulia a Giovanni Verri quando, dopo essersi separata da Giovanni Verri, si unì a Carlo Imbonati.»
Il quadro donato: il fatto.
Jone Riva dà per scontato che Giulia abbia regalato a Giovanni Verri il quadro che tutti conosciamo e che è a Brusuglio. In proposito però i documenti dicono altro – lo vedremo più avanti.
Per il momento rileviamo che esistono diverse varianti di quella che è una invenzione letteraria, predisposta da Flori nel 1934 ma espressa esplicitamente la prima volta — ci sembra — da Chiomenti Vassalli nel 1956 («Giulia Beccaria, la madre del Manzoni», pag. 74):
«poiché questo ritratto era stato regalato da Giulia a Giovanni Verri […]».
Dopo qualche anno l’aveva seguita Guido Bezzola, rinforzando anche i toni e introducendo la figura di Taglioretti («Giulia Manzoni Beccaria», 1985, pag. 259):
«Il ritratto dell’Appiani era stato di sicuro donato a Giovanni Verri e non al Taglioretti».
Marta Boneschi («Quel che il cuore sapeva: Giulia Beccaria, i Verri, i Manzoni», 2004, pag. 175):
«Il ritratto dell’Appiani, un regalo a Giovanni, non è un messaggio d’amore ma di disapprovazione. L’amabile cavaliere […] si è legato a Bambina […] Perché donargli un ritratto di sé con il bambino, se quel bambino non è appunto un figlio suo, che però lui ignora come trascura la madre?».
Ma Boneschi non dice da dove le viene questa convinzione del “dono”, se non dalla propria creatività letteraria.
Grazia Maria Griffini Rosnati («Giulia Beccaria: Lettere», Introduzione, pag. XXVIII) sul ritratto è a volte più prudente:
«Si tratta di un dipinto un tempo attribuito ad Andrea Appiani giovane […] Se l’opera va attribuita, come sembra, al 1790 circa, e se fu veramente offerto da Giulia al Verri […]».
A volte è invece assertiva:
«il ritratto è effettivamente quello che Giulia donò a Giovanni Verri».
Ma è comunque cauta su Taglioretti:
«le lettere mai rinvenute potrebbero essere state dirette al Verri stesso oppure al Taglioretti, che frequentatore assiduo del gruppo, non si esclude sia stato anche di Giulia il devoto cavalier servente … e niente di più, oppure sì?».
Come si vede, molte le ipotesi letterarie ma nessun elemento con un minimo di veridicità storica. Sta di fatto che non esiste documento che ci dica essere stato quel quadro a noi ben noto regalato da Giulia a Giovanni, come affermato assertivamente da Jone Riva.
Il lettore si chiederà a partire da cosa sia nata questa congerie di parti letterari più o meno strutturati e da dove salti fuori quel Taglioretti, su cui balenano cose dette a metà.
La risposta è semplice: si parte dalla elaborazione di una nota di Pietro Custodi del 1827 a opera, nel 1935, di Ezio Flori (uno dei più prolifici pubblicisti sulle tematiche manzoniane della prima metà del ’900), alla quale si sono accodati quasi tutti i commentatori successivi. E su cui è opportuno fare un po’ di chiarezza.
Le carte Custodi.
Alla morte di Pietro Custodi (1842) una parte consistente delle sue carte venne svenduta dagli eredi e variamente smembrata, finendo nel 1862 nelle disponibilità della Bibliothèque Imperiale de France, dove tra il 1902 e il 1903 vennero catalogate dal bibliotecario Lucien Auvray. Questi, stimolato forse dalla pubblicazione del libro “Brani inediti dei Promessi Sposi”, curato da Giovanni Sforza nel 1905, volle ritagliarsi uno spazio proprio.
Pubblicò infatti, in appendice alla propria meritoria catalogazione delle carte Custodi (1905), una raccolta di appunti dello scrittore, apparentemente dedicata a vari personaggi politici e letterari del primo ’800 italiano ma in realtà focalizzata su Manzoni, o meglio sull’intimità della famiglia Manzoni.
