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Note critiche a: «Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi» – 7 aprile 2018 – RAI3/Alberto Angela

18 giugno 2018
Lettera aperta ad Alberto Angela – Sesto approfondimento

Quanto segue è uno degli otto allegati della «Lettera aperta ad Alberto Angela» di commento alla trasmissione «Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi» andata in onda il 7 aprile 2018 – RAI3, 21:30.
I collegamenti alle altre parti della lettera sono riportati al piede di questa pagina o nel menù principale in testata.

Quale il reale interesse di Manzoni per la peste di Milano del 1630?
RAI3-ANGELA non riescono neppure a immaginarlo.

Chi fu il paziente numero zero? Quanti furono i morti?

Per RAI3-ANGELA sarebbero stati questi i temi di maggiore interesse per Manzoni.

Ma Manzoni li riteneva irrilevanti per la comprensione della peste e delle sue conseguenze sull’intero assetto sociale.

Episodio di Cecilia: quale la fonte di ispirazione per Manzoni?

Incongruenza dell’ipotesi “registrazione doppia” dai “Libri Mortuorum”.

Certificata da Manzoni stesso la fonte “Cardinale Borromeo”.

Premessa

.«LA PESTE MANZONIANA». Il tema trattato nell’approfondimento (6 minuti e 30 secondi, il 5,4% del tempo complessivo) dedicato da RAI3-ANGELA all’epidemia che colpì la Lombardia e Milano nel 1630 avrebbe potuto essere molto interessante.
Ne ha però fatto ostacolo una evidente non conoscenza della riflessione di Manzoni.

Nella trasmissione “Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi” infatti veramente poco si è detto sia della peste nella sua dimensione storica sia delle motivazioni che spinsero Manzoni a farne l’oggetto di una impegnativa ricerca, attraverso la quale creò alcuni dei capitoli più interessanti e artisticamente riusciti del suo romanzo.

In compenso si è detto anche troppo — e troppo superficialmente — su una ricerca biochimica effettuata sui “Libri Mortuorum” del 1630 alla ricerca di “novità”.

L’eterogeneità degli argomenti, accatastati a casaccio da RAI3-ANGELA sotto la spinta alla spettacolarizzazione, ci ha suggerito di trattare questa parte della trasmissione in due distinte fasi.

LA PRIMA (che si sviluppa qui sotto in questa stessa pagina) riguarda l’analisi di ciò che veramente interessava a Manzoni nel trattare a fondo la peste del 1630 — l’individuazione scientifica della natura del contagio e i riflessi dell’ignoranza sulla vita della collettività.

LA SECONDA, dedicata invece alla ricerca biochimica, è sviluppata in un’altra pagina titolata «Uomini e topi: biochimica sublime e primitivismo storico
In questa seconda sezione si evidenziano due superficialità: di RAI3-ANGELA nell’informazione di chi siano i veri titolari della ricerca (sono erroneamente indicate istituzioni universitarie); della ricerca stessa, perdutasi inconsapevolemente in una insanabile contraddizione storico-documentale.

Chi fu il “paziente numero zero”?
Quanti furono i morti?

Erano questi i temi che maggiormente interessavano Manzoni?

Pensiamo di no, in dissenso con RAI3-ANGELA che degli interessi di Manzoni in relazione alla peste 1630 ci dà una illustrazione quasi caricaturale (nostre le sottolineature).

[1:36:55] ALBERTO ANGELA: «Ancora una volta Alessandro Manzoni si dimostra uno storico attento. Sulla scorta di documenti dell’epoca, infatti, mette in relazione la peste con la Guerra dei Trent’anni.
E racconta come il “paziente numero zero”, cioè colui che avrebbe portato il contagio a Milano, sia stato un mercenario italiano al servizio dell’esercito spagnolo.

Ora, per quanto profondamente religioso, disapprova la processione nelle vie della città per implorare la fine della peste. Scrive che proprio da quel giorno la furia del contagio aumentò.

Ed è molto accurato quando riporta i dati degli storici dell’epoca. Alla fine dell’epidemia gli abitanti di Milano sarebbero passati da 250.000 a 64.000. Cioè 3 su 4 sono morti. E a volte si arriva a 3.500 morti al giorno. Un dato forse eccessivo, ma Manzoni trova queste cifre negli antichi documenti che cita con cura.
E proprio di recente, negli Archivi di Stato di Milano, si sono registrate delle importanti scoperte.»

Con la sua ultima frase Angela ci promette che la ricerca biochimica “EVA” (presentata immediatamente dopo questa sua introduzione), ci dirà cose nuove: a) sull’identità del “paziente numero zero”; b) sul numero dei morti. Argomenti che Angela prospetta come quelli più coinvolgenti per Manzoni nel trattare la peste del 1630.

