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A proposito della nuova configurazione del Museo Manzoniano in Lecco. 

«Ex visu cognoscitur vir, et ab occursu faciei cognoscitur sensatus.»

(Ecclesiasticus 19/26)

NOTA

1

«Il nuovo marchio di
Villa Manzoni / Museo Manzoniano
che di Manzoni cancella la faccia»

Giovedì, 30 luglio 2020

Al Museo Manzoniano di Lecco, talebana “damnatio memoriæ” per Alessandro Manzoni.

Nella Lecco che anche per lui divenne città, nel nome di Manzoni è stato recentemente inaugurato il rinnovato museo che dell’artista, dell’uomo, del religioso e del politico democratico ha scelto di cancellare le parti fondamentali.

A cominciare dalla faccia.

Perché anche in questa fase critica si mantenga integra la capacità e la voglia di comprendere, sul nuovo Museo svolgeremo alcune considerazioni.
A partire dal marchio presentato il 26 ottobre 2019 alla sua inaugurazione.
.
Un marchio di cui non è chiaro il riferimento: è il marchio del Museo Manzoniano? di Villa Manzoni? del Sistema Museale della città?

Un marchio che si ispira a un dipinto mai stato simbolo del Museo; di un autore ignoto, ancorché sfacciatamente spacciato come Molteni.
.
Ma soprattutto un marchio talebano che cancella la faccia di Manzoni, negandone così la riflessione sull’essere l’uomo (fatto a immagine di Dio) pienamente consapevole e responsabile in ogni sua azione, cosa assolutamente condivisibile anche da altre prospettive. 

Da parte nostra abbiamo solidi elementi per sostenere che il Ritratto in questione “NON È” di Giuseppe Molteni.
.
È infatti ben constatabile
che il dipinto è stato esemplato da un fotoritratto di Manzoni, proposto in un album edito nell’autunno 1869.
Ma Molteni era morto l’11 gennaio 1867…

A margine, non possiamo non evidenziare un incredibile filotto di castronate, degne di “Scherzi a parte”, offerte ai visitatori del Museo Manzoniano dal suo Direttore scientifico Mauro Rossetto, dall’Assessore alla Cultura Simona Piazza, dal Signor Sindaco Virginio Brivio.

Intervenga qualcuno, per favore!

Premessa

Il 26 ottobre 2019 è stato inaugurato il Museo Manzoniano di Lecco in una nuova configurazione dopo quasi quarant’anni dalla sua fondazione (1983, Direttore Gian Luigi Daccò).

La nuova soluzione museale si colloca all’interno del programma di ristrutturazione di Villa Manzoni, gestito dal “Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo” (d’ora in avanti MiBACT).
Il risultato della ristrutturazione architettonica è senz’altro positivo: sono state uniformate le quote dei pavimenti e messo a norma l’impianto elettrico; le Sale di cui si compone il museo sono state esteticamente migliorate, sicuramente più invitanti nei confronti del visitatore.

Diversa la situazione sul piano dei contenuti culturali e della comunicazione al pubblico.
Sotto questo profilo la nuova soluzione non presenta grandi novità rispetto alla precedente. Anzi, sotto certi aspetti ne è un peggioramento.

Nella nuova configurazione del museo infatti sono state confermate le vecchie criticità:

• l’impegno politico di Manzoni è presentato in modo veramente inadeguato e anche offensivo sia per l’intestatario del Museo sia per il visitatore;
.
• è mantenuto il silenzio nei confronti della sua esperienza religiosa — e quindi del rapporto con Rosmini, fondamentale per comprendere aspetti dell’intera sua opera;
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• fin ostentato l’ostracismo verso l’Abate Stoppani, che dalla morte di Manzoni e per vent’anni svolse un ruolo decisivo per affermarne a livello nazionale il legame organico con la città di Lecco (per es. attraverso il monumento del 1891).
In compenso esaltata una tartufesca frode ideologica di Giosuè Carducci;
.
• sono ignorati i molteplici rapporti economici e sociali intessuti da Manzoni a Lecco, in particolare tra il 1807 (quando ereditò il patrimonio famigliare dal padre Pietro) e il 1818 quando, ai suoi trentatré anni, la abbandonò per sempre;
.
Manzoni è presentato unicamente in funzione del suo romanzo, ignorandone il rilevante contributo alla poesia, alla lingua, alla storia, alla politica, al diritto.

Sono state in compenso apportate inedite novità negative:

• è stato cancellato ogni riferimento alla famiglia creata da Manzoni con Enrichetta Blondel, anch’essa per anni vissuta a Villa Manzoni — a ciò nella precedente configurazione si faceva almeno un qualche richiamo;
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• pressoché eliminato ogni riferimento geo-topografico al rapporto tra Villa Manzoni e il territorio lecchese — nella precedente versione quantomeno richiamato con un plastico di non ignobile fattura;
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• nel percorso museale è stata — tra l’altro con grossolani errori di fatto — dedicata una intera Sala alla famiglia Scola, senza ragione posta sullo stesso piano della famiglia Manzoni;
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• un’altra intera Sala del museo — la prima — è inutilmente impegnata nella proiezione in continuo di un filmato di mediocrissima qualità; per nulla sinergico con il contesto museale; di nessun valore per la cultura manzoniana; per di più ambiguo su aspetti della produzione artistica in generale;
.
• è stato per l’occasione creato un nuovo marchio che cancella la fisionomia di Alessandro Manzoni. Una soluzione non solo inadeguata alla funzione cui è chiamato un simbolo grafico ma anche concettualmente negativa se non ostile verso la figura che vorrebbe rappresentare;
.
la segnaletica esterna e interna al museo è inadeguata; inesistente l’informazione mobile e di memoria; quella fissa, affidata a pannelli testuali pessimamente concepiti, praticamente inutilizzabili per la identificazione e la fruizione consapevole di quanto esposto.

Quindi, da parte nostra una valutazione decisamente non positiva e insieme di rammarico.

Con il rinnovo architettonico della struttura vi era infatti la possibilità di un cambio di passo nella costituzione di un vero Museo manzoniano: non si è fatto nulla in quella direzione e — anzi — si è persino peggiorata la precedente situazione di mediocrità.

Di fronte a questo dato deprimente riteniamo doveroso dare il nostro contributo per evidenziare — su basi documentali — le molteplici criticità della nuova configurazione museale. Ciò nella speranza che prima o poi qualcuno in Lecco (tra l’altro siamo in campagna elettorale per le amministrative della città) si decida a operare seriamente per un vero Museo Manzoniano, uscendo dal pantano della mediocrità quando non del tradimento sistematico del pensiero del suo cittadino più illustre.

Come anticipato, qui sotto proponiamo le nostre riflessioni sul nuovo marchio elaborato dallo Studio diennepierre dell’architetto Massimo Negri di Lecco, a partire dal “Ritratto di A. Manzoni” custodito presso il Museo Manzoniano e ormai indicato senza riserve come di G. Molteni.

In questa prima nota risponderemo a quattro domande:

A. Il nuovo marchio risponde alle regole della comunicazione iconica?
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B. Il “Ritratto di Manzoni” da cui è stato tratto è rappresentativo del Museo Manzoniano e di Lecco?
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C. L’attribuzione del “Ritratto di Manzoni” a G. Molteni ha un qualche fondamento?
.
D. Indipendentemente dall’autore del dipinto, il nuovo marchio riflette l’importanza attribuita da Manzoni alla fisionomia umana?

A queste quattro domande la nostra risposta è un NO! senza riserve che motiviamo con la Nota che segue.

Essendo la Nota non semplicemente cronachistica ma dedicata a un elemento strutturale della cultura manzoniana, i quattro temi indicati verranno trattati sotto diversi punti di vista e con argomentazioni a volte anche piuttosto articolate.

Il testo si compone di 25.000 parole (163.000 battute); è corredato da 140 diverse illustrazioni; è leggibile in circa 90 minuti.

Come il lettore potrà fin da subito constatare, le nostre osservazioni sono decisamente critiche.
Ovviamente nessuna pregiudiziale nei confronti dell’architetto Negri e del suo Studio ma solo il desiderio di indicare alcuni punti fermi per una corretta comunicazione manzoniana da parte di Lecco e del suo Museo.

Siamo naturalmente a disposizione dell’architetto Negri per dargli su questo nostro sito tutto lo spazio utile a esporre — se lo riterrà — le sue contro osservazioni alla nostra analisi.

La medesima disponibilità offriamo ai responsabili istituzionali della cultura di Lecco — Sindaco Virginio Brivio, Assessore alla Cultura Simona Piazza, Direttore scientifico del Museo Manzoniano Mauro Rossetto — che hanno fatto proprie le elaborazioni dell’architetto Negri.

Buona lettura.

Come corollario alle considerazioni sul marchio talebano e sul fasullo Molteni, in appendice alla Nota il lettore troverà nostre osservazioni piuttosto puntuali su alcune incredibili castronate (offerte al visitatore del Museo Manzoniano dal suo Direttore scientifico, dall’Assessore alla Cultura, dal Signor Sindaco della città) a proposito di un “Saluto al Re” che Manzoni mai pronunciò nonché di un Decreto “per l’assegnazione di una pensione a Manzoni”, presentato come la “nomina a Senatore” dello stesso.

Il lettore troverà anche il nostro ristabilimento della realtà storica in relazione a uno “smoking” che, secondo Rossetto, Piazza, Brivio, Manzoni avrebbe indossato in occasione di quel medesimo discorso che mai pronunciò e che il pittore Giuseppe Molteni, diffidato da Manzoni nel 1835 dall’occuparsi oltre della sua figura, avrebbe immortalato nel 1860 nel “Ritratto di Manzoni”, visionabile nella Sala 3 del Museo.

Quest’ultima è una trovata veramente degna di “Scherzi a parte”: leggere per credere.

Ne tengano conto i candidati alle prossime comunali di Lecco per comprendere — chiunque vinca — in quale direzione muoversi per porre rimedio al marasma culturale e organizzativo da cui è umiliato il patrimonio manzoniano della città.

1. Il nuovo marchio ispirato a Manzoni, cancella Manzoni e insieme ignora l’abc della comunicazione iconica.

Il primo elemento che viene colto dal visitatore entrando nel Museo Manzoniano di Lecco è il marchio che qui mostriamo, presente su tutti i pannelli di presentazione, esterni e interni al Museo stesso.

Di seguito analizziamo il processo attraverso cui i curatori museologici Mauro Rossetto e Barbara Cattaneo (Direttori Scientifici rispettivamente del Museo Manzoniano e della Galleria Comunale d’Arte di Villa Manzoni) e il loro consulente museografico architetto Negri sono arrivati a realizzare questo marchio — a nostro avviso un disastro sul piano concettuale e grafico.

Ne mostreremo non solo incongruenze e debolezze in termini di tecnica della comunicazione ma anche la sua radicale contrapposizione al valore della “fisionomia” umana come concepito e come proposto diffusamente da Manzoni nel suo romanzo, in particolare nella “Quarantana”, dove è supportato da numerose espressioni grafiche.

1.1 / La documentazione di riferimento ottenuta solo con un “Accesso Civico Generalizzato”.

Per lo sviluppo di questa nota (come per le altre cinque che seguiranno) ci siamo in primo luogo basati sulla lettura degli ufficiali “Progetti” predisposti per la ristrutturazione del Museo.

È utile ricordare che tali “Progetti” sono stati presentati con una relazione introduttiva il 4 aprile 2019 dall’Assessore alla Cultura Simona Piazza alla Giunta Comunale di Lecco e da questa contestualmente approvati.

La documentazione da noi consultata comprende quindi:

a. Relazione introduttiva dell’Assessore Piazza (700 parole, 2 pagine — VEDI QUI);

b. “Progetto museologico” dei Direttori SiMUL Mauro Rossetto e Barbara Cattaneo (1.454 parole, 6 pagine — VEDI QUI);

c. “Progetto museografico” dell’architetto Massimo Negri, Studio di Architettura diennepierre di Lecco (9.908 parole, 81 pagine, ovviamente con molte rappresentazioni tecniche — ne mostreremo di volta in volta solo le parti di interesse per la nostra analisi.

I “Progetti” in questione sono pubblici ma per averne copia abbiamo dovuto superare qualche ostacolo.

Il 28-11-19 avevamo infatti chiesto a Massimo Gatti (Dirigente Area 4 del Comune di Lecco — cultura, turismo, sport), ai Direttori SiMUL Rossetto e Cattaneo, nonché all’architetto Negri di avere copia dei rispettivi progetti approntati per il Museo Manzoniano.

Molto gentilmente Dirigente e Direttori non ci avevano risposto; Massimo Negri sì, ma disponibile a inviare solo uno stralcio della sua relazione; in seconda battuta, si è anch’egli iscritto al partito del silenzio e non ci ha inviato nulla.

Il 6 dicembre 2019 abbiamo quindi attivato un “Accesso Civico Generalizzato” (santa istituzione!) per avere i documenti di interesse; in risposta, il 19-12 ne abbiamo ricevuto solo una stringatissima sintesi.
Dopo un po’ di tira e molla solo il 27-12 abbiamo potuto avere la documentazione completa (grazie comunque ai Direttori Rossetto e Cattaneo per la cordiale accoglienza a Villa Manzoni).

Di seguito quindi svolgiamo le nostre osservazioni sulla base di documenti ufficiali.
Faremo riferimento in particolare al “Progetto museografico” redatto dall’architetto Negri perché inglobante alla lettera molti elementi chiave del “Progetto museologico” di Rossetto/Cattaneo.

Il “Progetto Negri” ha inoltre il vantaggio di essere strutturato anche tipograficamente in modo “normale” (non raffazzonato come il “Progetto” Rossetto/Cattaneo); è di agile consultazione; non è avaro di proprie osservazioni generali sulle tematiche manzoniane; è l’unica fonte in relazione al nuovo marchio di Villa Manzoni nonché alla segnaletica interna al Museo; è relativamente completo e preciso nella descrizione del percorso museale (utili le tavole strutturali).

D’altro lato, quanto formalizzato nel “Progetto Negri” è per definizione condiviso in solido sotto ogni profilo dall’Assessore alla Cultura Piazza; dal Dirigente Gatti; dai Direttori Rossetto e Cattaneo; dalla Giunta e naturalmente dal Sindaco Brivio.

Chiameremo quindi “Progetto Museo Manzoniano” questo documento Negri, condiviso e approvato da tutti gli interessati.

Ciò chiarito a proposito delle fonti, veniamo al dunque.

1.2 / Utilizzati come sinonimi “logo”, “icona”, “scritta”, “marchio” — nel linguaggio iconico termini perfettamente distinti.

Non abbiamo documenti che possano dirci se all’architetto Negri la Direzione di SiMUL o l’Assessore alla cultura hanno dato una qualche indicazione su questo nuovo marchio oppure se si sono limitati a dire: caro architetto, pensi un po’ lei anche a questo aspetto.