Per essere sicuro di attirare l’attenzione, Auvray utilizzò alcuni “frammenti” di Custodi confinanti con la coprolalia. Per insaporire il tutto, si inventò il titolo «Contre Manzoni», inesistente nelle carte di Custodi.
E inoltre li presentò (Bulletin Italien – Tome V / n ° 1 Janvier-Mars 1905 – Annexe III – Fragments des Memoires de Custodi – pp. 360-364) in una forma così ordinata da indurre inevitabilmente il lettore a ritenerli redatti in quella successione dallo stesso Custodi. In realtà Auvray assemblò annotazioni, spunti, “frammenti” di fatti e idee, sparsi qua e là tra le numerosissime carte di Custodi.
La raccolta compilata da Auvray relativamente a Manzoni si compone di cinque Capitoli, il Primo e il Secondo dei quali dedicati ad aspetti della vita intima di Giulia Beccaria. Il Capitolo Secondo (questo reso da Auvray perfettamente aderente al manoscritto) è quello a partire dal quale si sono sbrigliate le fantasie dei letterati sopra citati (e del CNSM) circa il “quadro” presuntivamente regalato da Giulia a Giovanni.
Come anticipato, su questo argomento stiamo preparando uno studio approfondito nel quale illustreremo che il vero danneggiato dall’operazione di Auvray fu Custodi, che vi appare come uno storico d’accatto, superficiale, disponibile a rimasticare qualsiasi diceria, ignorante di fatti storici facilmente verificabili, stupidamente e inutilmente volgare. Insomma, tutto il contrario di ciò che pensiamo di Custodi e sicuramente tutto il contrario di ciò che di se stesso lo scrittore voleva trasmettere. Ma di ciò in altro luogo.
Per il momento ci limitiamo a riportare: a) i primi due capoversi del Capitolo Primo e l’intero Capitolo Secondo delle carte Custodi proposte da Auvray (a lato il manoscritto); b) il testo di Flori, così come stampato nel 1935. Il lettore avrà così modo di comprendere il perché della nostra valutazione così negativa nei confronti di quanto propostoci da Flori.
Ecco di seguito il testo di Custodi e la sua rivisitazione operata da Flori.
Testo di Custodi, 1827
ripreso abbastanza correttamente da Auvray nel 1905:
«Note biografiche di Alessandro Manzoni»
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Capitolo Primo
20 Ott.e 1827.
La famiglia Manzoni è originaria di Barzo, nella Valsassina, dove esiste ancora la non piccola casa de’ suoi antenati.
(N. [nota a margine] Fino al 1814, non aveva egli ancora stampato se non che il bel poemetto in morte d’Imbonati e qualche Inno.)
Giulia Beccaria, ripugnando di vivere col marito D. Pietro Manzoni, si era decisa a provocare il divorzio per il fondato motivo di essere egli inabile al matrimonio, per la mancanza de’ testicoli; ma siccome trovavasi gravida, ne fu dissuasa dagli amici per non pubblicare la sua vergogna; onde partorì al marito il figlio non suo, Alessandro.
Morto il padre, il di lui cadavere fu seppolto nel piccolo vestibolo della sagrestia annessa all’oratorio del suo palazzo del Galeotto» [seguono altre due pagine a stampa – NdR]______
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Capitolo Secondo1. Per asseveranza di Pietro Taglioretti, di Sigismondo Riva e di altri amici della Giulia Beccaria-Manzoni, il vero padre di Alessandro Manzoni fu il cavalier Giovanni Verri, che morì in Como pochi anni sono.
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2. Alla morte di Pietro Taglioretti, questi mostravasi inquieto dell’esito che avrebbero avuto cinque volumi, nei quali egli aveva fatto legare la sua corrispondenza confidenziale colla Giulia; e l’amico che l’assisteva l’assicurò che, per questa parte, morisse tranquillo, ch’egli stesso s’incaricava di sottrarli alle ispezioni giudiziarie e rimetterlo all’amica; il che eseguì, passandole anche in aggiunta il di lei ritratto, opera della gioventù di A. Appiani, di che essa indennizzò gli eredi col pagamento di tre doppie di Genova.