È così? Oppure in realtà la ricerca “EVA” è orientata su tutt’altri argomenti? (vedi a questo indirizzo, per avere la risposta).

Rimanendo al “paziente zero” e al “numero dei morti”, siamo certi che Angela abbia riportato il pensiero di Manzoni? O non lo ha piuttosto capovolto?

Cerchiamo di dare una risposta di merito iniziando dal “numero dei morti”.

[Promessi Sposi 1840, Cap. XXXII, pag. 611, sottolineature nostre]:

«[…] se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, “per le diligenze fatte”, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si potè tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso

Dal tono di Manzoni si comprende che la frase di Angela secondo cui Manzoni «è molto accurato quando riporta i dati degli storici dell’epoca» dice esattamente l’opposto del pensiero di Manzoni.
Il quale è invece molto pungente nell’indicare la nessuna attendibilità dei dati forniti dagli storici.

Manzoni evidentemente non aveva alcun interesse a mettere alla berlina Tadino e Ripamonti come storici.
Voleva invece evidenziare la loro responsabilità come dirigenti della sanità e dell’amministrazione della città.
Essi stessi, nonostante gli ampi mezzi a disposizione, non erano infatti neppure in grado di sapere quanti fossero gli abitanti della città: erano quindi già perdenti in partenza di fronte all’epidemia.

Ma passiamo alla individuazione del “paziente numero zero” che Angela presenta come di grande importanza per Manzoni.

Anche qui le cose stanno agli antipodi di ciò che ci dice Angela.

Manzoni nelle due edizioni de “I Promessi Sposi” (1827-1840) si guarda bene dal dire chi fosse secondo lui il “paziente numero zero”.

Proprio al contrario, egli critica su questo punto – e in modo insistito – i due già ricordati storici coevi alla peste: Alessandro Tadino (1580-1661, medico e funzionario della città di Milano) e Giuseppe Ripamonti (1573-1643, storico ufficiale del Ducato).

Manzoni scrive che Tadino e Ripamonti hanno inutilmente dedicato molta attenzione alla identificazione del “paziente zero” (secondo l’espressione che piace ad Angela). Manzoni considera infatti la cosa irrilevante rispetto al problema centrale della natura del contagio e delle misure per fermarlo.

«Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni,»

[“I Promessi Sposi”, 1840, pag. 589, sottolineature nostre]:

«Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del fatto: e infatti, nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.
L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d’ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare nè all’uno nè all’altro. Tutt’e due l’epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate.
Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale de’ decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l’informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d’ogn’altro, essere informato d’un fatto di questo genere.
Del resto, dal riscontro d’altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa.»

È chiara la ragione per la quale Manzoni punge Tadino e Ripamonti sull’incertezza della data di ingresso in Milano del milite infetto. La tesi di Manzoni infatti è che, nonostante le chiare avvisaglie e le indicazioni degli stessi responsabili della sanità, l’amministrazione della città aveva tardato più di un mese a prendere i necessari provvedimenti.

Inoltre, nella sua amara ironia, Manzoni è molto chiaro. Con questa critica a Tadino e Ripamonti ci dice che il concentrarsi su certi dettagli in sé e per sé può essere insignificante rispetto alla verità storica e anzi fuorviante rispetto a ciò che maggiormente conta.

E infatti Manzoni continua il discorso e ci porta sulla questione centrale, mettendoci sotto il naso anche l’illustrazione di un soldato trasformato in mercante: in spalla porta faticosamente qualcosa che nulla ha a che fare con l’arte della guerra:

«Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni, andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; ſu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scopri sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’ era infatti, il quarto giorno morì.»

Ecco!
Manzoni ha introdotto l’elemento a suo avviso centrale: «con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni.» Il contagio trova proprio nelle vesti il suo veicolo principale.

Quelle vesti che l’Amministrazione sanitaria milanese stentava a credere potessero essere portatori di morte; che la gente stessa riteneva innocue, sottraendole anche alla ricerca della polizia sanitaria (cui alla fine si era ordinato di bruciare tutto ciò che era stato a contatto con un malato di peste) e che, profittando anche della inusuale disponibilità (quindi prezzi più bassi), si dava da fare per comprare, magari per farne dono ai propri bimbi.

Manzoni è pienamente consapevole di questa situazione perché di questi argomenti alla fine del primo ventennio dell’800 tutti parlavano.

La Lombardia di quegli anni, già provata nel 1815-16 da carestia, era stata investita nel 1817-18 da una epidemia di tifo petecchiale che aveva colpito 37.412 persone, con 7.064 morti (in Milano oltre 800 su 1.452 infetti), facendo temere una riedizione di quella spaventosa esperienza del 1630.