Abbiamo però sul nuovo marchio un documento redatto dall’architetto Negri, della cui capacità di sintesi siamo rimasti francamente ammirati.
Negri ha infatti impostato concettualmente il nuovo marchio in sole 270 parole che riportiamo integralmente (“Progetto Museo Manzoniano”, p. 41, a lato le diverse soluzioni grafiche previste dall’architetto — sottolineature nostre):

«Cenni sul Logo / Il logo rappresenta uno dei più importanti elementi della comunicazione visiva e deve evocare efficacemente l’identità dell’istituzione che rappresenta e nella sua impostazione si usa di nuovo il binomio tra attualizzazione e tracce consolidate del passato.
Abbiamo quindi deciso di procedere attraverso la stilizzazione dell’icona per eccellenza del Museo, ovvero il ritratto di Manzoni ad opera del Molteni che risulta familiare sia sul territorio che oltre; le caratteristiche peculiari del Manzoni maturo e anziano — la capigliatura, le basette, il papillon, l’ottocentesca ieraticità — sono immediatamente riconoscibili a livello nazionale e probabilmente anche internazionale. La sagoma del logo mette in evidenza le suddette caratteristiche riducendo il ritratto ai minimi termini di una immagine positivo/negativo, senza i tratti del volto. Nessun altro elemento o colore intervengono nella sagoma per non perdere immediatezza comunicativa e riproducibilità a qualsiasi scala di rappresentazione. La sagoma del ritratto si innesta, sfruttando la forma dello scollo di giacca, sulla M che identifica il celebre cognome. Sulla destra del “marchio”, a bandiera rispetto una linea verticale, si innesta la scritta Villa Manzoni disposta su due righe. Il font della scritta Villa è più esile (futura Bk) mentre quello di Manzoni è più marcato (futura Hv). Il colore prescelto è il nero, con possibilità di invertirlo col bianco per l’uso sui fondi scuri.»

«Cenni sul Logo / Il logo rappresenta uno dei più importanti elementi della comunicazione visiva e deve evocare efficacemente l’identità dell’istituzione che rappresenta e nella sua impostazione si usa di nuovo il binomio tra attualizzazione e tracce consolidate del passato.
Abbiamo quindi deciso di procedere attraverso la stilizzazione dell’icona per eccellenza del Museo, ovvero il ritratto di Manzoni ad opera del Molteni che risulta familiare sia sul territorio che oltre; le caratteristiche peculiari del Manzoni maturo e anziano — la capigliatura, le basette, il papillon, l’ottocentesca ieraticità — sono immediatamente riconoscibili a livello nazionale e probabilmente anche internazionale. La sagoma del logo mette in evidenza le suddette caratteristiche riducendo il ritratto ai minimi termini di una immagine positivo/negativo, senza i tratti del volto. Nessun altro elemento o colore intervengono nella sagoma per non perdere immediatezza comunicativa e riproducibilità a qualsiasi scala di rappresentazione. La sagoma del ritratto si innesta, sfruttando la forma dello scollo di giacca, sulla M che identifica il celebre cognome. Sulla destra del “marchio”, a bandiera rispetto una linea verticale, si innesta la scritta Villa Manzoni disposta su due righe. Il font della scritta Villa è più esile (futura Bk) mentre quello di Manzoni è più marcato (futura Hv). Il colore prescelto è il nero, con possibilità di invertirlo col bianco per l’uso sui fondi scuri.»

Non è chiaro per quale motivo, nel “Progetto Museo Manzoniano” non viene mostrata quella che Negri definisce la «icona per eccellenza del Museo, ovvero il ritratto di Manzoni ad opera del Molteni» posta come punto di riferimento del nuovo marchio.

Perché il lettore possa seguirci, ci pensiamo noi mostrando qui a lato il file: è orrendo sul piano fotografico ma è ciò che passa SiMUL sul suo sito Web [vedi qui].

Torniamo comunque a noi.

Rileggete le 270 parole di Negri: in prima istanza l’architetto presenta come “logo” il nuovo simbolo grafico che noi vediamo costituito da due parti ben distinte:

1. un segno propriamente grafico (che nelle intenzioni dovrebbe ricordare il volto di Alessandro Manzoni);
.
2. una espressione letterale formata dalle parole “Villa Manzoni”.

Torniamo comunque a noi.

Rileggete le 270 parole di Negri: in prima istanza l’architetto presenta come “logo” il nuovo simbolo grafico che noi vediamo costituito da due parti ben distinte:

1. un segno propriamente grafico (che nelle intenzioni dovrebbe ricordare il volto di Alessandro Manzoni);
.
2. una espressione letterale formata dalle parole “Villa Manzoni”.

Nel “Progetto Museo Manzoniano” questo nuovo simbolo è indicato dovere «evocare efficacemente l’identità dell’istituzione che rappresenta».
Questa però non viene indicata lasciando disorientato il lettore: il nuovo simbolo è di Villa Manzoni? del Museo Manzoniano? di entrambi?

Dopo poche righe nel “Progetto Museo Manzoniano” si definisce “logo” solo il segno propriamente grafico del nuovo simbolo, ossia la “faccia di Manzoni”.
Immediatamente dopo, questo simbolo/faccia di Manzoni è indicato come “marchio”; le due parole “Villa Manzoni” sono invece indicate come “scritta”.

Di evidenza l’estensore del “Progetto Museo Manzoniano” ha utilizzato un dizionario suo personale, inevitabile fonte di incertezze nella comunicazione e critico sotto il profilo formale.

Non bisogna dimenticare che nel realizzare un marchio è infatti opportuno confrontarsi anche con le leggi per la tutela dei diritti sulla proprietà intellettuale: per queste è cruciale definire con precisione la natura delle diverse componenti di un marchio, ognuna delle quali ha uno statuto tecnico-legale differente (vedi, per esempio, le 13 tipologie di “marchio” definite da EUIPO – European Union Intellectual Property Office / Ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale).

Per consentire al lettore di seguirci in modo consapevole nella nostra analisi, è quindi opportuno definire in via preliminare ciò che si intende con questo o quel termine (la cultura non nasce da coacervi di parole messe a caso).

Da parte nostra ne utilizzeremo esclusivamente due, rifacendoci alla loro etimologia:

pittogramma: dal latino “pictus” (da pingere/dipingere) e dal greco “gramma” che indica “espressione”.
.Con “pittogramma” ci riferiremo quindi a un segno, simbolo figurativo o astratto di una entità che posso vedere e di cui percepisco e posso trasferire ad altri il significato anche senza pronunciarlo.

logotipo: dal greco “logos” che significa “parola” e “typos” che significa “lettera”.

Con “logotipo” indicheremo quindi un segno formato da lettere dell’alfabeto, cifre e altri caratteri in qualunque modo realizzati; un segno che posso pronunciare — nel nostro caso: «Villa Manzoni»;

Utilizzando questi due termini, la parte del marchio che nelle intenzioni vorrebbe rappresentare proprio la fisicità di Manzoni è il “pittogramma” del marchio stesso; la parte del marchio costituita da testo è invece il suo “logotipo”.

Per brevità espressiva, di seguito chiameremo “Marchio MM” la nuova creazione grafica di cui però (repetita iuvant) non sappiamo se è riferita a Villa Manzoni o al Museo Manzoniano.

1.3 / Il nuovo “Marchio MM” misconosciuto dallo stesso Comune di Lecco e ignorato dai media locali.

È certo utile in via preliminare verificare come il nuovo marchio è stato accolto sul territorio e sui media almeno locali.

Vediamo innanzitutto l’accoglienza del committente, il Comune di Lecco.

Leggendo il Comunicato emesso il 25 ottobre 2019 sembrerebbe che il nuovo marchio abbia suscitato perplessità nell’Ufficio Stampa del Comune.

Infatti non solo ne è stato utilizzato solo il pittogramma (il logotipo “Villa Manzoni” è stato dimenticato) ma il pittogramma stesso è stato inserito in deroga alle indicazioni dello Studio diennepierre dell’architetto Negri.

Negri indicava il nero come colore di stampa; anziché nero il pittogramma è stato invece presentato dall’Ufficio Stampa del Comune con un blu marina un po’ sbiadito e sporco.
C’è una qualche ragione dietro questa “anarchia” nella applicazione della linea coordinata?

E sui media come è stato commentato il nuovo marchio?
Ce la caviamo in fretta: non ne ha parlato nessuno.

I casi sono due: o nessuno si è accorto dell’esistenza di un nuovo marchio per Villa Manzoni / Museo Manzoniano — il che non sarebbe un buon viatico per la sua efficacia come simbolo nazionale e internazionale del rinnovato Museo.

Oppure è stato giudicato così inadeguato da suggerire a tutti di non parlarne affatto.

In attesa di una autorevole terza alternativa, continuiamo con la nostra analisi.

1.4 / Al nuovo “Marchio MM” manca l’entità da rappresentare.

Secondo il “Progetto Museo Manzoniano” (p. 41): «Il marchio deve evocare l’identità dell’istituzione che rappresenta.»

Questo elementare e corretto principio della comunicazione presuppone sia chiaro quale istituzione deve essere rappresentata dal nuovo marchio, il che invece è del tutto oscuro al lettore della documentazione e al visitatore del Museo.

D’altra parte sembra che neppure gli estensori del “Progetto Museo Manzoniano” abbiano le idee chiare in proposito.

A p. 31 del documento (a proposito del “banco reception”) infatti scrivono (sottolineature nostre):

«L’unico elemento decorativo è costituito dall’apposizione del logo del museo manzoniano [gli estensori intendono qui il “pittogramma” del marchio, ndr] applicato in caratteri neri sul margine superiore sinistro.»

mentre a p. 39 inseriscono l’elemento “Villa Manzoni”:

«Il progetto della grafica coordinata per il Museo Manzoniano si propone […] L’obiettivo è contemporaneamente finalizzato a sostenere la ri-attualizzazione dell’identità del compendio di Villa Manzoni

A questo punto il lettore non capisce più nulla: cosa rappresenta il nuovo marchio col Manzoni senza faccia? rappresenta solo il Museo o rappresenta l’intera Villa Manzoni?

Evidentemente consapevoli che qualche cosa non quadra gli estensori del progetto hanno sentito il bisogno di allargare il discorso (p. 5):

«Il compendio di Villa Manzoni è inserito nel Sistema Museale Lecchese (Si.M.U.L.) e oltre al Museo Manzoniano comprende: la Galleria comunale d’arte ottocentesca, la sezione separata dell’Archivio di Stato, La Biblioteca Specializzata dei Musei Civici e la Fototeca comunale».

Che significa questa troppo ovvia precisazione?
Significa che il nuovo marchio rappresenterà anche le altre entità che sono a loro volta “parte” di Villa Manzoni, come sembra suggerire il pannello posto all’ingresso del Museo?

Detto in termini di comunicazione: la nuova immagine coordinata predisposta col “Progetto Museo Manzoniano”, rappresenterà, per es., anche la “Galleria Comunale d’Arte – Sezione d’Arte Moderna”, che occupa buona parte del primo piano di Villa Manzoni?

Stando al pannello che accoglie il visitatore entrando nel cortile di Villa Manzoni sembrerebbe proprio di sì: il nuovo marchio tiene infatti sotto la propria giurisdizione sia il “Museo Manzoniano” sia la “Galleria comunale d’Arte moderna”.

E che ne è della “Sezione Separata d’Archivio”? o della “Biblioteca Specializzata dei Musei Civici”? o della “Fototeca”?

Queste strutture sono anch’esse ospitate a Villa Manzoni; sono importanti per la cultura della città; hanno molto a che fare con la funzione di Villa Manzoni come polo museale ma nulla a che vedere direttamente con Manzoni.

Il nuovo marchio senza faccia rappresenterà anche queste strutture? Oppure no? Attendiamo chiarimenti.

Intanto ci sembra di poter dire senza timore di smentita che il giusto principio posto nel “Progetto Museo Manzoniano”, ossia che «Il marchio deve evocare l’identità dell’istituzione che rappresenta» è grossolanamente disatteso dal progetto stesso.

1.5 / Al nuovo “Marchio MM” manca il carattere della unicità.

La funzione ovvia di un marchio è di rappresentare il proprio oggetto in modo il più possibile univoco. Le lotte legali anche milionarie che ogni giorno vengono combattute a livello internazionale riguardano infatti soprattutto la violazione della unicità.

Nel caso del “Marchio MM”, il logotipo “Villa Manzoni” non è per niente univoco. In Italia vi sono infatti almeno altre due “Villa Manzoni”, assolutamente legittime.

La prima è la “Villa Manzoni di Brusuglio” (Cormano, a nove chilometri da Via Morone di Milano — il poeta, buon podista, ci andava anche a piedi), proprio quella dove Manzoni cominciò a comporre il suo romanzo e in cui probabilmente visse per più giorni della sua vita (per inciso, Brusuglio è del tutto ignorato nella informativa del Museo Manzoniano di Lecco).

Villa Manzoni di Brusuglio è privata e non visitabile dal pubblico. È però disponibile — basta pagare — a ospitare “ricevimenti, mostre, pranzi di gala, cene di lavoro, congressi e riunioni di management ad alto livello”.

Il suo sito Web è http://​www​.villa​-manzoni​.it/

La seconda è “Villa Manzoni in Repubblica di San Marino” dei Conti Manzoni-Borghesi, una nobile famiglia sammarinese.
Da questo edificio (a 15 chilometri da Rimini), il cui nucleo più antico risale al XVII secolo, i Manzoni-Borghesi gestivano vaste proprietà terriere. La struttura per secoli immutata, all’inizio del ’900 è stata modificata con la creazione dell’attuale facciata con scalone d’accesso al piano nobile.
Dalla sua inaugurazione (novembre 2013) Villa Manzoni ospita nel suo “Salotto” importanti convegni, mostre ed eventi culturali di diversa natura (tanto per curiosità vedi http://​www​.villamanzoni​.org/​s​a​l​o​t​t​o​v​i​l​l​a​m​a​n​z​o​n​i​/​e​d​i​z​i​o​n​e​-​2​018).

Il suo sito web è www​.villamanzoni​.org

A proposito dei domini Web delle due “Villa Manzoni” concorrenti, è curioso che a suo tempo a nessuno a Lecco sia venuto in mente di acquisire tutti i possibili domini con la combinazione delle parole “Villa” / “Manzoni” “Lecco”: per il Comune pochi Euro all’anno, sicuramente ben spesi.

1.6 / Il nuovo “Marchio MM” non crea alcuna sinergia con Lecco.

Corollario della mancanza di unicità è la nessuna sinergia del nuovo marchio con la città di Lecco.

Viene spesso ripetuto che Villa Manzoni deve costituire un momento di identificazione e riconoscimento della comunità lecchese.
Questo nuovo marchio poteva essere concepito e realizzato anche in quella funzione: molto banalmente sarebbe stato sufficiente inserirvi la parola “Lecco”.

Qualcuno ci ha pensato? o qualcuno ritiene seriamente che quel marchio possa venire automaticamente associato alla città di Manzoni posta sul Lario?