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3. La conversione religiosa della Giulia era stata incominciata, vivente ancora Giuseppe Imbonati, in Parigi, dall’ex-vescovo Grégoire, e da un prete italiano / ivi dimorante… /.
Testo di Flori da «Soggiorni e villeggiature manzoniane», 1934, pag. 25-26
nel quale assembla a modo suo il testo di Custodi/Auvray (lo riportiamo senza alcun accapo, esattamente come è nello stampato di Flori):
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«Che il Custodi sia acido nei riguardi del Manzoni, non si nega; ma, insomma, delle sue affermazioni circa la paternità del grande nostro reca testimonianze e prove, davanti le quali non è possibile far le viste di non vedere o di non sentire. Scrive egli adunque: “Giulia Beccaria, repugnando a vivere col marito D. Pietro Manzoni, s’era decisa a provocare il divorzio per il fondato motivo di essere egli inabile al matrimonio… (nota 15: Il Custodi dichiara apertamente, a questo punto, il motivo di tale inabilità); ma siccome trovavasi gravida, ne fu dissuasa dagli amici per non pubblicare la sua vergogna; onde partorì al marito il figlio non suo, Alessandro… Per asseveranza di Pietro Taglioretti, di Sigismondo Silva e di altri amici della Giulia Beccaria Manzoni, il vero padre di Alessandro Manzoni fu il cavaliere Giovanni Verri, che morì in Como pochi anni or sono. Alla morte di Pietro Taglioretti, questi mostravasi inquieto dell’esito che avrebbero avuto cinque volumi, nei quali aveva egli fatto legare la sua corrispondenza confidenziale colla Giulia, e l’amico che l’assisteva l’assicurò che, per questa parte, morisse tranquillo, chè egli stesso s’incaricava di sottrarli alle ispezioni giudiziarie e rimetterli all’amica: il che eseguì, passandole in aggiunta il di lei ritratto, opera della gioventù di A. Appiani di che essa indennizzò gli eredi col pagamento di tre doppie di Genova».
Come appare a evidenza, il Capitolo Secondo di Custodi è composto da tre paragrafi: numerati; nettamente distinti come esposizione e come contenuti; altrettanti pro-memoria per tre diversi argomenti relativi alla vita di Giulia:
— il primo è sulla supposta paternità di Verri;
— il secondo sul rapporto tra Giulia e Taglioretti;
— il terzo sul riavvicinamento di Giulia alla religione (tra l’altro con un errore incredibile di almeno cinque anni sul quando ciò si sarebbe in realtà verificato; sul un tutto inventato ruolo di Grégoire nella vicenda; sul nome dell’Imbonati compagno di Giulia, all’anagrafe “Giovanni Carlo” unanimemente noto come “Carlo” ma indicato da Custodi come “Giuseppe” — che era il nome del padre di Carlo).
Altrettanto a evidenza (riguardate i due testi affiancati), dal testo di Custodi Flori ha:
a) messo di seguito il terzo capoverso del Capitolo 1º e i due primi del Capitolo 2º, lasciando in mezzo semplicemente punti di sospensione (che potrebbero sembrare dello stesso Custodi), senza affatto indicare il salto di due pagine a stampa da egli stesso operato;
b) del Capitolo 2º ha cancellato la numerazione, che nell’originale di Custodi (ripreso in questo fedelmente da Auvray) distingue nettamente i tre paragrafi;
c) di questi ultimi ha cassato sia la distinta numerazione sia l’accapo tra il primo e il secondo paragrafo;
d) ha eliminato del tutto il terzo paragrafo.
Quest’ultima rasoiata era indispensabile per due ragioni:
— la prima: perché riusciva impossibile farne un continuo coerente rispetto ai primi due;
— la seconda: perché segnalava a evidenza l’obbligo di leggere con grande prudenza gli appunti di Custodi, stesi esclusivamente per sé e non per la stampa.
Ma su questi appunti invece Flori giurava (lo abbiamo visto sopra).