E, guarda caso, anche il tifo petecchiale ha negli abiti il suo principale veicolo perché in essi trova ottimo ricovero il pidocchio, trasmettitore del tifo secondo la oggi ben nota trafila: il germe responsabile è la Rickettsia prowazekii; il pidocchio succhia il sangue di un individuo infetto; il germe passa dallo stomaco alle feci dell’insetto; il pidocchio punge un altro individuo sano che si gratta creando le condizioni perché dalle feci del pidocchio il germe possa passare nel suo stesso sangue.

Sempre nel 1818, i soldati coloniali inglesi avevano importato dall’Oriente il colera, che nei decenni successivi fu una ciclica calamità per tutta Europa e l’Italia.

Ancora soldati quindi. Che nella diffusione di questo tipo di malattia possono essere i principali involontari attori ma non gli unici, perché è la circolazione incontrollata delle merci che fa circolare anche le epidemie.

Fortunatamente la sanità pubblica, pur senza ancora comprendere la natura vera delle epidemie e i meccanismi di diffusione, aveva compreso l’utilità delle misure preventive, del non ammassamento dei sospetti, dell’igiene in generale. Il che valse a contenere il numero dei morti.

Ma sul piano della consapevolezza scientifica nel 1817-18 si erano presentati quasi i medesimi problemi di centonovant’anni prima.

Quali sono le cause primarie del contagio? Questa era la domanda chiave nel 1630 e lo era anche nel 1817-18.

Nel corso del ’700 Vallisneri e Cogrossi avevano dato un notevole contributo allo sviluppo del pensiero medico, scontrandosi con le sempre dominanti teorie dei miasmi e della generazione spontanea (degenerate a Milano nella teoria delle “unzioni”, con il seguito sanguinario della Colonna infame).

Ai loro tempi queste “teorie” erano sostenute da autori come Muratori (con cui infatti Manzoni polemizza – “Promessi Sposi – Storia della Colonna Infame”, 1840, Cap. VII) ma ancora ai primi dell’Ottocento non potevano affatto considerarsi sconfitte.

Manzoni ne era perfettamente consapevole.
Così come era consapevole dell’influenza distruttiva che un approccio scientificamente primitivo ai problemi materiali della società poteva avere anche sulla sua struttura culturale e giuridica, l’elemento che più sta a cuore a Manzoni.

E quindi Manzoni concentra la sua attenzione anche sull’aspetto scientifico del problema, poggiandosi sulle elaborazioni di uomini a lui vicini che proprio in quegli anni si misuravano con i problemi del contagio con idee innovatrici, veri campioni della verità.

Tra questi vi era Francesco Enrico Acerbi (1785-1827) non a caso l’unico autore contemporaneo che Manzoni cita in tutto il romanzo.
E proprio in nota alla descrizione che egli fa della genesi del contagio.

[“I Promessi Sposi” 1827 – Tomo 3 – Cap. XXVII – pag. 107-109 (ripreso con modifiche solo stilistiche nell’edizione 1840)]:

«E non farà maraviglia che la mortalità crescesse e regnasse in quel chiuso a segno di prendere aspetto e, presso a molti, nome di pestilenza: sia che la riunione e l’aumento di tutte quelle cause non facesse che aumentare l’attività d’una influenza puramente epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi e le men prolungate di quella) che vi avesse luogo un vero contagio, il quale nei corpi affetti e preparati dal disagio e dalla malvagità degli alimenti, dalla intemperie, dal sudiciume, dal travaglio e dall’avvilimento trovi la tempera, a così dire, e la stagione sua propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutricarsi e moltiplicare (se ad un ignorante è lecito lanciare queste parole, dietro l’ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta in ultimo con molte ragioni e con molta riserva, da uno diligente quanto ingegnoso (1)): sia poi che il contagio scoppiasse da prima nel lazzeretto medesimo, come, da una oscura ed inesatta relazione, par che pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando prima d’allora, (il che sembra forse più verisimile, chi pensi come il disagio era già antico e generale e la mortalità già frequente) e che portato là entro vi si propagasse con nuova e terribile rapidità, per la condensazione dei corpi, renduti anche più disposti a riceverlo dalla cresciuta efficacia delle altre cagioni. Qualunque di queste congetture sia la vera, il numero quotidiano dei morti nel lazzeretto oltrepassò in breve il centinaio.»
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(1) Del morbo petecchiale… e degli altri contagi in generale, opera del dott. F. Enrico Acerbi, Cap. III, § 1 e 2.

Ecco, il testo sopra riportato si può quasi dire un “copia e incolla” da parte di Manzoni di concetti e frasi del libro di Acerbi appena citato.

Ma chi era Acerbi? E cosa significava la sua opera citata da Manzoni?

Il libro «Dottrina teorico-pratica del morbo petecchiale: con nuove ricerche intorno l’origine, l’indole, le cagioni predisponenti ed effettrici, la cura e la preservazione del morbo medesimo in particolare, e degli altri contagi in generale» di Enrico Acerbi venne pubblicato a Milano nel 1822.