1.7 / Il nuovo “Marchio MM” si ispira a un dipinto poco e male identificato con il Museo di Lecco; di autore sconosciuto, ancorché senza alcuna motivazione indicato in Molteni; di cronologia ignota, comunque di modesta fattura sul piano artistico e di nessun significato per la vicenda manzoniana.

Ricordate le parole del “Progetto Museo Manzoniano” (p. 41) già citate?

«Abbiamo quindi deciso di procedere attraverso la stilizzazione dell’icona per eccellenza del Museo, ovvero il ritratto di Manzoni ad opera del Molteni […]»

Rileggete queste poche parole: recano due affermazioni di peso.

Prima affermazione: il ritratto in questione è la “icona per eccellenza” del Museo Manzoniano, il che è semplicemente una balla, detta consapevolmente per confondere le idee.

Seconda affermazione: il ritratto in questione è “DI” Molteni, ossia è stato indubitabilmente dipinto da Giuseppe Molteni — il che è per l’appunto una semplice “affermazione” ma senza alcuna base documentale a sostegno — ossia è una quasi balla.

Essendo la questione non di poco conto nell’ambito della riflessione su Manzoni, vediamo qui di seguito di fare un poco di chiarezza, attraverso alcuni passaggi.

A — Cominceremo col mostrare che il dipinto in questione non è mai stato una “icona per eccellenza” del Museo Manzoniano di Lecco.

B — In seconda battuta mostreremo che il ritratto viene detto “DI” Molteni dagli attuali dirigenti museali smentendo il Ministero dei Beni Culturali (cui essi fanno istituzionalmente riferimento) che invece si limita a dichiararlo “ATTRIBUIBILE” a Molteni.

C — Passeremo poi a indicare per quali elementi — ambientali, di stile, cronologici — il dipinto non può essere neppure “attribuibile” a Molteni.

D — Mostreremo infine che il dipinto è stato realizzato dopo la morte del pittore milanese.

2. Quel ritratto di Manzoni non è mai stato rappresentativo del Museo Manzoniano di Lecco.

Abbiamo già riportato l’assunto dell’architetto Negri: il nuovo marchio è stato costruito

«attraverso la stilizzazione della icona per eccellenza del Museo, ovvero il ritratto di Manzoni ad opera del Molteni.»

Non appare chiaro in base a quali elementi Negri e i co-estensori del “Progetto Museo Manzoniano” definiscono il ritratto di Manzoni attribuito a Molteni “l’icona per eccellenza del Museo”.

Di seguito mostreremo — documenti alla mano — come questo assunto sia destituito da qualsiasi fondamento: quel dipinto, ora senza ritegno detto “DI” Molteni, non è MAI stato l’icona del Museo Manzoniano di Lecco.

Prima di passare alla illustrazione di questo banale dato di fatto, dobbiamo però fare una digressione terminologica, se non altro per comprendere di che si sta parlando (anche per l’iconografia vale la necessità della precisione nel linguaggio, proprio come in qualsiasi altra disciplina).

Non appare affatto chiaro infatti cosa i realizzatori del marchio intendono per “icona”.
Il termine ha infatti vari significati, nessuno dei quali sembra però congruo con l’uso che essi ne fanno.

Nella scienza generale dei segni, “icona” è una delle determinazioni del “segno”, assieme a “simbolo” e “indice”.

Abbiamo una “icona” quando il segno assomiglia al concetto rappresentato.
Prendendo a esempio la “Madonna con bambino” di Giovanni Bellini vediamo l’immagine di una donna con un bimbo. Lì non è sottesa alcuna convenzione: il significante (ciò che è dipinto sulla tavola) somiglia infatti a una donna che tiene in braccio un bambino.

Abbiamo invece un “simbolo” quando il significante esprime una convenzione ma non assomiglia a un dato di realtà.
L’ufficiale delle guardie di Diocleziano, noto come San Giorgio, non passò i suoi giorni con un disco d’oro attaccato alla testa col vinavil: Mantegna lo ritrasse con un disco dorato sovrastante il capo a indicarne per convenzione la santità, convalidata dalla Chiesa cattolica.

Nella scienza generale dei segni, “icona” è una delle determinazioni del “segno”, assieme a “simbolo” e “indice”.

Abbiamo una “icona” quando il segno assomiglia al concetto rappresentato.
Prendendo a esempio la “Madonna con bambino” di Giovanni Bellini vediamo l’immagine di una donna con un bimbo. Lì non è sottesa alcuna convenzione: il significante (ciò che è dipinto sulla tavola) somiglia infatti a una donna che tiene in braccio un bambino.

Abbiamo invece un “simbolo” quando il significante esprime una convenzione ma non assomiglia a un dato di realtà.
L’ufficiale delle guardie di Diocleziano, noto come San Giorgio, non passò i suoi giorni con un disco d’oro attaccato alla testa col vinavil: Mantegna lo ritrasse con un disco dorato sovrastante il capo a indicarne per convenzione la santità, convalidata dalla Chiesa cattolica.

Da questo punto di vista il ritratto di Manzoni non può in nessun caso essere definito una “icona” del Museo: la faccia di Manzoni non ha nulla a che vedere infatti con la struttura architettonica o il percorso del Museo di Villa Manzoni.
Eventualmente, il ritratto in questione potrebbe essere il “simbolo” del Museo (che è ciò che noi contestiamo).

Ciò detto esclusivamente per rendere possibile il dialogo, mostriamo di seguito che non esiste alcun elemento che possa consentire ai responsabili museali di Lecco e consulenti di affermare che il ritratto di Manzoni detto “DI” Molteni è il “simbolo” del Museo Manzoniano di Lecco.

2.1 / Il ritratto spacciato come “DI” Molteni non è mai stato un simbolo del Museo Manzoniano: donato al Comune di Lecco nel 1987, fino al 2006 è rimasto appeso a un chiodo di Villa Manzoni senza che nessuno ne parlasse neppure di sfuggita.

Come noto (vedi Lombardia Beni Culturali G1050-00567) il dipinto è stato donato al Comune di Lecco dalle Gallerie d’Arte del Credito Valtellinese nel 1987.
Prima di questa donazione, in presunti 140 anni (la cronologia del dipinto è dal 2008 indicata tra il 1840 e il 1860) nella sterminata pubblicistica manzoniana dalla metà Ottocento a oggi, su di esso non è stata individuata neppure la più striminzita notizia.

E dire che si trattava di un piattino potenzialmente succulento; per il Comune e il Sistema Museale di Lecco, che lo ricevettero in dono, un elemento su cui si poteva / doveva avviare un utile percorso di conoscenza e – perché no! — anche di autopromozione.
Curiosamente però non risulta che dal 1987 al 2006 (19 anni quindi) il dipinto sia stato esposto dai Civici Musei di Lecco in una mostra pubblica; o usato in una pubblicazione d’arte o pedagogica; o fatto oggetto di dibattiti relativi a Manzoni o Molteni o all’Ottocento lombardo; o citato dalla stampa di informazione o specializzata; o inserito nella documentazione relativa al Museo Manzoniano di Lecco.

Vi sembra strano? Anche a noi ma è purtroppo così!
Proprio in Lecco, nella città che almeno dalla seconda metà dell’Ottocento è stata unanimemente assimilata al nome di Manzoni, per vent’anni quel dipinto è stato considerato poco intrigante e comunque non meritevole non diciamo di essere preso a simbolo del museo dedicato allo scrittore ma neppure di essere menzionato nella più modesta ricerca.

La cosa è piuttosto curiosa: dato il numero veramente ridotto di dipinti con l’effige di Manzoni, ci si sarebbe aspettati dall’appena costituito Museo Manzoniano di Lecco una qualche attività per la valorizzazione di questo inedito, quanto meno in Lombardia e quanto meno attraverso i canali collaudati della cultura manzoniana.

A Lecco, per esempio, nell’ottobre 1990 (quindi tre anni dopo la generosa donazione del Credito Valtellinese) si tenne il «14º Congresso Nazionale di Studi Manzoniani» (dedicato a Manzoni/Grossi) nel corso del quale il Direttore Gian Luigi Daccò tenne una interessante relazione su Giacomo Maria Manzoni (il poco raccomandabile secentesco avo dello scrittore) mentre Mauro Rossetto (attuale Direttore scientifico del Museo nonché responsabile del nuovo marchio che ha tagliato la faccia a Manzoni) presentò l’ “Archivio” della famiglia Scola, messo a disposizione del Museo.

Entrambi i relatori avrebbero avuto tutto l’agio nel corso dei loro interventi di dire almeno due parole sul ritratto con l’effigie di Manzoni.
E invece nulla: nessuno dei due ne fece neppure un cenno.
D’altra parte Daccò, due anni più tardi, in un suo testo (“Itinerari Manzoniani di Lecco”, Electa, 1992, p. 27), dandolo come “attribuito” a Molteni, si limita a citarne l’esistenza a parete nella Sala VI del Museo.

Anche da parte delle strutture deputate alla conservazione della memoria di Manzoni non sembra vi sia stato il minimo interesse per il ritratto in questione: non risulta per esempio che il Centro Nazionale Studi Manzoniani si sia sbracciato per poterlo ospitare in Via Morone e farne oggetto di una bella conferenza, tenuta magari dal noto “moltenista” / “manzonista” professor Fernando Mazzocca che, con riferimento a Manzoni, non esclude a priori che, dopo il ritratto del 1835 e la conclusione freddina della vicenda, Molteni ne abbia fatto oggetto di altre proprie artistiche attenzioni.
Per esempio, nel marzo del 2019 a Casa del Manzoni di Via Morone in Milano, Mazzocca (avendo come spalla il sempre facondo Presidente del CNSM, Prof. Angelo Stella) ha srotolato tappeti rossi ricamati in oro a un altro “inedito” ritratto di Manzoni, anche questo attribuito a Molteni, anche questo senza uno straccio di documento a supporto — ne parleremo a breve in altra nostra nota specifica.

Già che abbiamo fatto il nome del Professor Mazzocca, ricordiamo che da ottobre 2000 a gennaio 2001 si tenne a Milano in due sedi (Museo Poldi Pezzoli e Museo di Storia Contemporanea) l’esposizione «Giuseppe Molteni (1800-1867) e il ritratto nella Milano romantica: pittura, collezionismo, restauro, tutela», curata proprio da Fernando Mazzocca.

2.2 / Anche nella mostra dedicata a Molteni nel 2000 — la prima dal 1867 — nessun accenno al “Millantato Molteni di Lecco”.

Questa mostra, dalla morte dell’artista (1867) la prima e la più completa dedicata interamente a Molteni, avrebbe potuto rappresentare una formidabile occasione per presentare al vasto pubblico un supposto inedito del ritrattista milanese riportante l’effigie del Manzoni, notoriamente uno dei più vigili nel non dare la propria immagine in pasto ai virtuosi del bulino, attenti solo al business delle grandi tirature calcografiche.

Nella mostra del 2000 Mazzocca si limitò invece a presentare il già noto ritratto del 1835 (quello commissionato da Massimo d’Azeglio e steso a due mani da Molteni e d’Azeglio stesso) che nel 1951, dopo essere rimasto per oltre un secolo segregato nelle dimore dei vari discendenti di d’Azeglio, venne per la prima volta mostrato al pubblico in occasione della “Mostra Manzoniana” allestita presso la Biblioteca Braidense di Milano.

Il dipinto venne poi donato dai discendenti di d’Azeglio alla Braidense stessa e da allora è visibile — purtroppo malamente — proprio all’ingresso della Sala Manzoniana.

Per questo ritratto Molteni / d’Azeglio 1835, nel Catalogo della mostra Mazzocca sceglieva di attirare l’attenzione su una lettera di Manzoni a Molteni del 6 settembre 1835 nella quale lo scrittore diffidava il pittore dal presentare il ritratto al pubblico.

Ma Mazzocca non faceva neppure un accenno a quell’altro ritratto, dal 1987 nelle disponibilità del Museo Manzoniano di Lecco.

Facile la conclusione: non solo in Lecco ancora nel 2000 nessuno pensava che quel mediocre dipinto potesse costituire un “simbolo” del cittadino Museo Manzoniano ma evidentemente anche Mazzocca riteneva che non potesse essere in alcun modo collegato a Molteni.

State tranquilli: vi fosse stato un minimo di margine, il critico/professore, che da decenni ha fatto della iconografia manzoniana uno dei punti di forza del proprio posizionamento cultural/professionale, ci si sarebbe buttato a pesce, presentando alla sua comunque interessante mostra su Molteni l’inedito ritratto.

Prima di lasciare questo capitoletto dedicato alla mostra su Molteni del 2000 e tornare al nostro “Millantato Molteni di Lecco”, ci corre l’obbligo di segnalare (per puro spirito di servizio, si intende, e a futura memoria) un errore piuttosto grossolano presente nel Catalogo della mostra stessa.

A p. 24 è riportato un dipinto di d’Azeglio la cui dida recita: «Massimo d’Azeglio / Veduta del ramo di Lecco con lo sfondo del Resegone, 1835 circa / Milano, collezione privata.»
Si tratta di un evidente abbaglio: il paesaggio ripreso da d’Azeglio riguarda l’altro ramo del Lago, quello di Como, con l’isola Comacina come è vista da appena sopra Bellagio; va da sé che i monti sullo sfondo nulla hanno a che vedere con il Resegone.

Curioso che i proprietari del dipinto abbiano lasciato correre questa corbelleria (si poteva sempre inserire un “errata corrige”) e ancor più che i curatori della mostra non si siano accorti dell’abbaglio, tanto più avendo sotto il naso nella medesima pagina il ritratto di Molteni/d’Azeglio del 1835, questo sì caratterizzato dal paesaggio lariano.

2.2 / Anche nella mostra dedicata a Molteni nel 2000 — la prima dal 1867 — nessun accenno al “Millantato Molteni di Lecco”.

Questa mostra, dalla morte dell’artista (1867) la prima e la più completa dedicata interamente a Molteni, avrebbe potuto rappresentare una formidabile occasione per presentare al vasto pubblico un supposto inedito del ritrattista milanese riportante l’effigie del Manzoni, notoriamente uno dei più vigili nel non dare la propria immagine in pasto ai virtuosi del bulino, attenti solo al business delle grandi tirature calcografiche.

Nella mostra del 2000 Mazzocca si limitò invece a presentare il già noto ritratto del 1835 (quello commissionato da Massimo d’Azeglio e steso a due mani da Molteni e d’Azeglio stesso) che nel 1951, dopo essere rimasto per oltre un secolo segregato nelle dimore dei vari discendenti di d’Azeglio, venne per la prima volta mostrato al pubblico in occasione della “Mostra Manzoniana” allestita presso la Biblioteca Braidense di Milano (venne poi donato dai discendenti di d’Azeglio alla Braidense stessa e da allora è visibile — purtroppo malamente — proprio all’ingresso della Sala Manzoniana).

Per questo ritratto Molteni / d’Azeglio 1835, nel Catalogo della mostra Mazzocca sceglieva di attirare l’attenzione su una lettera di Manzoni a Molteni del 6 settembre 1835 nella quale lo scrittore diffidava il pittore dal presentare il ritratto al pubblico.