Questa bella operazione di Flori — una libera rivisitazione sia di Custodi che di Auvray — è stata ripresa (candidamente o meno non importa) dai suoi seguaci in fantasia, ognuno a modo proprio.
Cercando però tutti di togliere Taglioretti dalla lista dei possibili amanti di Giulia e di farne un semplice amico, compiacente tra i due innamorati Giovanni e Giulia.
Il che è eventualmente ipotizzabile solo amputando e modificando il testo di Custodi, esattamente come fatto da Flori.
Non che la cosa in sé abbia grande importanza (fu ininfluente per la vita di Alessandro Manzoni il “se” e il “quanti” amanti avesse avuto sua madre Giulia) ma abbiamo voluto entrare nel dettaglio perché fin qui non abbiamo proprio compreso in che modo questo quadro sarebbe una «testimonianza» del fatto che Giovanni fosse il padre naturale di Alessandro, come affermato da Jone Riva.
Tanto più che ci sembra che il presupposto di tutto il discorso sia assolutamente nullo.
Riteniamo infatti sia da escludere che il ritratto di Giulia e Alessandro bambino (che tutti conosciamo e che è conservato a Brusuglio) sia quello che era nelle disponibilità di Taglioretti alla sua morte e che i suoi eredi vendettero a Giulia Beccaria Manzoni, secondo quanto ne scrive Custodi.
Vediamo perché, cominciando dal chi lo ha realizzato.
Chi è l’autore del ritratto?
Sull’identità dell’artista che realizzò il quadro, per molti anni i pareri non sono stati per nulla unanimi.
Da un lato c’era (nella scheda già citata, dedicata a Manzoni e alla madre Giulia) la frase di Pietro Custodi del 1827, Cap. 2º, paragrafo 3:
«Alla morte di Pietro Taglioretti, questi mostravasi inquieto dell’esito che avrebbero avuto cinque volumi, nei quali egli aveva fatto legare la sua corrispondenza confidenziale colla Giulia; e l’amico che l’assisteva l’assicurò che, per questa parte, morisse tranquillo, ch’egli stesso s’incaricava di sottrarli alle ispezioni giudiziarie e rimetterlo all’amica; il che eseguì, passandole anche in aggiunta il di lei ritratto, opera della gioventù di A. Appiani, [sottolineatura nostra] di che essa indennizzò gli eredi col pagamento di tre doppie di Genova.»
L’indicazione di Custodi era rafforzata da Teresa Borri (la seconda moglie di Manzoni) che, in una nota d’archivio relativa a un dagherrotipo del quadro, scriveva (la sottolineatura è nostra):
«Daguerre cavato da un Dipinto d’Appiani il Luglio 1852. Ritratto della madre d’Alessandro Manzoni (Giulia Beccaria d’anni 29) con suo figlio sud[det]to d’anni 5».
In casa Manzoni era quindi acquisito che il quadro fosse opera del quotatissimo Andrea Appiani, tanto che la tela fu sempre in bella vista nella Villa dei Manzoni a Brusuglio, offrendo lo spunto ad Alessandro adulto per ricordare divertito agli amici che, essendo egli irrequieto al momento della posa del quadro, gli facevano vedere una arancia per distrarlo.
Di tali autorevoli testimonianze i critici d’arte hanno certo tenuto conto ma, curiosamente, con riserva. Ai conoscitori di Appiani quel quadro non convinceva del tutto per una certa goffaggine prospettica, del tutto insolita nel celebre pittore milanese, sempre molto preciso nella rappresentazione del corpo umano.
E infatti, anche tra gli scrittori che si sono occupati della famiglia Manzoni, le posizioni sono state differenziate.
Grazia Maria Griffini Rosnati («Giulia Beccaria: Lettere», Introduzione, pag. XXVIII) era prudente:
«Si tratta di un dipinto un tempo attribuito ad Andrea Appiani giovane […] Se l’opera va attribuita, come sembra, al 1790 circa».