I paragrafi 1 e 2 ricordati da Manzoni occupano 78 pagine (pag. 286-363) nelle quali Acerbi fa il punto con una notevolissima capacità di sintesi e anche di espressività letteraria su tutte le problematiche di base delle malattie contagiose.

Nel citare Acerbi Manzoni ci dice esplicitamente: io vi ho esposto il tema, ma da dilettante. Se volete farvi un’idea precisa, scientifica della questione, andate a leggervi almeno le 78 pagine del dottor Enrico Acerbi, che vi ho segnalato.

L’opera suscitò una notevole eco perché era se non l’unica certo la più sistematica e brillante denuncia delle vecchie concezioni sulla natura del contagio.

Una avanzatissima esposizione della teoria delle malattie contagiose come provocate da “sostanza organizzata” (cioè esseri viventi), in netta opposizione con le teorie di miasmi, corruzione dell’aria, predisposizione naturale, influenze astrali, ecc. ecc. che sotto sotto inficiavano ancora l’azione di molti medici.
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Una posizione che, assieme a quelle di altri (Agostino Bassi, per esempio), aprirono magistralmente la strada a Pasteur nelle sue rivoluzionarie scoperte di pochi decenni dopo.

Ecco come Acerbi sintetizza l’oggetto della sua ricerca (Dottrina del morbo petecchiale, pag. VIII):

«In conchiusione mi son determinato di dare la preferenza sopra tutte a quella ipotesi che fa consistere la cagione efficiente dei Contagi in particolari esseri organici, i quali, sotto di alcune circostanze, si sviluppano, vivono e si moltiplicano a danno dell’uomo.»
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(pag. 282) «La cagione effettrice di una malattia contagiosa consiste in una specifica sostanza organizzata la quale è capace di mantenersi e di riprodursi secondo le leggi comuni di tutti gli esseri dotati di vita [ossia, pag. 355] di alcune specie di esseri viventi parassiti i quali, in certe circostanze di tempo, di luogo e di persona, si gettano sui corpi umani, vi si sviluppano, si moltiplicano e dagli uni si comunicano negli altri principalmente per mezzo del contagio degli infermi coi sani. Quali siano questi esseri viventi morbifici noi lo ignoriamo e forse non arriveremo mai a saperlo. Per altro, prima di abbandonare la speranza di questa scoperta, credo che i medici ed i naturalisti dovrebbero fare ogni sforzo e tentativo per riuscirvi, s’egli è possibile.»

Se Acerbi non fosse morto così presto, avrebbe certo approfondito il suo contributo e avrebbe vista dimostrata la validità delle proprie ipotesi, sostenute con tanta dottrina e conoscenza.
Non stupisce che Manzoni, anche sotto l’influenza di quell’uomo di talento, decidesse di dare il proprio contributo di umanista e di artista a quello che gli parve – ed era effettivamente – uno dei maggiori problemi dell’epoca.

Da qui il suo grande studio sulla peste del 1630 di Milano, condotto adottando i punti di vista di quel suo brillante coetaneo cui era tra l’altro legato da ottimi rapporti personali. 

La famiglia Acerbi di Castano Primo (pochi chilometri da Milano) era da anni in contatto con Giulia Beccaria, la madre di Manzoni, in quanto essa possedeva nel paese un immobile, la cui cura aveva affidato a uno zio di Enrico.

Questi era rimasto prestissimo orfano del padre Giuseppe (anch’egli medico, morto nel 1786 di tifo petecchiale) e la famiglia si era molto impegnata per garantire gli studi al giovane, che mostrava spiccati precoci talenti e interessi di osservatore e di naturalista.

Manzoni e Acerbi cominciarono a frequentarsi attorno al 1820 quando Acerbi divenne medico della famiglia Manzoni, proprio nel periodo in cui stava rifinendo la sua opera sul tifo petecchiale.

Manzoni avviò la prima stesura del romanzo nel 1821 e non si fa fatica a trovare anche nei suoi primi manoscritti l’influenza dell’amico medico-scienziato.

Negli appunti per la prima stesura del romanzo non si fa riferimento diretto ad Acerbi ma vi è una lunga e dettagliata rivendicazione (“Fermo e Lucia”, Mondadori 1954, Cap. III, pp. 548-564) della necessità di rinnovare il pensiero scientifico, senza lasciarsi imbrigliare dalle concezioni arretrate e oscurantiste.

In quei primi appunti del Manzoni si coglie l’eco del dibattito che Acerbi aveva sollevato nell’ambiente milanese già a partire dal 1816 all’interno dell’Ospedale Maggiore.