Ma Mazzocca non faceva neppure un accenno a quell’altro ritratto, dal 1987 nelle disponibilità del Museo Manzoniano di Lecco.

Facile la conclusione: non solo in Lecco ancora nel 2000 nessuno pensava che quel mediocre dipinto potesse costituire un “simbolo” del cittadino Museo Manzoniano ma evidentemente anche Mazzocca riteneva che non potesse essere in alcun modo collegato a Molteni.

State tranquilli: vi fosse stato un minimo di margine, il critico/professore, che da decenni ha fatto della iconografia manzoniana uno dei punti di forza del proprio posizionamento cultural/professionale, ci si sarebbe buttato a pesce, presentando alla sua comunque interessante mostra su Molteni l’inedito ritratto, quanto meno come incognita su cui lavorare.

Prima di lasciare questo capitoletto dedicato alla mostra su Molteni del 2000 e tornare al nostro “Millantato Molteni di Lecco”, ci corre l’obbligo di segnalare (per puro spirito di servizio, si intende, e a futura memoria) un errore piuttosto grossolano presente nel Catalogo della mostra stessa.

A p. 24 è riportato un dipinto di d’Azeglio la cui dida recita: «Massimo d’Azeglio / Veduta del ramo di Lecco con lo sfondo del Resegone, 1835 circa / Milano, collezione privata.»

Si tratta di un evidente abbaglio: il paesaggio ripreso da d’Azeglio riguarda l’altro ramo del Lago, quello di Como, con l’isola Comacina come è vista da appena sopra Bellagio; va da sé che i monti sullo sfondo nulla hanno a che vedere con il Resegone.

Curioso che i proprietari del dipinto abbiano lasciato correre questa corbelleria (si poteva sempre inserire un “errata corrige”) e ancor più che i curatori della mostra non si siano accorti dell’abbaglio, tanto più avendo sotto il naso nella medesima pagina il ritratto di Molteni/d’Azeglio del 1835, questo sì caratterizzato dal paesaggio lariano.

2.3 / La timida svolta del 2006: il dipinto viene per la prima volta presentato a una mostra pubblica.
Il prof. Mazzocca gli assegna l’autografia molteniana, ma in modo quasi clandestino.

Nel 2006, nella storia del “Millantato Molteni di Lecco” si verifica una piccola svolta verso una qualche forma di riconoscimento culturale: ben 19 anni dopo la sua acquisizione da parte dei Civici Musei di Lecco il dipinto viene infatti presentato in una pubblica esposizione indicandone in Giuseppe Molteni il presunto autore.

Purtroppo con modalità non esaltanti, non solo per Molteni o per Manzoni ma per la dignità della cultura in generale. Vediamo perché.

A fine 2006 si svolse a Milano la mostra “Il Manzoni illustrato” (Biblioteca di Via Senato, sett. 2006-genn. 2007) ideata e organizzata dalla Biblioteca stessa in collaborazione con: Centro Nazionale Studi Manzoniani; Biblioteca Braidense Milano; Comune di Lecco – Musei Civici; con la collaborazione scientifica, tra gli altri, di Gian Luigi Daccò (allora Direttore di Villa Manzoni di Lecco) e Fernando Mazzocca, noto manzonista / moltenista.

Nei tre saggi introduttivi del Catalogo della mostra (rispettivamente a firma di Mazzocca, Daccò e Gianmarco Gaspari, allora Direttore del Centro Nazionale Studi Manzoniani) del ritratto “di Lecco” non si dice assolutamente nulla.
Se ne dice un qualche cosa solo alla p. 71, nella sezione “Opere esposte” con didascalia incompleta e brevissimo testo di presentazione (ci sembra di poter dire a cura di Barbara Cattaneo).

Preliminarmente a ogni commento, è opportuno segnalare (sempre per spirito di servizio e a futura memoria) un pacchiano errore redazional-tipografico nel Catalogo della mostra: l’immagine del ritratto è stata infatti ribaltata specularmente.

Proponiamo sia il dipinto come è nella realtà — e come doveva parecchie volte al giorno capitare sotto il naso dell’allora Direttore di Villa Manzoni — sia la pagina 71 del Catalogo, che mostra il dipinto con l’immagine ribaltata.

Va da sé che tutti possono sbagliare ma in questo caso l’errore ci sembra cosa diversa da una svista: sembrerebbe piuttosto un caso di cecità isterica da senso di colpa.

Perché il lettore non pensi che stiamo calcando la mano, lo invitiamo a leggere con attenzione sia la didascalia sia il testo di presentazione — in effetti c’è di che sentirsi in colpa.

La didascalia recita:

«Giuseppe Molteni (Affori, Milano 1800 – Milano 1867) / Ritratto di Alessandro Manzoni, olio su tavola, cm 50×30 / Lecco, Villa Manzoni.»

Questo invece il testo di presentazione (chiamiamolo così):

«Insieme all’immagine “ufficiale”, dipinta da Hayez (Milano, Pinacoteca di Brera) e al ritratto dello stesso Molteni (con lo sfondo di Massimo d’Azeglio, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense), è questa una delle rare immagini di Manzoni: lo scrittore era piuttosto ritroso nel farsi effigiare.
Ritrattista alla moda dell’aristocrazia e della borghesia lombarde, Molteni è anche autore di dipinti socialmente dirompenti, come “Lo Spazzacamino”, autentica svolta nella storia della pittura di genere di metà Ottocento.»

Chiediamo al lettore di rileggere le poche righe con cui Mazzocca e Daccò hanno ritenuto di potere presentare un nuovo e “inedito” ritratto — per la prima volta detto “DI” Molteni: nel loro piccolo sono un esempio di voluta disinformazione che vale la pena di sottolineare (diciamo “voluta” perché i due curatori erano / sono del mestiere e conoscono perfettamente l’obbligatorietà di certe informazioni a supporto di una dichiarazione di autografia).

Né nel testo né nella didascalia si fa alcun riferimento all’anno di presunta composizione del dipinto e neppure viene svolta alcuna considerazione sulla sua storia o sul suo significato; sul come debba essere considerato nella ritrattistica del Manzoni (da contare su una sola mano); sul suo iter proprietario (eppure era stato ufficialmente donato dal Credito Valtellinese nel 1987 — o no?); non viene neppure proposta una sola osservazione stilistica — tutti elementi d’obbligo ad accompagnamento della prima uscita pubblica di un’opera mai citata in alcun commento critico in presunti 150 anni di esistenza.
Curioso vero?

In compenso, forse per riempire il vuoto del deserto documentale e critico delle prime tre righe, si cerca con le due successive e conclusive di dare una verniciata di “sensibilità sociale” a Molteni. Riprendiamo la frasetta: «Molteni è anche autore di dipinti socialmente dirompenti, come “Lo Spazzacamino”».

Ci pare proprio un tentativo (né nobile né accorto per la verità) di far passare la non motivata attribuzione dell’autografia del ritratto a Molteni con una strampalata mozione degli affetti.

Con quelle due righe di testo è come se Mazzocca e Daccò avessero voluto dirci: è vero, nel 1835 Manzoni prese a pesci in faccia Molteni scrivendogli chiaro e tondo di stargli alla larga.
Ma Molteni era così commosso dai temi sociali messi in luce nel romanzo di Manzoni da non darsene per inteso e volere comunque lasciare una sua nuova rappresentazione del grande scrittore (ma all’insaputa di questo naturalmente); per di più proponendolo con una faccia impietrita, forse vista come obbligatoria con l’alto ruolo di illustratore dei disagi sociali ricoperto dallo scrittore, del resto denunciati dallo stesso pittore Molteni “in modo dirompente”, come apparirebbe nel dipinto “Lo Spazzacamino” del 1837.

Peccato che “Lo Spazzacamino” del 1837, ennesimo prodotto di un filone pittorico su cui Molteni si era già esercitato anche anni prima, fosse stato commissionato al pittore milanese da Von Kolowrat, allora Ministro dell’Interno e membro del comitato segreto che reggeva l’Impero d’Austria all’ombra dell’incapace Ferdinando I.
Lo stesso Kolowrat e lo stesso comitato che di fronte al montare delle rivendicazioni di autonomia nazionale e sociali, nel 1848 non seppero far di meglio che dare via libera ai vari Radetsky, scatenando — tra le tante altre in tutti i domini austriaci — la rivolta delle 5 Giornate di Milano (oltre 400 morti tra la popolazione).

Non è difficile comprendere come gli interessi e le aperture di Kolowrat per i problemi sociali fossero piuttosto tenui. Così come lo erano del resto in Molteni, sempre pronto, e sempre senza tanti problemi, ai desiderata del potente di turno. Se Molteni fosse stato interessato ai problemi sociali, avrebbe trovato fonte di ispirazione in ogni bottega da artigiano di Milano e, appena fuori, nei tanti stabilimenti proto-industriali con al lavoro per 12 ore e con salari da miserabili (parliamo dei padroni naturalmente) bambini e bambine anche di otto anni.

Benché sembri di essere in uno dei peggiori “scherzi a parte”, è questo il senso del come il “Millantato Molteni di Lecco” è stato presentato per la prima volta al pubblico.

Ma chi se ne impippa!
Evidentemente si voleva solo che quel mediocre dipinto sfigurante Manzoni trovasse miracolosamente un autore di prestigio, identificato senza se e senza ma in Giuseppe Molteni, con la garanzia etico-culturale del massimo critico moltenian/manzoniano d’Italia.

L’operazione sorprende ancor più considerando che in quella mostra del 2006 erano esposti solo due ritratti di Manzoni, entrambi proposti come “di” Molteni.

Uno era il dipinto di cui ci occupiamo, l’altro era invece il noto ritratto di Manzoni eseguito nel 1835 da Molteni/d’Azeglio, con un interessante paesaggio di Lecco, di cui abbiamo già parlato sopra.

Sarebbe stato certo interessante nel 2006 confrontare i due dipinti e rilevarne la profonda differenza sia nello stile pittorico sia nella sensibilità mostrata dal presunto comune artista nei confronti del medesimo soggetto ripreso a distanza di qualche anno, come suggerirebbe l’età decisamente matura di Manzoni nel ritratto di pertinenza di Villa Manzoni di Lecco.

E sarebbe stato interessante considerare con quale faccia tosta Molteni si sarebbe messo a vendere ritratti di Manzoni dopo esserne stato diffidato dallo stesso.

Anche in questo Catalogo del 2006, Mazzocca descrive la vicenda del 1835 ma non fa nessun collegamento con quest’altro dipinto “lecchese”, da lui arruolato nella scuderia molteniana con una semplice affermazione — prendere o lasciare.

A fronte di questo silenzio dei curatori, non è certo un caso che la stampa a commento dell’evento non abbia a sua volta fatto parola dell’inedito ritratto attribuito a Molteni in forme così curiose.

Solo come esempio ricordiamo che il Corriere della Sera dedicò alla mostra un discreto spazio ma né nel corpo dell’articolo principale né nella rubrichetta “La curiosità”, sotto il banalissimo titolo «Don Lisander odiava farsi ritrarre. Fino a che …» mentre viene dato risalto al ritratto Molteni/d’Azeglio del 1835, neppure una mezza parola venne scritta a proposito di quel dipinto naturalizzato lecchese, uscito dalle ombre della storia e battezzato spudoratamente come “di” Molteni da un critico d’arte del calibro di Mazzocca.

Ci sembra di poter dire quindi che al settembre 2006 il nostro “Ritratto di Manzoni”, spacciato ora nel “Progetto Museo Manzoniano” come “DI” Molteni e come la “icona per eccellenza del Museo Manzoniano”:

1. non godeva di alcuna attenzione da parte né del mondo manzoniano né della stessa direzione museale lecchese di cui era proprietà;
.
2. nessuno aveva pensato neppure a una vaga ipotesi per la sua cronologia;
.
3. alla sua prima uscita pubblica non aveva suscitato alcun interesse nei commentatori d’arte.

A fronte di questo silenzio dei curatori, non è certo un caso che la stampa a commento dell’evento non abbia a sua volta fatto parola dell’inedito ritratto attribuito a Molteni in forme così curiose.

Solo come esempio ricordiamo che il Corriere della Sera dedicò alla mostra un discreto spazio ma né nel corpo dell’articolo principale né nella rubrichetta “La curiosità”, sotto il banalissimo titolo «Don Lisander odiava farsi ritrarre. Fino a che …» mentre viene dato risalto al ritratto Molteni/d’Azeglio del 1835, neppure una mezza parola venne scritta a proposito di quel dipinto naturalizzato lecchese, uscito dalle ombre della storia e battezzato spudoratamente come “di” Molteni da un critico d’arte del calibro di Mazzocca.

Ci sembra di poter dire quindi che al settembre 2006 il nostro “Ritratto di Manzoni”, spacciato ora nel “Progetto Museo Manzoniano” come “DI” Molteni e come la “icona per eccellenza del Museo Manzoniano”:

1. non godeva di alcuna attenzione da parte né del mondo manzoniano né della stessa direzione museale lecchese di cui era proprietà;
.
2. nessuno aveva pensato neppure a una vaga ipotesi per la sua cronologia;
.
3. alla sua prima uscita pubblica non aveva suscitato alcun interesse nei commentatori d’arte.

In compenso questo dipinto con l’effige di Manzoni, così evidentemente poco valutato dai suoi stessi proprietari, era però riuscito ad acchiappare il riconoscimento di una autografia molteniana (ancorché non provata e neppure discussa) da parte del critico d’arte più “manzonista“ e “moltenista” d’Italia.

Ma andiamo avanti.

2.4 / Il Direttore Daccò puntella con una cronologia di fantasia l’autografia molteniana benedetta di imperio da Mazzocca.

Nel 2008, a cura del Sistema Museale Urbano Lecchese (SiMUL) e con la firma di Gian Luigi Daccò venne pubblicato un opuscoletto di 24 pagine titolato “Il Museo Manzoniano a Lecco” (il libretto viene tuttora venduto essendo l’unico documento informativo sul Museo disponibile per il pubblico — quando si dice la cura per la comunicazione!).

Negli elementi di più immediata attenzione per il lettore non troviamo il ritratto di Manzoni detto “di” Molteni: la prima di copertina riporta la fotografia della facciata di Villa Manzoni; la quarta riproduce un dipinto della seconda metà dell’800 di Anonimo, raffigurante Pescarenico.
La prima pagina del testo è occupata da una fotografia del “Salone delle Grisaglie” (e dal nome del Direttore).

Del dipinto in questione si parla solo a p. 14 con 10 parole che enfatizzano l’autografia molteniana, regalata da Mazzocca con zero argomenti:
«Sulla parte di fronte […] il noto ritratto di Manzoni di Giuseppe Molteni (Milano 1800-1867) e a lato un bronzo [ecc.]».

A p. 17, nel capitolo “La famiglia di Alessandro Manzoni”, il ritratto viene riportato con la didascalia: «Giuseppe Molteni, Ritratto di Alessandro Manzoni, 1845».