Guido Bezzola è invece per attribuire senza riserve il quadro ad Appiani («Giulia Manzoni Beccaria», 1985, pag. 259):
« Il ritratto dell’Appiani era stato di sicuro donato a Giovanni Verri».
Altrettanto assertiva si mostrava Marta Boneschi («Quel che il cuore sapeva: Giulia Beccaria, i Verri, i Manzoni», 2004, pag. 175):
« Il ritratto dell’Appiani, un regalo a Giovanni».
Dal canto suo Jone Riva, in «Immagini di Casa Manzoni» del 2011, lo indicava come « attribuito ad Appiani».
Mentre oggi, nel suo intervento del docu-film, pur notandone una non perfetta esecuzione, ci dice: «il quadro che Giulia si fece fare da Andrea Appiani».
E anche la critica più recente sembra orientata in quest’ultima direzione.
Ne dà testimonianza un recente lavoro di Francesco Leone («Andrea Appiani, pittore di Napoleone») in cui si attribuisce senz’altro ad Appiani il quadro.
A sostegno, Leone presenta le note stese da Francesco Reina (avvocato ma anche critico d’arte e collezionista) a commento dell’opera del coevo Appiani:
«Il Taglioretti [1820] ha qui presso di sé finito il ritratto [opera di Appiani] / di Giulia Manzoni grande quasi al vero in sala / abbigliata con cappello nero ed abito all’inglese» [Manoscritto 203].
Sembrerebbe quindi che la questione debba considerarsi chiusa.
E invece rimane aperta. Anzi! Apertissima.
Per la semplice ragione che il quadro descritto da Reina (la fonte primaria di ogni considerazione sul dipinto), di tutta evidenza NON è il quadro che ci è noto e che è custodito a Villa Manzoni di Brusuglio.
Siamo volutamente assertivi per richiamare l’attenzione del lettore su alcuni elementi, noti da sempre, ma sui quali crediamo nessuno ha prestato la dovuta attenzione.
Guardiamo insieme il quadro e leggiamo per intero sia la descrizione fattane da Teresa Borri Manzoni, di cui più sopra abbiamo anticipato una frase, sia la descrizione che ne fece per la prima volta il collezionista e critico d’arte Francesco Reina, ripresentata con cura da Leone nel suo libro (più sopra ne abbiamo ripreso solo le prime due righe).
Testo di Teresa Borri Manzoni, 1852
(a commento del dagherrotipo del quadro, eseguito nel 1852 – nostra la sottolineatura):
«Cappello nero / Capelli rossi incipriati – occhi verdi – colorito roseo / e bianchissimo – vestito color verde, con rebord / color ciocolatte. Fazzoletto di garza bianca. / Il bambino ha un giubbino di seta rossa, con una chemi/-sette, bianca, guarnita di mussola.»
Testo di Reina, 1820
(ripreso da Leone – nostra la sottolineatura):
«Il Taglioretti [1820] ha qui presso di sé finito il ritratto / di Giulia Manzoni grande quasi al vero in sala / abbigliata con cappello nero ed abito all’inglese con / rovesci neri. Ella collocata alla sinistra del riguardante / sta mirando il proprio figliuoletto, che sta alla / destra [del riguardante, ndr] rivolto alla madre. È dipinto / pieno di vezzo (mignonerie) e di voluttà benché castigatissimo e tutto / coperto. Quest’effetto nasce dal carattere della fisionomia / della celebre donna figliuola del march.e Cesare Beccaria, / il cui nome è un elogio».
Le parole di Teresa Borri Manzoni sono precise e descrivono esattamente il quadro quale lo possiamo vedere con i nostri occhi.
Ma per la descrizione di Reina le cose non tornano e il lettore attento se ne sarà già accorto.
Quest’ultima descrizione “sembra” riferirsi al nostro quadro ma rispetto a esso presenta tre evidenti discrepanze:
a/ una di carattere “geometrico”.
Reina scrive [riferendosi a Giulia]: «sta mirando il proprio figliuoletto»;
b/ la seconda di carattere “cromatico”.
Del colore, Reina dice «con cappello nero ed abito all’inglese con / rovesci neri»;
c/ la terza di carattere “psicologico”.