In aperta polemica con una dirigenza lenta a rinnovarsi (da leggere il suo dibattito del 1819 con il Primario Locatelli) e deciso sostenitore della “medicina di osservazione”, per l’epoca rivoluzionaria.

Di tutto ciò, purtroppo, nella trasmissione di RAI3-ANGELA neppure un pallido accenno.
E pensare che Acerbi, oltre a dare alle riflessioni di Manzoni una solida base scientifica, gli fu veramente vicino.

Sia come medico personale dell’intera famiglia Manzoni (dal 1820 alla propria prematura morte) sia per gli affettuosissimi rapporti che egli stabilì con i figli di Manzoni (Giulietta scriveva di lui anche a Fauriel) e con la madre Giulia che egli, in una delle sue ultime lettere del 1827, ormai consapevole della morte vicina, chiama “la mia cara seconda mammina”.

Il secondo fronte della riflessione di Manzoni sulla peste.

Manzoni studia il problema della peste del 1630 non solo per l’attualità delle malattie epidemiche negli anni a cavallo del 1817-1820, ma anche perché, attraverso la rappresentazione di quella spietata tragedia collettiva, ha modo di evidenziare quali danni possono portare alla salute e alla vita materiale dei cittadini l’ignoranza dei fenomeni, l’incompetenza, il carattere asociale degli interessi politico-militari.

E allo stesso tempo quali danni queste stesse mancanze possono portare al diritto e al patto di convivenza, favorendo l’appannamento dell’intelligenza e l’affermazione di concezioni e prassi del diritto stupidamente sanguinarie.

Sotto questo profilo Manzoni è andato ben oltre il proprio nonno Beccaria, che si era espresso in un illuminismo puramente penale, senza allargare l’analisi all’intera società.

E mille miglia avanti rispetto alla figura, che ne vogliono dare RAI3-ANGELA, di un uomo mediocremente solo “molto attento alle cifre dei documenti antichi”.

Non accorgersi della grande attualità del pensiero di Manzoni è purtroppo non rendersi conto che i problemi da lui trattati sulla salute collettiva sono ancora presenti, più o meno negli stessi termini del 1630, come dimostra – ne accenniamo solo come esempio – il dibattito attuale sulle vaccinazioni d’obbligo.

Quale occasione migliore di una trasmissione di “cultura popolare” (tale è autorevolmente valutata quella di Angela), dedicata a Manzoni, per renderne attuale il pensiero e spingere i telespettatori a una riflessione più ponderata sui problemi scottanti dell’oggi?

Quali le fonti di ispirazione di Manzoni?

Incongruenza dell’ipotesi “registrazione doppia” dai “Libri Mortuorum”.
Dichiarata dallo stesso Manzoni la fonte “Cardinale Borromeo”.

Dopo il non smagliante approfondimento sul “paziente zero”, la trasmissione “Viaggio nel mondo dei Promessi Sposi” ci propone una “innovazione” sulle possibili fonti di Manzoni per le sue invenzioni letterarie.

Per scelta di sempre noi siamo favorevolissimi alle innovazioni. E quindi tendiamo a considerare ciò che viene proposto come tale con attenzione, perché non si finisca per presentare come innovazioni mal congegnate invenzioni.

Sappiamo benissimo che dietro l’ipotesi che di seguito si discuterà vi è solo l’ottima intenzione di attirare sui documenti dell’Archivio di Stato di Milano l’attenzione del pubblico, nel quadro di una bella campagna di conoscenza di questa importante istituzione della cultura milanese e italiana anche presso i non specialisti.

Come bene dicono il Direttore Compagnoni e i funzionari della prestigiosa istituzione, l’Archivio di Stato è patrimonio di tutti i cittadini. E sarebbe bello che sempre più numerosi i cittadini (anche non ricercatori più o meno di professione), lo considerassero come un luogo accessibile, dove studiare e apprendere cose interessanti per la nostra storia e – quindi – per l’attualità.

La buona intenzione è evidente e certo condivisibile. Ma è sempre opportuno stare con i piedi bene per terra.

[1:42:45] BENEDETTO LUIGI COMPAGNONI – Direttore Archivio di Stato di Milano.
«Il Manzoni è molto accurato nel raccontare la peste. Sicuramente lui si avvaleva di collaboratori che mandava in giro per archivi, e potrebbero aver visto i nostri registri, sui quali ci sono delle annotazioni che richiamano ad esempio l’episodio di Cecilia, la piccola bimba che viene depositata con amore dalla mamma sul carro dei monatti

VOCE FUORI CAMPO: «Addio Cecilia, riposa in pace. Stasera verremo anche noi per restare sempre insieme.»