La sua rappresentazione grafica (questa volta è stampato nel verso giusto) è puramente enunciativa: è solo una delle 14 illustrazioni dell’opuscoletto, proposta senza alcuna particolare evidenza e senza che nel testo se ne faccia il minimo accenno.

Da questi elementi si può dedurre che, nonostante l’asserita autografia molteniana benedetta da Mazzocca nel 2006, due anni dopo, nel 2008, quel ritratto di Manzoni non era comunque visto dalla stessa Direzione di Villa Manzoni non diciamo come la “icona per eccellenza” del Museo (come ora sostengono il trio Rossetto-Cattaneo-Negri) ma neppure come un elemento da mettere particolarmente in luce: nessun riferimento alla sua origine; nessuna valutazione stilistica.

L’unico elemento “innovativo” rispetto al vergognoso nulla della presentazione a Catalogo vista poco sopra, è la cronologia dell’opera: nel 2008 Daccò scrive — senza alcuna riserva — “1845”: ne ammiriamo il coraggio e lo sprezzo del buon senso.

Sulla base di quali elementi infatti il Direttore di Villa Manzoni pensò nel 2008 di potere essere così preciso nell’indicare la cronologia del dipinto al 1845?

Essendosi dimenticato Daccò di farci dono di una qualche motivazione a sostegno, rispondiamo noi: NESSUN ELEMENTO, se non forse una vena fantastica meneghino-lariana.

2.5 / Audacemente incongrua la cronologia dettata da Daccò.

Nel 1845 erano passati quattro anni da quando Hayez aveva realizzato il suo notissimo ritratto di Manzoni (1841), ricordato come “della tabacchiera” e custodito dalla Pinacoteca di Brera (ne mostriamo solo il particolare del volto).
Il ritratto era stato autorizzato (anzi commissionato a Hayez da Teresa Stampa, seconda moglie di Manzoni, e dal di lei figlio Stefano) ma riservato alla visione di amici stretti e parenti.
Solo dopo la morte di Manzoni se ne fece realizzare — sempre da Hayez — una copia perfetta come dotazione per la Pinacoteca di Brera che la rese subito disponibile al pubblico — anche da ciò la sua grande notorietà.

Il ritratto di Hayez del 1841 venne giudicato da familiari e amici di Manzoni (e da Manzoni stesso) come straordinariamente somigliante sia nel carattere psicologico che nella fisionomia (vedendo il quadro, Gonin si rivolse celiando alla moglie di Manzoni: “questa è bigamia!”).

Dall’alto: Hayez 1841; Stampa 1848; il “Millantato Molteni di Lecco” da Daccò datato al 1845.

Dall’alto: Hayez 1841; Stampa 1848; il “Millantato Molteni di Lecco” da Daccò datato al 1845.

Nel bel disegno realizzato da Stefano Stampa nel 1848 (il nostro non era un genio della pittura ma aveva un certo mestiere) l’espressione di Manzoni è straordinariamente simile a quella colta da Hayez e anche i segni dell’età sono poco più accentuati (si noti comunque la piega all’ingiù delle labbra).

Nel ritratto di Lecco attribuito a Molteni e datato da Daccò al 1845, nonostante alcuni trucchetti infantili del pittore tesi forse a ringiovanire l’effigiato (l’ampia bocca dalle labbra sottili di Manzoni è diventata una boccuccia di rosa) l’effigiato appare come un uomo almeno con vent’anni in più di quello ripreso da Hayez nel 1841 e parecchio più maturo di quello ripreso da Stampa nel 1848.

Ma soprattutto appare come un “altro” uomo: ha un’espressione legnosa, tra lo schifato e il risentito, forse perché sembra che gli abbiano appena dato un cazzotto sullo zigomo sinistro.
Lo sguardo è fisso in modo innaturale; tutto il contrario dell’atteggiamento sempre un poco bonariamente distaccato di Manzoni, colto benissimo da Hayez e ricordato da tutti i frequentatori abituali dello scrittore.

Come il Direttore del Museo Manzoniano potesse scrivere che il ritratto di Lecco attribuito a Molteni potesse rappresentare nel 1845 lo stesso uomo effigiato da Hayez nel 1841 e da Stampa nel 1848 è un interessante quesito che solo Daccò potrà sciogliere (attendiamo fiduciosi).

2.6 / Sempre nel 2008 SiMUL / Lombardia Beni Culturali / MiBACT contraddicono il Direttore di Villa Manzoni.
Scrivono: il dipinto non è “DI” Molteni, semmai è a lui “attribuibile”.
Ma ne danno una cronologia senza senso: 1840-1860.

Forse preoccupati dalla ingenua cronologia di Daccò (o forse senza neppure rendersene conto), nel quadro della iniziativa di catalogazione del patrimonio artistico coordinato da SIRBeC – Sistema Informativo dei Beni Culturali di Regione Lombardia (che lo rende pubblico attraverso il portale “Lombardia Beni Culturali”), funzionari SiMUL nel medesimo anno 2008 compilano la “Scheda OARL_G1050-00567” relativa al ritratto di cui parliamo, bocciando sia l’autografia molteniana (patrocinata da Mazzocca/Daccò nel 2006 e confermata da Daccò nel 2008) sia la cronologia donataci da Daccò nel fascicolo del 2008 appena citato.

Ancorché non motivata, la bocciatura dell’autografia molteniana appare come sacrosanta.
La cronologia viene invece dilatata in modo ridicolo, vanificando ogni tentativo di una discussione seria.

La redazione della Scheda è del Sistema Museale di Lecco (Giovanna Virgilio ne fece semplicemente l’imputazione), validata dal “funzionario responsabile” Barbara Cattaneo (con Rossetto e Negri uno degli estensori del “Progetto Museo Manzoniano”, oggetto di questa nostra serie di note critiche); la Scheda viene confermata nel 2014 sempre da Cattaneo, questa volta come “Referente scientifico”.

Nella Scheda OARL_G1050-00567 (che deve essere considerata come il documento ufficiale cui le funzioni pubbliche sono tenute a riferirsi) a proposito dell’autore; della cronologia del ritratto; delle fonti storico-critiche così si scrive (evidenziazioni nostre):
«Molteni, Giuseppe / Riferimento all’autore: attribuzione / Motivazione dell’attribuzione: analisi stilistica / Data: dal 1840 al 1860. Motivazione cronologia: contesto / Notizie storico-critiche: Il dipinto, acquisito per donazione nel 1987 dalla Galleria del Credito Valtellinese, è stato esposto a Milano, presso la Biblioteca di Via Senato (28 settembre 2006 – 28 gennaio 2007) in occasione della mostra “Il Manzoni illustrato”. Nel relativo catalogo si legge: “Insieme all’immagine ufficiale dipinta da Hayez (Milano, Pinacoteca di Brera) e al ritratto dello stesso Molteni (con lo sfondo di Massimo D’Azeglio, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense), è questa una delle rare immagini di Manzoni: lo scrittore era piuttosto ritroso nel farsi effigiare…” (Manzoni illustrato, 2006, p. 71).»

Pur nella sua aridità burocratica e nella ripetizione acritica della indegna descrizione del Catalogo Mazzocca/Daccò del 2006 già citato sopra, la Scheda convalidata nel 2008 dalla Referente Scientifica Cattaneo di SiMUL (convalidata dal Ministero competente — allora MiBACT) dice chiaro e tondo che:
l’autografia del dipinto e la sua cronologia non sono definibili in base ad alcun documento verificabile e condivisibile.

Anche un bambino comprende infatti che, in mancanza di un qualsivoglia loro contenuto, le espressioni/etichetta “attribuzione, in base all’analisi stilistica”, “cronologia 1840-1860 in base al contesto”, significano semplicemente che gli estensori della Scheda:

a. non avevano alcun elemento documentale cui fare riferimento;
.
b. si sono limitati a ripetere la insulsa frasetta del Catalogo Mazzocca/Daccò guardandosi dal fare anche il minimo sforzo di analisi critico-storica;
.
c. per la cronologia hanno adottato il criterio dell’assurdo.

Bisogna però riconoscere che la debolezza critico-documentale della bocciatura della autografia molteniana sostenuta da Mazzocca/Daccò ha almeno avuto come risultato la conversione critico-artistica di quest’ultimo.
Non ci risulta infatti che il Direttore del Museo Manzoniano di allora, il dottor Gian Luigi Daccò, abbia avviato un ricorso amministrativo contro la sua collega/collaboratrice (il Referente scientifico dottoressa Barbara Cattaneo) per avere scritto chiaro e tondo — con l’avallo della Regione Lombardia e del Ministero competente — che le sue affermazioni (di Daccò) su autografia e cronologia del dipinto erano solo aria fritta.

Possiamo quindi dedurne che:

l’ipotesi alla base del nuovo marchio del Museo Manzoniano — ossia essere il dipinto “di” Molteni — condivisa nel 2019 dalla medesima Barbara Cattaneo che nel 2008 e nel 2014 la aveva negata, non ha alcun valore;
.
che, riportati correttamente i termini della questione, qualunque ulteriore affermazione di autografia molteniana non motivata con documenti condivisibili non solo non ha alcun valore ma appare anche una voluta menzogna.

Ne tengano conto Mauro Rossetto (Direttore scientifico del Museo Manzoniano, e primo responsabile della riproposizione al pubblico della già ricordata aria fritta); Simona Piazza (Assessore alla Cultura, garante politico-istituzionale della medesima somministrazione); Virginio Brivio, che come Sindaco della città è inevitabilmente il responsabile in capo di tutta la farsa relativa al nuovo marchio.

E dopo la “retrocessione” decisa nel 2008 da Lombardia Beni Culturali — MiBACT che è accaduto di quel dipinto? Come è stato poi considerato?

2.7 / Tira e molla: nel 2014, il ritratto è sugli stendardi della città ma nel 2015 viene cancellato dalla sua simbologia pubblica.

Nel 2014, per la rassegna “Lecco città del Manzoni” (l’ultima con questa denominazione), vennero realizzati alcuni stendardi in tela la cui scritta era appunto “Lecco città del Manzoni” e l’immagine il nostro ritratto “attribuibile a Molteni, 1840-60”.

Un paio di questi stendardi vennero posti ai lati del cancello di ingresso del Museo (allora si entrava dal cortile “rustico”).
Questi stendardi rimasero lì appesi a lungo anche quando la rassegna mutò di nome, non sappiamo se per inerzia o come sotterranea forma di resistenza al parricidio culturale commesso nel 2014.

Si ricorderà infatti che in quell’anno, su iniziativa dell’allora Assessore alla Cultura Michele Tavola e in vista di Expo 2015, venne approvata in Comune la Delibera Numero 161 del 18.9.2014 con cui si mutava il nome del festival da “Lecco città del Manzoni” in “Lecco, città dei Promessi Sposi” — una data da ricordare come l’inizio della liquidazione della figura storica di Manzoni dalla cultura della città.

Da quel momento quel ritratto, connotante nel 2014 la manifestazione, venne sostituito da un insignificante marchio stile fumetto risibilmente rappresentante Renzo e Lucia, a conferma che l’orizzonte manzoniano in Lecco veniva limitato al solo romanzo, cancellando il contributo di Manzoni alla poesia, alla lingua, alla storia, al diritto, alla politica, alla religione.

Una scelta inconcepibile ispirata forse dall’idea di imitare Verona che veleggia sul piano turistico con il duo Giulietta e Romeo.
Di fatto un suicidio culturale in piena regola.

Il ritratto di Manzoni, di Molteni o no, venne comunque cancellato dalla simbologia pubblica della città.
E poi, che ne fu?

2.7 / Tira e molla: nel 2014, il ritratto è sugli stendardi della città ma nel 2015 viene cancellato dalla sua simbologia pubblica.

Nel 2014, per la rassegna “Lecco città del Manzoni” (l’ultima con questa denominazione), vennero realizzati alcuni stendardi in tela la cui scritta era appunto “Lecco città del Manzoni” e l’immagine il nostro ritratto “attribuibile a Molteni, 1840-60”.

Un paio di questi stendardi vennero posti ai lati del cancello di ingresso del Museo (allora si entrava dal cortile “rustico”).
Questi stendardi rimasero lì appesi a lungo anche quando la rassegna mutò di nome, non sappiamo se per inerzia o come sotterranea forma di resistenza al parricidio culturale commesso nel 2014.

Si ricorderà infatti che in quell’anno, su iniziativa dell’allora Assessore alla Cultura Michele Tavola e in vista di Expo 2015, venne approvata in Comune la Delibera Numero 161 del 18.9.2014 con cui si mutava il nome del festival da “Lecco città del Manzoni” in “Lecco, città dei Promessi Sposi” — una data da ricordare come quella dell’inizio della liquidazione della figura storica di Manzoni dalla cultura della città.

Da quel momento quel ritratto, connotante nel 2014 la manifestazione, venne sostituito da un insignificante marchio stile fumetto risibilmente rappresentante Renzo e Lucia, a conferma che l’orizzonte manzoniano in Lecco veniva limitato al solo romanzo, cancellando il contributo di Manzoni alla poesia, alla lingua, alla storia, al diritto, alla politica, alla religione.

Una scelta inconcepibile ispirata forse dall’idea di imitare Verona che veleggia sul piano turistico con il duo Giulietta e Romeo.
Di fatto un suicidio culturale in piena regola.

Il ritratto di Manzoni, di Molteni o no, venne comunque cancellato dalla simbologia pubblica della città.
E poi, che ne fu?

2.8 / Continua l’altalena.
Nel 2018 una volenterosa rianimazione: dalla critica d’arte Bartolena il ritratto è addirittura dichiarato «firmato da Molteni».

Dopo un lustro di melanconico oblio, il ritratto “attribuito a Molteni, 1840-1860” è stato riportato a nuova e più luminosa vita.

A Lecco (dal 20 ottobre 2019 al 20 gennaio 2019) si è tenuta la mostra “Ottocento Lombardo”, patrocinata dal Comune di Lecco, organizzata dalla società ViDi Srl di Milano e curata dall’esperta d’arte Simona Bartolena (su questa mostra vedi il nostro commento, Ottocento Lombardo a Lecco: occasione sprecata).

In questa mostra il nostro dipinto, dal Referente scientifico Cattaneo ufficialmente solo “attribuibile” a Molteni, è stato presentato al pubblico nuovamente come “DI” Molteni, dandogli il posto d’onore all’inizio della mostra nella sezione “Omaggio a Manzoni”.

È da notare che, evidentemente sulla base di una analisi ben ponderata, la critica d’arte Simona Barlolena non solo ha ignorato la Scheda ufficiale (in cui il dipinto è definito solo “attribuibile” a Molteni) ma non si è risparmiata e con sprezzo del ridicolo, sul pannello di presentazione che mostriamo ha scritto (sottolineatura nostra):

«Accanto al Ritratto di Manzoni firmato da Giuseppe Molteni è esposta la splendida versione di Francesco Hayez della Monaca di Monza, soggetto apprezzatissimo dai pittori del tempo.».