Del “tono” del quadro, Reina dice che è «pieno di vezzo (mignonerie) e di voluttà».
Ma, guardando il quadro, le cose stanno in tutt’altro modo:
1. Nel “nostro” quadro, Giulia non “mira” affatto il proprio figliuoletto.
Guarda invece fisso negli occhi lo spettatore, con un distacco psichico nei confronti del bimbo che le sta accanto che è stato rilevato da molti come indizio di uno scarso interesse di Giulia per il piccolo Alessandro.
2. Nel “nostro” quadro, il cappello è nero ma i rovesci dell’abito all’inglese sono color marrone.
A seconda della qualità delle riproduzioni, questo “marrone” risulta più o meno scuro, ma il colore è indubitabilmente quello che Teresa Stampa Manzoni indica con precisione (lo abbiamo già citato):
«Cappello nero / Capelli rossi incipriati – occhi verdi – colorito roseo / e bianchissimo – vestito color verde, con rebord / color ciocolatte. Fazzoletto di garza bianca. / Il bambino ha un giubbino di seta rossa, con una chemi/-sette, bianca, guarnita di mussola.»
Una curiosità su questa testimonianza della moglie di Alessandro: nel libro di Jone Riva «Immagini di Casa Manzoni» (1998 e 2008), a proposito di quella nota di Teresa Manzoni sul dagherrotipo, viene riportato “quasi” tutto il testo (vedi pag. 130).
La frase «vestito color verde, con rebord / color ciocolatte!» è invece omessa.
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3. Nel “nostro” quadro, di «voluttà», con tutta la buona volontà, se ne coglie poca, come rilevato dai commentatori, con toni diversi ma univoci nella sostanza:
Chiomenti Vassalli (cit.):
«Nella fisionomia della gentildonna si legge una stanchezza interiore che sembra già riflettere un’ombra di precoce vecchiaia sul volto. Vi si legge un senso di distacco e di disinteresse […].»
Romano Amerio (Brusuglio: guida alla visita di Villa Manzoni, 1977):
«Nel ritratto Giulia ha […], lo sguardo attonito e spento. La fisionomia insomma è velata di tristezza e pende al mascolino.»
Natalia Ginzburg («La famiglia Manzoni», 1985):
«Nel ritratto, Giulia è vestita da amazzone. Ha una faccia dura, ossuta e stanca. Guarda nel vuoto. Nessuna visibile tenerezza per quel bambino che le sta appoggiato al ginocchio.»
Francesco Cordero («La Fabbrica della peste», 1985):
«nel ritratto col figlio bambino appare nasuta, col mento a punta e una luce fissa piuttosto sinistra negli occhi».
I casi sono due.
O Reina, nella sua nota sopra riportata, si è clamorosamente distratto su forma, colori e tono del dipinto (nonostante in tutte le sue descrizioni dimostri una grande attenzione anche al dettaglio).
Oppure:
A. La descrizione di Reina si riferisce a un altro quadro – che però non ci è noto – nel quale:
1. Giulia guardava Alessandro;
2. i “rebord” dell’abito erano neri;
3. vi era una nota evidente di voluttà.
e quindi:
B. Il “nostro” quadro (quello conservato a Brusuglio) è una copia, nella quale committente e pittore hanno voluto:
1. modificare la direzione dello sguardo di Giulia;
2. cancellare ogni traccia di femminile abbandono “voluttuoso”;
3. rendere i “rebord” dell’abito di “colore ciocolatte”, anziché neri.
oppure:
C. Quando nel 1823 il quadro venne nelle disponibilità piene di Giulia, un altro artista (che non ci è noto) ha messo pennelli e colori sul quadro in origine dipinto da Appiani (morto nel 1817), portandovi le modifiche che abbiamo già evidenziato.