Sullo schermo passano poi alcune scene suggestive: la madre che depone la bimba sul carro / un testo manoscritto, mentre la VOCE FUORI CAMPO ci dice: «Margherita Mora, anni 30, Bianca Mora, anni 10 morte di peste

Spinto da tali sollecitazioni, ogni spettatore (anche il meno incline alla tenerezza) è inevitabilmente portato a pensare che “Margherita et Bianca” siano madre e figlia e che la registrazione “doppia” mostrata in trasmissione potrebbe effettivamente avere ispirato a Manzoni il celebre episodio di Cecilia del capitolo XXXV de “I Promessi Sposi”.

Ma se proviamo a considerare la cosa dal punto di vista della logica della narrazione, la suggestione può apparire non così fondata.

A proposito dell’ipotesi, sostenuta con decisione da RAI3-ANGELA, secondo cui Manzoni o suoi collaboratori avrebbero consultato i “Libri Mortuorum” della BUSTA 119, il Direttore Compagnoni, anche per il suo ruolo ben consapevole di quanto sia d’obbligo la prudenza nell’analisi del passato, si limita a dire che i “collaboratori” di Manzoni “potrebbero” avere consultato i registri dei decessi.

Comunque sia, è opportuno segnalare che i “Libri Mortuorum” (ormai il lettore ne ha famigliarità) riportano moltissime registrazioni non solo “doppie“, ma anche triple e quadruple, quando non di intere famiglie, come è facilmente intuibile.

Marito e moglie, genitori e figli, parenti vari, spesso allora più di oggi a stretto contatto quotidiano, venivano frequentemente colpiti insieme dalla morte. Dai funzionari che operavano sul campo i loro nomi venivano quindi riportati su un’unica registrazione (spesso un semplice foglietto), ritrascritta senza ulteriori rielaborazioni sui registri ufficiali dagli scrivani del Magistrato di Sanità.

Va da sé quindi che se (facciamo un esempio) il giorno 20 giugno 1630 fossero morte insieme, o a distanza di poche ore, la signora Margherita Mora di anni 30 e la figlia Bianca di anni 10, esse sarebbero state raccolte, sepolte e registrate insieme.
Se invece la madre Margherita fosse morta anche uno o due giorni dopo la figlia Bianca, sarebbero state raccolte, sepolte e segnate separatamente, con registrazioni differenziate.

Attenzione! Stiamo parlando di settimane nelle quali in Milano morivano anche centinaia di persone al giorno (contro le 12-15 dei periodi normali). Era essenziale rimuovere al più presto da case e strade i cadaveri e portarli immediatamente alle grandi fosse comuni scavate a lato del Lazzaretto e negli altri cimiteri cittadini.

Ma leggiamo cosa scrive Manzoni.

«Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio.»

[“I Promessi Sposi” 1840 Cap. XXXIV, pp. 661-663, sottolineature nostre]:

«Entrato nella strada, […] il suo sguardo [di Renzo] s’incontrò in un oggetto singolare di pietà […]. Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, […]. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. […]
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella […] disse: « non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro » […] La madre dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, […] e disse I’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme”. […] Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi,” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.”
Cosi detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. […] poi disparve. E che altro potè fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.
« O Signore! » esclamò Renzo: “esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!”»

Chiediamo al lettore di tenere in sé l’emozione partecipativa e di considerare per un momento questo episodio sotto il profilo della dinamica narrativa.

Come è chiaro, l’episodio di cui è partecipe lo spettatore Renzo è composto di DUE momenti, entrambi mediati da Renzo stesso, ma ben distinti:

a) la madre esce di casa con la bimba (9 anni, dice Manzoni) morta tra le braccia (adorna di una veste donatale dalla stessa mamma), e la depone sul carro; dice al monatto di passare a sera per prendere anche lei, e non sarà sola;

b) rientrata in casa, la madre si affaccia alla finestra e guarda il carro che si allontana con la bimba morta. Ma in braccio ella tiene un’altra sua bimba, più piccola (5-6 anni?), viva ma con i segni della morte sul viso.
Attraverso l’immaginazione di Renzo, vediamo che la donna si allontana dalla finestra, depone sul letto la bimba e le si corica al fianco, in attesa della morte che le reciderà insieme, con un unico colpo di falce.
Renzo, forse per la prima volta nel romanzo, prorompe in un’esclamazione di vera misericordia, più da sacerdote-filosofo che da uomo del mondo qual egli era (poco dopo, armato di coltello, minaccerà di morte chiunque si provi a toccarlo): «O Signore!» sclamò Renzo : «esauditela, pigliatela con voi, lei e quella sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!».

Cominciamo dal secondo momento – la morte contemporanea di madre e figlia.