Il visitatore, leggendo queste parole, si è certo convinto che di fronte ai suoi occhi era esposto un ritratto inedito di Manzoni che il pittore Molteni aveva voluto connotare apponendovi la propria firma (cosa per lui inusuale).
È vero che anche a guardare con attenzione il visitatore non riusciva a distinguere bene dove fosse quella firma di Molteni, ma se lo aveva scritto l’esperta d’arte Bartolena, da qualche parte quella firma doveva sicuramente esserci (scherziamo naturalmente, ma non troppo: in certi ambiti il traslato non può essere usato a vanvera).

In quella mostra “Ottocento Lombardo” il dipinto “La Monaca” era stato presentato come “di” Hayez sulla base di una perizia del Professor Mazzocca.
Il ritratto di Manzoni era invece dichiarato da Bartolena come “firmato” da Molteni.

Grazie a una nostra analisi documentata e conclusiva (che per altri aspetti ci aveva attirato da parte della Bartolena una minaccia di querela) quel dipinto “La Monaca” è risultato NON di Hayez ma di autore tutto da definire (vedi qui il nostro commento).

Chiediamo al lettore di seguirci ancora un poco per comprendere come del pari l’autografia molteniana del Ritratto di Manzoni, ribadita oltre che da Mazzocca e Daccò anche da Bartolena, sia destituita di qualsivoglia fondamento.

Nel caso il lettore ritenga che da parte nostra vi sia troppa insistenza su questi “dettagli” nel definire l’autografia di un ritratto di cui tutto sommato nessuno parla, qui sotto mostriamo come seguendo l’esempio di stimati critici e storici dell’arte (come sono indubitabilmente Mazzocca e Bartolena) che enunciano attribuzioni senza preoccuparsi di portare il minimo argomento a sostegno, alcuni soggetti possono sentirsi a loro volta autorizzati a questa o quella del tutto gratuita affermazione, in una parossistica gara a chi le spara più grosse.

2.9 / A oggi, fine luglio 2020, il “Millantato Molteni di Lecco” è stato arricchito di nuove fantastiche determinazioni proprio da chi, indipendentemente dall’autore, dovrebbe custodirne la corretta fisionomia culturale.

Forse confortata dall’esempio dei noti critici d’arte sopra citati, e constatato che a chi racconta favole tutto sommato non succede nulla, la Direzione Scientifica del Museo Manzoniano di Lecco ha pensato bene di non rimanere nelle ultime posizioni e di portarsi anzi un poco avanti nell’inventare panzane.

Sul sito di SiMUL, nella pagina dedicata al Museo Manzoniano è infatti scritto (evidenziazioni nostre):

«La sala 3 ricostruisce lo studio di Manzoni […]. Sono presenti alcuni oggetti personali, come la famosa tabacchiera e il ritratto che Giuseppe Molteni dipinse per lo scrittore.»

Sì! avete letto bene: «alcuni oggetti personali […] come il ritratto che Giuseppe Molteni dipinse per lo scrittore.»

Per chiunque mastichi anche un pochino la lingua italiana, è chiaro che con questa frasina la Direzione Scientifica del Museo, rompendo finalmente gli indugi, non solo dice al pubblico del Web (4,39 miliardi di utenti) che il ritratto è indubitabilmente “DI” Molteni, ma induce il lettore anche all’idea che fu proprio Manzoni a commissonarglielo, custodendolo poi sempre come carissimo ricordo. .
Su questo povero e modesto dipinto il Direttore Scientifico ha così inaugurato la stagione delle palle all’ingrosso — tanto l’Assessore alla Cultura pensa ad altro e il Sindaco pure.

A chi ci ritenesse prevenuti e tendenziosi, suggeriamo di leggere il capitolo finale di questa nostra nota, dedicato agli ultimi “aggiornamenti” sul “Millantato Molteni di Lecco” a opera della Direzione Scientifica del Museo Manzoniano di Lecco.

Quanto lì scriviamo non sarà forse gradito da tutti; ma quando si supera il segno, è obbligo per chiunque abbia a cuore la cultura manzoniana della città dire pane al pane e cercare di stimolare nei responsabili museali almeno un poco di buon senso.

Sarebbe ora di darci un taglio!
Anche perché certe baggianate sembrano pensate e proposte quasi a irrisione dei lettori / visitatori del Museo, considerati come allocchi incapaci di discernere il vero dalla fantasia da imbonitori che sembra animarne la Direzione scientifica.

2.9 / Intanto, riassumendo comunque questa seconda sezione, dedicata alla presunta rappresentatività del ritratto di Lecco, senza alcun argomento a sostegno spudoratamente detto “DI” Molteni ….

possiamo dire che in 32 anni (dal 1987, donazione al Museo Manzoniano di Lecco, al 2019), il ritratto in questione:

a. per 19 anni (1987-2006) è stato completamente ignorato da tutti (trattandone marginalmente, Daccò lo dava come “attribuito” a Molteni);
.
b. nel 2006 da Mazzocca / Daccò è stato ufficialmente presentato in pubblico come “DI” Molteni;
.
c. nel 2008 l’autografia molteniana è stata riconfermata da Daccò nella presentazione a stampa del Museo Manzoniano;
.
d. nello stesso 2008 è stata smentita da Cattaneo a nome di Lombardia Beni Culturali — MiBACT;
.
e. nel 2014 il ritratto è stato posto a simbolo della manifestazione “Lecco, città di Manzoni”;
.
f. nel 2015, cancellata la manifestazione, è stato invece sostituito dal fumetto Renzo e Lucia come simbolo della nuova manifestazione “Lecco, città dei Promessi Sposi”;
.
g. nel 2018 il ritratto è stato presentato da Bartolena alla mostra “Ottocento Lombardo” come “firmato” da Molteni;
.
h. nel 2019 è stato dichiarato da Brivio-Piazza / Rossetto-Cattaneo-Negri “simbolo del Museo Manzoniano” e, naturalmente, “DI” Molteni;
.
i. su di esso è stato esemplato il nuovo marchio che taglia la faccia a Manzoni;
.
l. sul sito Web di SiMUL è ora sostenuta la fantasia secondo cui il dipinto sarebbe stato da Manzoni custodito come uno dei più cari oggetti personali.

Come si vede, in solo tre decenni quel povero ritratto ne ha viste di tutti i colori, grazie alla fantasia dei vari curatori del Museo Manzoniano e soci.
Ma non è finita purtroppo.

Immediatamente qui sotto illustreremo perché quel ritratto, ora vergognosamente spacciato come “DI” Molteni da quotati professionisti della cultura artistica e funzionari pubblici, non solo non può essere considerato “DI” Molteni ma a lui neppure “attribuibile”, con buona pace di Mazzocca, Daccò, Bartolena e compagnia di giro dei Musei lecchesi.

Unica meritoria eccezione alla molteniana fregola attributiva la recente (e tuttora in corso) mostra “Manzoni nel cuore” — Lecco, Palazzo delle Paure, voluta e promossa dalla Associazione Bovara di Lecco.
Nel Catalogo della mostra (peraltro il dipinto non è lì esposto) il ritratto di cui parliamo è indicato come “attr.” a Molteni, quanto meno col rispetto delle forme.

Lo diciamo solo come inciso: sarebbe stato auspicabile che gli organizzatori della mostra avessero mantenuto la medesima prudenza anche per l’altro “inedito” ritratto di Manzoni (questo invece esposto alla mostra), anch’esso dichiarato “DI” Molteni da Sergio Rebora; anch’esso senza alcuna documentazione a supporto ma con l’incoraggiamento entusiastico di Mazzocca e Casa del Manzoni di Milano, che forse vorrebbe fregiarsene.

Ecco un altro caso di attribuzione d’imperio, una abitudine pessima e poco commendevole anche sotto il profilo morale (ci sono però anche aspetti di diversa natura) cui sarebbe bene gli “esperti” si astenessero (l’unico contentone è naturalmente il proprietario del dipinto).
Ma su questo a breve una nostra corposa nota.

Passiamo ora a illustrare perché il “ritratto di Lecco” non può essere detto “DI” Molteni e neppure a lui anche solo “ATTRIBUIBILE”.

Divideremo l’argomentazione in tre parti:

— il dipinto non può essere di Molteni per evidenti e note ragioni relazionali;
.
— il dipinto non può essere di Molteni per ragioni di stile pittorico;
.
— il dipinto non può essere di Molteni per ragioni cronologiche.

3. Quel dipinto non può essere di Molteni per evidenti e note ragioni relazionali.

3.1 / Questa la domanda: dopo la diffida ricevuta da Manzoni nel 1835, è verosimile che Molteni abbia continuato a produrre ritratti dello scrittore (ovviamente a sua insaputa)?

In mancanza di documenti diretti che attestino l’autografia molteniana per il “Millantato Molteni di Lecco” è opportuno procedere su diversi livelli.

Prima di tutto chiedendosi con quali obiettivi e condizioni di spirito Molteni avrebbe potuto pensare di realizzare nuovi ritratti di Manzoni dopo l’esperienza non gradevole del 1835.

Manzoni a Molteni
(dal testo pubblicato su Il Sole 24 Ore, 21/07/1996 — in [parentesi quadra] le difformità riscontrabili nel testo predisposto sempre da Mazzocca per il Catalogo Molteni 2000).

«Chiarissimo e Pregiatissimo Signore,
È per me un vero dispiacere il doverle disubbidire in che che sia, ma è il solo ch’io possa sentire in questa occasione. Quanto alla coscienza, me ne rido: e, a parlarne con quella libertà ch’Ella mi concede, non so qual sia più singolare, o l’errore della sua modestia che le fa credere avere i suoi lavori e la sua riputazione bisogno di aiuti estrinseci, o l’errore della sua indulgenza che le fa immaginare che in [un] qualche aiuto possa venir da me a chi ne avesse realmente bisogno. Del rimanente, quando a d’Azeglio venne il capriccio di volere su una tela un povero soggetto e un lavoro squisito, io gli protestai che la cosa doveva rimanere privatissima, e sempre che ne venne il discorso, ho escluso espressamente l’esposizione. Certo, codesto ritratto è una gran bella cosa; ma che sono di grazia, l’altre ch’Ella sta per esporre? Lo domandi [domando] agli altri, non a sé; si contenti di cedere alle mie troppo [troppe] buone ragioni, e continui a gradire i sentimenti d’alta stima coi quali mi pregio di rassegnarmele.

Brusuglio, 6 sett.e 1835.
Dev​.mo ubb​.mo servitore
Alessandro Manzoni

Abbiamo già riportato sopra come Mazzocca, nelle ricordate mostre del 2000 e del 2006, abbia dato ampio spazio alla lettera con cui Manzoni il 6 settembre 1835 diffidava Molteni dal presentare al pubblico il ritratto steso con d’Azeglio.

Qui presentiamo l’ampia pagina de “Il Sole 24 Ore” del 21 luglio 1996 su cui Mazzocca pubblicò l’inedito documento, mettendo a testo la lettera di Manzoni; di questa abbiamo riportato anche una diversa trascrizione (tre le difformità) secondo quanto riportato (sempre da Mazzocca) nel Catalogo Molteni 2000.
Un inciso: non sarebbe male se Mazzocca rendesse pubblico l’autografo di Manzoni: francamente la frase “Quanto alla coscienza, me ne rido” ci lascia un po’ perplessi — ci sembra che sulla “coscienza” Manzoni non scherzasse neppure a Carnevale.

Comunque sia, nella sua analisi Mazzocca (pur dando col titolo — “Don Lisander immortalato controvoglia” — una suggestione tutta nel solco della banale vulgata di una idiosincrasia di Manzoni al farsi ritrarre — cosa contraria alla realtà dei fatti e negata recisamente in documenti più che attendibili) sottolineava giustamente la preoccupazione di Manzoni di vedere il proprio ritratto riprodotto in migliaia di copie calcografiche (se avesse dato l’assenso alla presentazione in pubblico del suo ritratto, Manzoni non avrebbe poi potuto impedirne la diffusione con qualsiasi altro mezzo — ricordiamo che il committente e proprietario del dipinto era d’Azeglio).

Mazzocca però ignorava completamente un altro aspetto della questione (gli storici dell’arte spesso si dimenticano di dover essere prima di tutto per l’appunto “storici” e di dovere guardare quindi anche alle condizioni politiche nelle quali e delle quali l’arte vive a pieno titolo).

Secondo i programmi della coppia Molteni /d’Azeglio il ritratto di Manzoni avrebbe infatti dovuto esser esposto al pubblico in un momento particolare.
L’annuale esposizione di Brera, che si teneva tra settembre e ottobre, quell’anno sarebbe stata inevitabilmente caratterizzata da un evento importantissimo per l’intero Impero d’Austria: il 2 marzo 1835 era succeduto al defunto Francesco I d’Austria il figlio primogenito Ferdinando I d’Asburgo Lorena (fratello di Maria Luisa, la moglie di Napoleone Bonaparte), un minorato mentale nel senso clinico dell’espressione, alla cui ombra era stato posto a governare un comitato segreto di quattro persone tra cui Metternich e Kolowrat, lo stesso che nel 1837 ordinò a Molteni il famoso “Spazzacamino”.

Minorato o meno, Ferdinando I era comunque l’Imperatore d’Austria. E infatti Molteni, che per l’esposizione di Brera aveva preparato ben 18 dipinti, non aveva mancato di produrre (oltre al ritratto di Manzoni) anche il ritratto del Governatore austriaco della Lombardia, Conte Hartig, naturalmente su commissione, dando mano al suo solito apparato di tendaggi e grandi vasi.

Abbiamo già riportato sopra come Mazzocca, nelle ricordate mostre del 2000 e del 2006, abbia dato ampio spazio alla lettera con cui Manzoni il 6 settembre 1835 diffidava Molteni dal presentare al pubblico il ritratto steso con d’Azeglio.

Qui sotto presentiamo l’ampia pagina de “Il Sole 24 Ore” del 21 luglio 1996 su cui Mazzocca pubblicò l’inedito documento, mettendo a testo la lettera di Manzoni; di questa abbiamo riportato anche una diversa trascrizione (tre le difformità) secondo quanto riportato (sempre da Mazzocca) nel Catalogo Molteni 2000.
Un inciso: non sarebbe male se Mazzocca rendesse pubblico l’autografo di Manzoni: francamente la frase “Quanto alla coscienza, me ne rido” ci lascia un po’ perplessi — ci sembra che sulla “coscienza” Manzoni non scherzasse.

Manzoni a Molteni
(dal testo pubblicato su Il Sole 24 Ore, 21/07/1996 — in [parentesi quadra] le difformità riscontrabili nel testo predisposto sempre da Mazzocca per il Catalogo Molteni 2000).