L’artista che realizzò il quadro “copia” o “sovra dipinto”, per la postura del volto di Giulia, potrebbe avere preso come riferimento (speculare) il ritratto opera della Cosway (circa 1797, ai primi tempi di Giulia a Parigi con Carlo Imbonati); mentre per la fisionomia di Giulia aveva a disposizione l’originale (a lato un ritratto che ce la presenta come doveva essere dopo il 1823, superati i sessanta e consolidata nella ridefinizione della propria immagine pubblica).
Ritratto di Giulia Beccaia Manzoni, 1790, dal docu-film attribuito ad Appiani. A nostro avviso copia ex-novo o rifacimento, dopo il 1823.
Ritratto di Giulia Beccaria Manzoni, eseguito da Cosway a Parigi, circa 1796-97.
Ritratto di Giulia Beccaria Manzoni, circa 1825.
Da qui probabilmente quella artificiosità del ritratto, oggi attribuito decisamente ad Appiani (ma anni fa con molte riserve), nonché la rigidità psicologica che trasmette, evidenziate da tanti acuti scrittori, come abbiamo visto più sopra.
Dando praticamente per certo che del quadro sia stata fatta una copia ex-novo, o si sia lavorato sopra l’originale di Appiani (quest’ultima ipotesi sarebbe facilmente verificabile con una adeguata analisi puramente tecnica), resta da rispondere a un’altra domanda.
Perché il ritratto è stato rifatto?
Nel 1823, quando venne in possesso del quadro (fino ad allora nelle mani di Taglioretti), Giulia Manzoni si trovava nel pieno del suo riavvicinamento alla religione e alla società ben pensante milanese. Il suo libero passato sentimentale a Milano non era stato visto di buon occhio, anche per le malevoli considerazioni circa il testamento con cui Carlo Imbonati, suo notorio compagno di vita tra il 1795 e il 1805, la lasciava unica erede di una fortuna di grande rilievo, collocando i Manzoni ai primi posti della scala sociale (non solo milanese) ma lasciando briciole alle proprie numerose sorelle, alcune delle quali di condizione relativamente modesta.
E anche il matrimonio di Alessandro con una calvinista non aveva giovato all’immagine della famiglia presso gli ambienti più tradizionalisti.
Il rimaneggiamento (o copia ex-novo) del quadro si collocava per Giulia in questo percorso di reinserimento nell’ambiente della propria città, da cui si era allontanata molti anni prima, anche fisicamente.
Doveva per lei essere importante non lasciare alcun ricordo della propria libertà sentimentale (ricordate la “voluttà” indicata da Reina come nota dominante del ritratto), e anzi di dare di sé un’immagine severa (quella che gli scrittori citati hanno percepito come rigidità e fissità), più consona a quel ruolo di ”matrona”, unicamente dedita alla famiglia e alla religione, che si era assunta con impegno (e anche con qualche esagerazione).
In realtà il ritratto Giulia-Alessandro che ci è noto e che è a Brusuglio non sembra apparisse allora carico di chissà quali significati erotico-sentimentali, proponendosi invece come un normalissimo ricordo di una giovane madre con il proprio piccolo. In caso contrario, difficilmente sarebbe stato posto per tanti anni in posizione di rilievo nella casa del Manzoni a Brusuglio.
E difficilmente Manzoni, se lo avesse conosciuto come elemento confermativo di una sua nascita irregolare, avrebbe ricordato con bonomia le circostanze che lo videro modello nella sua realizzazione.
Riassumendo su questa questione del quadro che il CNSM vuole “testimonianza” del fatto che Giovanni Verri sia da considerare il padre naturale di Alessandro Manzoni, possiamo dire due cose semplici ma precise.
Primo — Gli unici ”documenti” noti che possono dare testimonianza di un legame parentale tra Giovanni Verri-Giulia Beccaria-Alessandro Manzoni sono: la lettera del 16 gennaio 1808 a Giovanni Verri di Giuseppe Gorani; le due frasette di Custodi (una di queste può essere forzata a una interpretazione diversa, come fece Flori, ma solo con arbitrari interventi, che si potrebbero intendere come vicini alla manipolazione); la memoria di Tommaseo, francamente solo risibile.
La tesi del CNSM già a questo livello appare molto fragile e richiede tutta una serie di “concessioni” puramente ipotetiche.