Dando corso all’immaginazione di Renzo e alla sua esclamazione di pietà, possiamo prefigurarci una conclusione più o meno in questi termini:

La bimba morta, deposta sul carro dalla madre, viene registrata con il suo nome e cognome, forse anche indicando di chi era figlia; portata assieme agli altri cadaveri in uno dei cimiteri della città, viene sepolta probabilmente in una fossa comune; la sera, o il giorno dopo, i monatti ripassano da quella via.
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Lì in quella stessa casa trovano morte sul medesimo letto la madre e la piccola figlia; le caricano sul carro e le portano a uno dei cimiteri della città per la sepoltura.
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L’anziano della Parrocchia prende nota del nome delle due defunte, possibilmente della loro età; il medico o il pratico che accompagna i monatti traccia una sinteticissima diagnosi delle cause della morte (in questo caso “peste”); i loro nomi vengono posti affiancati su un foglietto.
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La sera stessa o il giorno successivo la nota viene portata agli uffici del Magistrato di Sanità, dove vengono registrati i decessi avvenuti per strada o nelle abitazioni, comunque in città (sono quelli della BUSTA 119).
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Al Tribunale di Sanità, in un qualche momento successivo (forse il giorno dopo, forse dopo una settimana) la morte di madre e figlia viene segnata su uno dei “Libri Mortuorum”.
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Se l’Anziano nella sua nota ha indicato che si tratta di madre e figlia, è facile che lo scrivano riporti i due nomi in una unica annotazione, per es.: «Die vigesimo Junij 1630 / Margaritta Mora et / Blanca eius filia decessere Peste iud. Sorordanus («Venti giugno 1630 / Margherita Mora / e Bianca sua figlia, morte di peste a giudizio di Sorordano [il medico che ha valutato le cause della morte].»

Il lettore ha già capito cosa vogliamo dire: la madre e la figlia registrate insieme sarebbero quelle che l’immaginazione di Renzo ci suggerisce morte insieme, coricate sul medesimo letto.

Non la madre e Cecilia, la quale è morta ovviamente prima della madre e che è stata certo registrata a sé.

Dal punto di vista narrativo, quindi, chi vuole vedere nell’episodio di Cecilia, l’espressione artistica di una doppia registrazione sul libro dei morti, è costretto a esercizi di stiramento veramente ardui.

La doppia registrazione sarebbe invece coerente con una scena che veda madre e figlia morenti fianco a fianco sul letto di casa.

Ma questa rappresentazione manca di evidenti elementi scenici e quindi non è stata né sviluppata da Manzoni (che ne fa solo un accenno, rafforzato esclusivamente dall’esclamazione impietosita di Renzo) né (che ci risulti) espresso in alcuna iconografia di un certo rilievo.
E infatti della piccola che morrà con la madre, Manzoni non dice neppure il nome: è una delle tante morti nella Milano devastata dalla morte.

La sequenza che RAI3-ANGELA hanno voluto presentare al pubblico — madre che depone Cecilia sul carro; registrazione doppia dal “Libri Mortuorum” — è suggestiva ma sul piano narrativo non funziona per nulla e si scontra con le leggi di ogni racconto, dolcemente ferree in ogni tempo e luogo, per ogni lingua e popolo.

La fonte di Manzoni è il Cardinale Borromeo in persona. Parola di Manzoni!

D’accordo! dirà il lettore, ma è così sbagliato pensare che Manzoni per le sue storie prendesse spunto dalle sue molte letture?

Niente affatto e proprio al contrario! Manzoni era un grande utilizzatore di racconti altrui – come tutti gli scrittori del resto.
Essendo però uomo probo non agiva di nascosto ma ponendo le sue fonti proprio sotto il naso dei lettori. E bene in luce, perché anche i distratti se ne accorgessero.

Nel caso dell’episodio di Cecilia (come nel cammeo delle capre-balia al Lazzaretto) Manzoni ha una fonte di grande prestigio spirituale e di alto livello gerarchico.
È anzi uno dei personaggi chiave de “I Promessi Sposi”, il Cardinal Federico Borromeo in persona.

Questi morì nel 1632 e lasciò incompiuto un manoscritto, conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, dal titolo «De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit» [“Sulla pestilenza che grande strage arrecò a Milano nel 1630”]

Il manoscritto (qualche anno fa trascritto e stampato) era citato da Ripamonti (che di Borromeo fu anche segretario) e Manzoni (attento lettore di Ripamonti) certamente lo lesse nell’originale o ne ebbe copia.
E non solo lo citò più volte nei capitoli del romanzo dedicati alla peste ma ne prese spunto (anche letterale) per alcuni dei suoi episodi.

Per esempio, la descrizione del ruolo di balie delle capre al Lazzaretto è presa pressoché integralmente dal manoscritto di Borromeo (lo segnaliamo agli amici della ricerca «Of mice and men-Uomini e topi») e – guarda caso – anche l’episodio di Cecilia.