«Chiarissimo e Pregiatissimo Signore,
È per me un vero dispiacere il doverle disubbidire in che che sia, ma è il solo ch’io possa sentire in questa occasione. Quanto alla coscienza, me ne rido: e, a parlarne con quella libertà ch’Ella mi concede, non so qual sia più singolare, o l’errore della sua modestia che le fa credere avere i suoi lavori e la sua riputazione bisogno di aiuti estrinseci, o l’errore della sua indulgenza che le fa immaginare che in [un] qualche aiuto possa venir da me a chi ne avesse realmente bisogno. Del rimanente, quando a d’Azeglio venne il capriccio di volere su una tela un povero soggetto e un lavoro squisito, io gli protestai che la cosa doveva rimanere privatissima, e sempre che ne venne il discorso, ho escluso espressamente l’esposizione. Certo, codesto ritratto è una gran bella cosa; ma che sono di grazia, l’altre ch’Ella sta per esporre? Lo domandi [domando] agli altri, non a sé; si contenti di cedere alle mie troppo [troppe] buone ragioni, e continui a gradire i sentimenti d’alta stima coi quali mi pregio di rassegnarmele.

Brusuglio, 6 sett.e 1835.
Dev​.mo ubb​.mo servitore
Alessandro Manzoni

Comunque sia, nella sua analisi Mazzocca (pur dando col titolo — “Don Lisander immortalato controvoglia” — una suggestione tutta nel solco della banale vulgata di una idiosincrasia di Manzoni al farsi ritrarre — cosa contraria alla realtà dei fatti e negata recisamente in documenti più che attendibili) sottolineava giustamente la preoccupazione di Manzoni di vedere il proprio ritratto riprodotto in migliaia di copie calcografiche (se avesse dato l’assenso alla presentazione in pubblico del suo ritratto, Manzoni non avrebbe poi potuto impedirne la diffusione con qualsiasi altro mezzo — ricordiamo che il committente e proprietario del dipinto era d’Azeglio).

Mazzocca però ignorava completamente un altro aspetto della questione (gli storici dell’arte spesso si dimenticano di dover essere prima di tutto per l’appunto “storici” e di dovere guardare quindi anche alle condizioni politiche nelle quali e delle quali l’arte vive a pieno titolo).

Secondo i programmi della coppia Molteni /d’Azeglio il ritratto di Manzoni avrebbe infatti dovuto esser esposto al pubblico in un momento particolare.
L’annuale esposizione di Brera, che si teneva tra settembre e ottobre, quell’anno sarebbe stata inevitabilmente caratterizzata da un evento importantissimo per l’intero Impero d’Austria: il 2 marzo 1835 era succeduto al defunto Francesco I d’Austria il figlio primogenito Ferdinando I d’Asburgo Lorena (fratello di Maria Luisa, la moglie di Napoleone Bonaparte), un minorato mentale nel senso clinico dell’espressione, alla cui ombra era stato posto a governare un comitato segreto di quattro persone tra cui Metternich e Kolowrat, lo stesso che nel 1837 ordinò a Molteni il famoso “Spazzacamino”.

Minorato o meno, Ferdinando I era comunque l’Imperatore d’Austria. E infatti Molteni, che per l’esposizione di Brera aveva preparato ben 18 dipinti, non aveva mancato di produrre (oltre al ritratto di Manzoni) anche il ritratto del Governatore austriaco della Lombardia, Conte Hartig, naturalmente su commissione, dando mano al suo solito apparato di tendaggi e grandi vasi.

Abbastanza normale infatti che nell’augusto frangente politico il Governatore austriaco tenesse a che un proprio ritratto spiccasse nella frequentatissima esposizione di Brera, a testimonianza della continuità dell’aulico potere austriaco.

Secondo lo stile illusionistico che gli era proprio, Molteni aveva steso a precipizio un accattivante ritratto di Hartig, ringiovanendolo di dieci anni, dandogli un aspetto ancor più simpatico del reale e mostrandone visivamente la grande vicinanza ed empatia nei confronti della Lombardia col mettere in bella evidenza sulla sua scrivania la “Gazzetta di Milano”.
Molteni dipingeva per tutti senza guardare alle questioni politiche (basta che paghino bene!) e non si risparmiava nel ritrarre a catena Imperatori, Re, Duchesse, Principi, Generali, Governatori — che fossero poi despoti spesso stupidi e sanguinari non aveva una grande importanza.

Come noto, Manzoni si era invece fatto un punto d’onore nel non permettere che mai e per nessuna ragione una qualsivoglia divisa austriaca varcasse la soglia della sua abitazione di Via Morone; aveva quindi sempre respinto i tentativi di cooptazione culturale messi in atto dai vari governanti austriaci di Milano (tra cui per l’appunto Hartig).
Si può quindi comprendere con quale entusiasmo Manzoni sarà venuto a sapere nell’agosto del 1835 che il suo ritratto sarebbe stato esposto magari a fianco di quello del Governatore austriaco, per di più nel clima di fregola collettiva ed ossequiante che caratterizzava sempre l’arrivo di un nuovo Imperatore (la cosa vale anche oggi).

Anche da qui certamente la sua reazione così netta al progetto Molteni/d’Azeglio e la messa in guardia molto decisa nei confronti di Molteni: a esporre in pubblico — e in quelle circostanze — il mio ritratto non ci pensare neanche di sfuggita.

A fronte di una posizione così netta da parte di Manzoni, rispettato in Milano anche dai pochi suoi avversari, risulta molto difficile pensare con quali obiettivi e con quale faccia il pur disinvolto ritrattista Molteni avrebbe potuto in qualsiasi momento dei trent’anni successivi a quel poco simpatico 1835 anche solo pensare di mettere nuovamente le mani sull’immagine di Manzoni.

Abbiamo visto che Daccò si è lasciato andare a fissare una cronologia al 1845 — una cosa ridicola come vedremo meglio più avanti.

Ma nell’ipotesi assurda che Molteni avesse realizzato nascostamente quel ritratto dieci anni dopo il contrasto con Manzoni, che vantaggio ne avrebbe avuto?
Se la cosa fosse rimasta assolutamente segreta, avrebbe solo guadagnato qualche lira dal committente — ma non ne aveva bisogno: da un pezzo Molteni navigava alto in termini di quattrini.

Se il ritratto fosse invece stato conosciuto anche da poche persone, inevitabilmente se ne sarebbe parlato nella piccola Milano di metà Ottocento.
Non solo Molteni avrebbe fatto la parte del cialtrone (Manzoni non ci avrebbe pensato due volte a scrivergli un’altra letterina delle sue, magari svergognandolo pubblicamente) ma il suo lavoro sarebbe stato immediatamente paragonato all’eccellente ritratto “della tabacchiera” che nel 1841 Hayez aveva realizzato presentando una somigliantissima immagine di Manzoni (qui sotto mettiamo a confronto sia i due dipinti completi sia il particolare dei volti).

Il raffronto tra i due lavori avrebbe ridicolizzato Molteni, facendolo capitombolare dal podio degli artisti di primo livello. Parliamoci chiaro: a prescindere da qualsiasi considerazione, il “Millantato Molteni di Lecco” è infatti proprio una porcheriola.

Tra l’altro, in quel 1835 Manzoni era entrato in un forte contrasto anche con d’Azeglio — anzi, l’asprezza del contrasto con Molteni era stata certamente determinata anche dall’urto molto forte tra genero e suocero.
Ma in famiglia la frattura si era ricomposta relativamente in fretta e d’Azeglio era stato riammesso (seppure con una certa cautela) nell’intimità dei Manzoni (era pur sempre padre della piccola nipotina di Alessandro).

Dal momento che Molteni con d’Azeglio mantenne sempre fino alla morte di quest’ultimo (1866) un buon rapporto di amicizia (d’Azeglio Ministro gli faceva bonariamente da “agente” nell’ambiente politico-istituzionale del Regno di Sardegna), è altamente improbabile che Molteni potesse lasciarsi andare a una mediocre operazione commerciale, quale poteva essere l’esecuzione di un ritratto di Manzoni non solo “estorto” ma anche steso in contrasto con l’effigiato, che avrebbe tra l’altro messo in difficoltà l’amico nei confronti di tutta la famiglia Manzoni, rinverdendo gli elementi della vecchia rottura.

3.2 / Riassumiamo le considerazioni relazionali che impongono di scartare decisamente l’idea che il ritratto sia opera di Molteni …

a. Nel 1835 Molteni aveva realizzato con d’Azeglio il ritratto di Manzoni; il quale aveva consentito con l’intesa che il dipinto sarebbe rimasto in ambito famigliare.

b. Molteni e d’Azeglio avevano invece in mente di proporlo alla esposizione annuale di Brera. Ciò avrebbe dato via libera alla sua riproduzione calcografica in grandi tirature.
Molteni avrebbe portato il ritratto di Manzoni assieme a quello del Governatore austriaco Hartig in un momento politico particolare.

c. Manzoni, contrarissimo per ovvie ragioni alla stampa indiscriminata della propria immagine e ancor più ad apparire a fianco del Governatore austriaco (sarebbe parsa una resa dell’inflessibile patriota lombardo), impose a Molteni di non farne nulla.

d. La coppia Molteni / d’Azeglio dovette abbozzare e il ritratto rimase nelle abitazioni dei d’Azeglio per oltre 120 anni. Molteni non ebbe più rapporti con Manzoni.

e. Visti i precedenti, un nuovo ritratto di Manzoni realizzato da Molteni (o più di uno, come si vuole ora fare credere), gli avrebbe attirato il discredito generale. L’inevitabile raffronto con l’eccellente ritratto di Hayez del 1841 lo avrebbe inoltre umiliato come artista: il ritratto di Lecco è di una sconsolante mediocrità.

No! È da escludere, per queste e tante altre ragioni che ogni lettore può pensare da sé, la possibilità che Molteni si sia lasciato convincere da qualcuno a fare un nuovo ritratto a Manzoni!

4. Quel dipinto non può essere di Molteni per evidenti incompatibilità di stile.

4.1 / Il “Millantato Molteni di Lecco” non ha nulla a che vedere con gli schemi ritrattistici di Molteni, il pittore delle ben definite campiture e dell’empatia.

Nei contributi di Mazzocca e degli altri autori del Catalogo “Molteni 2000” già citato, vengono riprese le espressioni con cui i commentatori coevi descrivevano le produzione di Molteni sulle gazzette, le riviste, gli album.

I critici suoi contemporanei (anche quelli che gli erano amici) lo ammiravano per la brillante varietà della tavolozza e la facilità del pennello ma insieme ne coglievano la debolezza culturale e la mancanza di prospettiva etica.

Caimi (che lo frequentò a lungo e per cui ebbe simpatia) nel suo discorso in memoria nel 1867 parla di un mancato completamento della formazione accademica di Molteni. Era un modo convenzionale (ma anche molto amichevole) per dire e non dire del vero limite di Molteni: la debolezza nell’esprimere contenuti utili allo sviluppo dello spettatore e non solo superficialmente godibili.

Alcuni osservatori colgono certamente l’essenza del Molteni “creativo” (per intenderci, non quello impegnato nel restauro della creatività altrui) quando ne evidenziano l’attenzione costante al dettaglio di ornamento, abbigliamento o ambiente caratterizzante l’effigiato.

E in effetti come ritrattista Molteni sapeva copiare (ri-trarre, appunto) in modo efficace; copiare sia gli elementi della fisionomia degli effigiati sia gli ambienti del loro vivere sia i dettagli tesi a caratterizzarne l’appartenenza sociale.

Nel presentare le donne badava ai tessuti, ai gioielli, agli arredamenti; con gli uomini sceglieva richiami più sobri ma sempre con grande attenzione al dettaglio (spille, nastri di decorazioni, ecc.) e una straordinaria capacità di rappresentarli sulla tela.

Il suo era un modo di pittura certamente accattivante: semplice da capire e tale che anche i non intenditori potevano e possono coglierne agevolmente la struttura — e apprezzarla: possiamo definirlo un pittore dalla facile riconoscibilità e dell’empatia.

Suscita in noi quel piacere un poco infantile del ravvisare gli oggetti del nostro quotidiano che, trasformati dal pittore, ci appaiono molto più attraenti che nella realtà o in fotografia: la capacità dell’artista li rende vivi e simpatetici con il nostro essere nel mondo.

E questo vale anche per le fisionomie che offriva ai suoi ammiratori: quando vedevano quel volto lo riconoscevano: era l’avvocato con cui avevano ogni tanto a che fare; era il signore del palazzo accanto, con quella moglie un po’ in carne ma così graziosa; era il giovanotto elegante che incontravano per via o intravvedevano al caffè; era la signora già matura e sempre affascinante che trovavano negli incontri mondani o al teatro.

Erano tutte figure che appartenevano al vissuto collettivo di allora; e che ancora ora ci danno sicurezza e piacere perché in loro riconosciamo il nostro mondo e noi stessi.

I ritratti di Molteni sono inoltre sempre ben definiti nella forma; le campiture di colore ben distinguibili; le espressioni non equivocabili; i volti che ci presenta sono vivi e rassicuranti: per essi proviamo empatia anche quando appartengono a uomini “seriosi” per età e ruolo sociale.

Per questo il Molteni ritrattista era — ed è — un pittore che si fa amare.
Non ci insegna nulla; non ci spinge a nulla ma ci piace ugualmente.

4.2 / Ritratti a confronto: da una parte luce, colore, vivacità, segno ben definito, brillanti dettagli — domina la simpatia.
Dall’altra grigiore, monotonia, segno indefinito, nessun elemento attrattivo — nessun coinvolgimento emotivo, anzi istintiva repulsione.

La tavolozza di Molteni era ampia e solare; amava i contrasti e i vivaci accostamenti di colore.

A evidenziare l’assurdità di attribuire il “ritratto di Lecco” a Molteni, accanto a questo ne mostriamo otto (questi sì di Molteni) anch’essi di figure maschili, composti tra il 1829 e il 1852.
Di tutti questi otto ritratti mostriamo sia l’opera nella sua interezza sia il particolare del volto dell’effigiato che affianchiamo al “ritratto di Lecco” per un confronto forse non inutile.

Non bisogna essere esperti per constatare immediatamente come il “Millantato Molteni di Lecco” sia agli antipodi della attraente riconoscibilità molteniana, della sua distribuzione delle campiture di colore, della varietà e vivacità della tavolozza.

Tranne l’imbarazzante rosato della carnagione, il ritratto di Lecco è invece praticamente monocromo. Appare inoltre monotono, senza neppure uno degli elementi di attrazione ottica con cui Molteni sapeva catturare l’occhio del riguardante e dare ai suoi ritratti quel tocco di attrattiva in più che faceva la differenza.

Pensiamo non sia il caso di spendere altre parole per dimostrare che tra lo stile pittorico del “Millantato Molteni di Lecco” e i ritratti realizzati dal vero Molteni nel corso della sua carriera vi è un abisso di modi e qualità.

D’altra parte, è opportuno ricordare che, nominato conservatore delle II.RR. Gallerie dell’Accademia di Brera, Molteni non si impegnò più nella ritrattistica.