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Secondo — Il quadro, portato come “testimone” dal CNSM, è di tutta evidenza una copia — o un rifacimento — del quadro di proprietà di Taglioretti, di cui parla Custodi.
Ma se il quadro presentato dal CNSM come “testimone” non è il quadro di cui parla Reina-Custodi, allora è inutile proseguire ogni discussione, venendo a mancarne il presupposto.
In conclusione, per gli elementi che abbiamo, riteniamo di potere concludere che “quel” quadro (quello attribuito ad Appiani e che è presso Villa Manzoni a Brusuglio) può essere “testimonianza” di un’infinità di cose ma non della paternità di Giovanni Verri nei confronti di Alessandro Manzoni.
E con ciò torniamo a quanto abbiamo qua e là già anticipato.
Che cosa ci dice di più sulla fisionomia e sulla vicenda di Manzoni questa discussione sulla “vera paternità biologica”? Nulla!
Mater semper certa est! pater …
Per come si svolse la vita di Alessandro, che fosse o meno figlio naturale di Giovanni Verri, non ebbe alcuna importanza. Nessuno accampò rivendicazioni di nessun tipo (sicuramente non Giovanni, che non ne fece mai memoria) o se ne preoccupò (sicuramente non Pietro Manzoni, che si comportò sempre da “padre”).
Non ne vennero né conflitti né scelte traumatiche di vita. Alessandro si formò e visse come figlio di don Pietro Manzoni.
E allora perché concentrare l’attenzione su quella che è solo una possibilità, valida naturalmente per ognuno dei cittadini del mondo?
Solo per sostenere la milanesità biologica del Manzoni? Siamo sicuri che ne valga la pena?
Ci pare che sarebbe molto più produttivo dedicare le risorse e i talenti del Centro Nazionale Studi Manzoniani a investigare anche sulla formazione del giovane Manzoni. A definire l’insieme delle relazioni sue e del padre Pietro nel milanese e nel Lariano, in particolare a Lecco.
Su questi temi non si è fatto ancora quasi nulla, salvo i meritori studi di Stoppani nel 1873 e, in parte, di Bognetti cento anni dopo.
Non è forse opportuno accantonare gli effetti cinematografici e avviare un lavoro di conoscenza vera sul giovane Manzoni – che vuol dire il nascere della sensibilità e della creatività e del pensiero e dell’azione?
Forse così potremmo darci ragione di molti elementi ancora poco investigati sulla sua adesione alle idee della rivoluzione e ai perché del suo successivo indirizzo verso la religione.
E potremmo – forse – trovare anche elementi di maggiore comprensione su sua madre Giulia, donna, tutto sommato e nonostante le sue furbizie e piccole miserie, tristemente sola di fronte alla vita.
Siamo giunti al termine della nostra analisi sul docu-film del CNSM. Ci pare di averne a sufficienza illustrato la non idoneità, per lo meno sul piano didattico.
È possibile che nelle nostre osservazioni vi siano imprecisioni – o anche errori. Saremo lieti di ricevere dal lettore, in particolare dagli amici del CNSM, le eventuali correzioni e suggerimenti su come studiare e fare meglio.
FINE
La Cascina Costa in una incisione del 1873 (Antonio Stoppani, I Primi Anni di A. Manzoni) a evidenziare che Manzoni era da considerare figlio del territorio lariano.
La lapide murata nel 1873 da Giuseppe Bertarelli all’ingresso della Cascina Costa di Galbiate, allora di sua proprietà. Vi si legge: «In questo casolare ebbe il primo nutrimento Alessandro Manzoni nell’anno 1785».
La Cascina Costa di Galbiate oggi. Lasciata andare in rovina dall’insipienza delle Autorità culturali del lariano (in qualsiasi altro Paese, della Cascina dove Manzoni passò i suoi primi cinque anni di vita, avrebbero dichiarato Monumento Nazionale anche il pollaio).
Sotto, il paesaggio che Manzoni vide quotidianamente nei suoi primi anni di vita.
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