Nel 1903 Giuseppe Galli in un suo articolo (“Un’operetta inedita del cardinale Federico Borromeo sopra la peste in Milano ed i Promessi Sposi”, Archivio Storico Lombardo: Giornale della società storica lombarda) fece del manoscritto di Borromeo un’attenta lettura, evidenziandone i brani ai quali (a suo avviso) si era ispirato Manzoni per diversi episodi, relativi soprattutto alla peste di Milano.

Citiamo da questo contributo di Galli, mantenendo la sua lettura del latino (se vi sono errori di trascrizione dal manoscritto, il lettore scuserà Galli e noi, che seguiamo Galli).

[Dal “De pestilentia” di Borromeo, indicato da Galli come «c. 35a.»]: «Novennis puella cum in conspectu matris occubuisset, noluit mater tolli ad vespillonibus eam, sed imposuit ipsa plaustro cadaver, obversaque ad vespillones: vos vero, hodie vesperi, me tolletis, inquit; regressaque in cubiculum, et ex fenestra filiae funus id contemplata, paulo post estinguitur».
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[nostra traduzione] «Essendo morta una bimba di nove anni sotto gli occhi della madre, questa non volle che i portatori la toccassero, ma essa stessa pose il cadavere sul carro, e rivolta ai portatori: questa sera di certo prenderete me, disse; rientrata nella casa, e contemplato un tal funerale della figlia, poco dopo morì.»

Se rileggete l’episodio di Cecilia che abbiamo riportato più sopra, vedrete che Manzoni riprese integralmente l’episodio narrato da Borromeo e di suo vi mise in più solo le opportune e apprezzatissime coloriture artistiche.

Non riteniamo vi sia bisogno di dire altro circa la fonte cui attinse Manzoni per l’episodio di Cecilia, se non ricordare che egli volle dare risalto a questo suo debito nei confronti del Cardinal Borromeo.

[“I Promessi Sposi”, 1840, Cap. XXXII, pag. 622]: «Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano [di Borromeo] intorno a quella peste […]»

e immediatamente sotto Manzoni riporta l’illustrazione di una riproduzione del manoscritto, quasi a dare certificazione “fotografica” della sua concreta esistenza.

Ciò detto, vorremmo chiudere questa lunga pagina dedicata alla “Peste Manzoniana” secondo RAI3-ANGELA con una riflessione relativa all’uso magistrale che Manzoni fece della ripresa in chiave artistica di idee espresse in altri momenti del romanzo nel linguaggio invece della descrittiva analisi storica.

E lo faremo proprio partendo dall’episodio di Cecilia.

È la nostra ingenua inconsapevolezza che ci perde!

Abbiamo detto sopra come Manzoni abbia ripreso quasi alla lettera il manoscritto di Borromeo, inserendovi di proprio gli elementi artistici della narrazione.

Tra questi la presenza della seconda figlia, ancora viva, accanto alla quale la madre di Cecilia morirà presto.

Manzoni introdusse poi elementi descrittivi, in parte puramente psicologici (il rispetto del monatto), in parte invece funzionali al filo del suo discorso sulle cause della peste, trascurate dall’amministrazione e favorite dalla stessa popolazione inconsapevole della serietà del pericolo.

Rispetto all’asciutto racconto di Borromeo, Manzoni aggiunge un elemento su cui richiama l’attenzione del suo lettore: l’abbigliamento della bimba morta.

«[…] ma composta, acconcia, con le chiome divise in su la fronte, in una veste bianca, mondissima come se quelle mani l’avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e conceduta in premio.»

Cosa vuole sottolineare Manzoni con quelle parole: «come se quelle mani l’avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e conceduta in premio

È chiaro come il riferimento alla “veste” sia da porre in relazione alla “robba”.

Quella “robba” che il Magistrato di sanità aveva indicato come uno dei veicoli più pericolosi per il contagio, ma solo dopo avere lasciato che entrassero in città senza alcun controllo persone forse contagiate, tra cui quel «fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni.»

Quella “robba” a proposito della quale Federico Borromeo aveva immediatamente ordinato ai sacerdoti di persuadere la gente a non comprar vestiti. Ma la gente non ci aveva sentito: aveva anzi nascosto i panni perché non venissero bruciati, favorendo così la diffusione del morbo.

Forse la madre di Cecilia aveva donato essa stessa alla piccola figlia la “candida veste per una festa”. Ma quella veste, donata con amore, era portatrice di morte.

Manzoni dipinge con crudo realismo, attenuato solo dalla descrizione della pietà e dell’amore materno, il meccanismo invincibile della diffusione del contagio.

Altro che untori! Altro che nemici! Manzoni ce lo dice chiaro: siamo noi stessi che, nella nostra inconsapevole ignoranza, ci facciamo agenti della distruzione dei nostri e nostra.

Il rimedio? Cercare – sempre e in ogni circostanza – di tenere la mente sgombra dai pregiudizi; fuggire la pigrizia; non temere il confronto; agire con onestà intellettuale.