Nel “Regesto delle opere” elaborato nel 2000 da Sergio Rebora (Catalogo “Molteni 2000”, p. 227-240 — ci sembra un lavoro da considerare quasi conclusivo per la conoscenza dell’opera complessiva di Molteni) ancora al 1855 si danno otto ritratti eseguiti dal pittore milanese.
Nel 1859 invece niente ritratti: solo una scena di genere (“La pitocca della chiesa”) e “Una beata vergine orante”. Poi più nulla che si possa chiamare di “invenzione”.

Testimonianze affidabili ci dicono infatti che dopo il 1859 Molteni si dedicò esclusivamente a interventi di restauro o per l’Accademia o per privati come Poldi Pezzoli (vedi Caimi nel suo discorso di fine 1867 in ricordo dell’artista).
E ciò comunque fino al 1865 — dopo di allora la malattia che lo portò con sofferenza alla morte non gli consentì praticamente di produrre più alcunché.

Veramente difficile pensare che Molteni, scelto di abbandonare nel 1859 la ritrattistica e in generale il lavoro di invenzione, si dedicasse a realizzare di nascosto un pessimo ritratto di Manzoni che già un ventennio prima lo aveva apertamente diffidato dall’occuparsi oltre della sua figura.

Ma andiamo avanti!

Infatti, pur non sottovalutando le considerazioni di stile (se condotte con serietà anche queste sono osservazioni del reale) è opportuno evidenziare altri elementi che sostengono in modo serio il nostro dissenso rispetto alla millantata autografia molteniana del mediocre ritratto di Manzoni, recentemente promosso a “simbolo” e/o “icona” del Museo Manzoniano di Lecco.

4.3 / Procederemo quindi indicando prima di tutto il “modello” su cui è stato esemplato il “Millantato Molteni di Lecco”.

Escluso per troppo ovvie ragioni che quello di Lecco sia un ritratto autorizzato da Manzoni, dobbiamo valutare se esso
— è “opera di osservazione diretta” — quindi un ritratto “rubato” (dobbiamo però immaginarci il pittore appostato negli androni del centro di Milano o dietro gli alberi dei Giardini a fissare intensamente Manzoni nelle sue passeggiate quotidiane) — oppure se
— è una “opera di fantasia, esemplata da altri dipinti, incisioni — o da fotografie, cosa molto più sensata.

La questione non è di poco conto: nel caso si trattasse di un “ritratto rubato”’, dovremmo pensare che l’artista fosse coevo al Manzoni — forse più giovane ma comunque attivo attorno agli anni ’60 dell’Ottocento.

Nel caso si trattasse di copia da incisione o fotografia, verrebbe a cadere il limite temporale: il “Millantato Molteni di Lecco” potrebbe essere stato realizzato in un arco di tempo relativamente ampio — diciamo dall’ultimo trentennio dell’Ottocento al primo ventennio del Novecento.

In mancanza di documenti probanti, per la cronologia possiamo al momento avanzare solo ipotesi di buon senso: o in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni (1874) o nel decennale (1883) o nel cinquantesimo (1923).

Da parte nostra siamo comunque convinti che il “Millantato Molteni di Lecco” sia stato esemplato dalla manipolazione fotografica di un fotoritratto di Manzoni ben noto e molto copiato per stampe e incisioni di ogni tipo anche fino ai giorni nostri.

A partire da questa convinzione, vi sono domande cui possiamo rispondere in modo puntuale (nella Sezione che segue immediatamente qui sotto ne illustriamo i perché):

Quale lo scatto fotografico originale? — Assunto che come modello del dipinto venne presa una riproduzione fotografica, siamo in grado di indicare sia chi era il fotografo autore del negativo originale (prima del digitale, lo scatto fotografico vero e proprio) sia il breve arco temporale in cui è verosimile sia stato realizzato.
.
Quale riproduzione di quel negativo originale? — Una cosa è il negativo, altro le molte sue possibili stampe in positivo. Le quali, all’osservazione naturale, possono apparire molto diverse in funzione di supporto, esposizione, sviluppo, ecc. ecc., tanto da fare pensare a scatti diversi.
Proprio per questo dato di fatto, siamo in grado di indicare “quale” riproduzione di “quel” negativo venne utilizzata come modello per il dipinto e quindi di indicarne la data ante quem (1869).

Vi sono però domande cui al momento non siamo in grado di rispondere:

Chi è l’autore del dipinto? Quando fu realizzato?
.
Risposte a queste domande potrebbero essere favorite da una analisi strumentale del dipinto, cosa al di fuori delle nostre disponibilità.
Vedremo se i dirigenti del Museo Manzoniano di Lecco sapranno essere abbastanza responsabili per muoversi con coerenza e impostare un percorso conoscitivo basato su cultura e scienza e non sulla linea deprimente del “prendere o lasciare” fino a oggi seguita.

Una cosa è certa: il “Millantato Molteni di Lecco” non è opera di Molteni.
Il quale, poveretto, morì l’11 gennaio 1867, quasi due anni prima l’ante quem da noi definito.

E che comunque — bisogna dirlo in difesa dell’artista e dell’arte di cui il pittore milanese fu efficace e spesso brillante interprete — mai avrebbe potuto dipingere un ritratto così mediocre e deformante la personalità dell’effigiato come quello ora portato alle stelle dal sistema museale lecchese.

5. Di Duroni nel 1862-63 i primi fotoritratti negativo/positivo di Manzoni.

Stefano Stampa (“A. Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici”, 1885, pp. 420-421):

«Negli ultimi anni, perduta la moglie [agosto 1861, ndr], tutti gli amici, e molti conoscenti, il Manzoni non trovava altro appoggio che nel figlio Pietro, il quale per conseguenza aveva acquistata molta influenza sull’animo del padre.
Se ne approfittò per fargli fare molte fotografie dal Duroni, sia da seduto, sia d’in piedi, o solo in busto, ecc., e per ottenere che queste fotografie potessero essere esposte al pubblico, ed anche vendute, fece presente al padre che era una cosa che tutti facevano, che era anzi un’originalità il non farla; aggiunse inoltre che permettendo la vendita del suo ritratto, avrebbe beneficato un padre di famiglia, il Duroni, il quale avrebbe potuto cavare un buon guadagno da quella vendita; e tanto insistette che il Manzoni si rassegnò.
E da quel punto il suo ritratto, come accade alle teste di Cristo o della Vergine, comparve al pubblico in compagnia di figure di ballerine, e peggio, di figure pornografiche.»

Queste poche righe di Stefano Stampa non sono certo simpatizzanti nei confronti del proprio fratellastro Pietro Luigi, figlio maggiore di Alessandro Manzoni e da lui frequentato quotidianamente per oltre un trentennio.

Il riferimento al Duroni, fantasiosamente spacciato da Pietro al padre come bisognoso “padre di famiglia”, era una battuta pesante che ancora nel 1885 in Milano molti potevano comprendere: Duroni era stato infatti per decenni uno dei fotografi più noti d’Italia, con un laboratorio in Milano tra i più avviati, attivo in ogni campo di applicazione della nuova tecnica fotografica.

Le note di Stampa ci danno comunque alcuni elementi per collocare cronologicamente i ritratti fotografici a partire dai quali a nostro avviso è stato esemplato il “Millantato Molteni di Lecco”.

Ma a “Casa del Manzoni” in Milano, nella Sala IX dedicata agli amici dello scrittore, c’è un documento che ci aiuta più delle notazioni di Stampa nel datare i primi ritratti fotografici di Manzoni; operazione su cui da parte del Centro Nazionale Studi Manzoniani vi è reticenza anche solo nell’avanzare ipotesi.

Nel volume “Casa Manzoni”, repertorio certo affidabile di quanto disponibile nel palazzo di Via Morone a Milano (Mondadori Electa, 2016, € 110,00, p. 252), Chiara Lampugnani, con riferimento a un fotoritratto di Manzoni realizzato da Duroni, scrive infatti: «Fotografia, scattata negli ultimi anni di vita dello scrittore […]», là dove il significato di “ultimi anni” di Manzoni è affidato altruisticamente alla discrezione del lettore — un po’ pochino.

Tanto più che le indicazioni cronologiche sono proprio sotto il naso di chi guarda la fotografia.
Lampugnani richiama infatti l’attenzione sul timbro apposto da Duroni sul cartoncino di supporto alla fotografia — “Fotografo di S. M. il Re d’Italia” — ma non ne tira le conseguenze. Vediamo di farlo noi.

Si dovrebbe sapere che Vittorio Emanuele II divenne Re d’Italia il 17 marzo 1861.

Duroni, presumibilmente nell’estate di quell’anno, fece al Re un ritratto fotografico, a grandezza naturale, realizzato con uno dei primi ingranditori (è l’immagine che abbiamo riportato in apertura di capitolo).
Un’impresa notevole per i tempi, che a Duroni fruttò una medaglia alla prima Esposizione Nazionale di Firenze (settembre 1861).
È sicuramente dopo questo riconoscimento che Duroni ritenne di potersi definire “Fotografo di Sua Maestà” come riportato nel timbro apposto al ritratto di Manzoni schedato da Lampugnani.

Al quale fotoritratto possiamo quindi assegnare come data “post quem” l’autunno 1861.

E per la data “ante quem”?
Riteniamo che il termine estremo sia il dicembre 1863, seguendo la traccia lasciataci dallo stesso Manzoni.

La curatrice della Scheda Lampugnani ha opportunamente trascritto la dedica autografa di Manzoni, apposta in basso a destra sul cartoncino di supporto alla fotografia ma anche in questo caso senza trarne le dovute conseguenze:

«Alla Signora Giovannina Grossi | Alessandro Manzoni | partecipa con lei di un gran dolore, | come lo fu di un grande affetto.»

La Signora Grossi era la moglie di Tommaso Grossi, morto il 10 dicembre 1853.
Riteniamo di non forzare le cose nel pensare che la foto con dedica sia stata affidata da Manzoni alla moglie dell’amico nel decennale della morte, quindi il 10 dicembre 1863.

Stabiliti i due estremi (autunno 1861 / inverno 1863), ricordiamo che, per vivere con il padre Alessandro in via Morone, Pietro Luigi si trasferì da Brusuglio a Milano nel tardo autunno 1861.
Possiamo quindi ragionevolmente pensare che il suo lavorio su Alessandro a pro’ dei ritratti fotografici sia cominciato a fine 1861 e andato in crescendo col nuovo anno, favorito certo da un evento che coinvolse emotivamente Manzoni predisponendolo a una maggiore visibilità pubblica, certo più delle risibili fantasie del figlio Pietro sul “Duroni, povero padre di famiglia” (che avrà pensato Manzoni di queste balle-fantasie del figlio?).

Per la commemorazione delle 5 Giornate del 1848 Garibaldi era giunto in Milano il 21 marzo 1862 accolto da folle entusiaste e favorevoli a nuove azioni patriottiche. Il 24 il condottiero aveva inaugurato, vicinissimo a quella che sarà Piazza Cadorna e con un centro magistrale da 100 metri con la carabina, il nuovo Tiro a Segno Nazionale della città.

Il 25 Garibaldi andò a trovare Manzoni in Via Morone e incontrandolo gli donò un mazzetto di violette (grande attore l’eroe dei due Mondi!).
Il primo scambio di battute tra i due davanti all’ingresso della casa di Via Morone, circondati da una piccola folla, è noto (anche Manzoni come attore non scherzava):

Permettete — disse il generale — ch’io venga a prestare un omaggio a un uomo che onora tanto l’Italia”.
.
“Non siete voi — rispose il Manzoni — che dovete prestare omaggio a me; sì io, che mi trovo ben piccino anche davanti all’ultimo dei Mille e più ancora dinanzi al loro Duce, che ha redenta tanta parte d’Italia”.

L’incontro ebbe grande eco anche sulla stampa: la sciabola e la penna del patriottismo italiano si mostravano alleati per nuovi passi verso l’unità nazionale — da evidenziare il riferimento esplicito e pubblico di Manzoni alla spedizione dei Mille, in vista di una sua riedizione.

Pochi giorni dopo Garibaldi proseguiva il suo tour politico-patriottico (a Cremona veniva fotografato dal sempre presente Duroni con lo scatto che abbiamo riportato a inizio capitolo).
A Trescore venivano però arrestati garibaldini sospettati (a ragione) di volere provocare un incidente con l’Austria. Gli arresti ebbero un epilogo di sangue: il 16 maggio a Brescia la truppa fece fuoco sui dimostranti garibaldini uccidendone quattro.

In realtà il viaggio di Garibaldi, svoltosi con la copertura delle commemorazioni o dei Tiri a Segno, intendeva raccogliere il maggior consenso collettivo per una nuova mossa sulla strada dell’unità nazionale.

Dopo varie vicende che qui non è il luogo di illustrare, il 27 giugno 1862 Garibaldi si imbarcò da Caprera per Palermo con l’idea di ripetere l’avventura di due anni prima, questa volta con l’obiettivo di prendere Roma, premendo sul governo con una largamente pubblicizzata azione dimostrativa.
Il suo progetto fallì: come noto, il 29 agosto la sua marcia fu fermata con la forza ad Aspromonte dall’esercito nazionale e il combattente di tante battaglie, fino ad allora rimasto sempre illeso, nel giro di pochi minuti venne ferito due volte dal fuoco amico (le foto di Garibaldi ferito sono ancora una volta di Duroni).

Tornando a Manzoni, è facile pensare che in quelle settimane tra marzo e aprile la pressione di Pietro sul padre perché si facesse fotografare poté trovare terreno favorevole. Non è inverosimile pensare che Manzoni, certo partecipe della mobilitazione collettiva in vista di grandi fatti, abbia accettato di farsi finalmente ritrarre dal Duroni, già da altre personalità sintoniche con lo scrittore riconosciuto come costruttore dell’immagine del patriottismo militante.

Possiamo quindi pensare che la giornata fotografica nello studio di Duroni potrebbe essere collocata nell’aprile del 1862, in giornate già luminose.

Per non abusare comunque delle suggestioni e rimanere con i piedi per terra, d’ora in avanti definiremo i ritratti di Duroni come del “1862-63”, assegnando comunque un margine abbastanza ristretto alla loro cronologia.

5.1 / «Se ne approfittò per fargli fare molte fotografie dal Duroni, sia da seduto, sia d’in piedi, o solo in busto, ecc.»

Nei fotoritratti di Duroni Manzoni appare del tutto naturale, a riprova della capacità del fotografo non solo di ben maneggiare lastre e collodio ma anche di saper mettere a proprio agio gli effigiati.

Nel patrio terzetto “Re / Condottiero / Scrittore” fotografato da Duroni nei primissimi momenti del nuovo Regno (i loro ritratti sono riportati all’apertura di questo capitolo) Manzoni vince alla grande il primo premio.

Nel 1861 Vittorio Emanuele aveva 41 anni e li portava male; nel 1862 Garibaldi ne aveva 55 e li portava benissimo con quel suo fare scanzonato di atleta naturale; ma Manzoni, con i suoi 77-78 anni, era il meglio dei tre: elegante, l’aria seriosa dell’età e dei pensieri ma con un’aura di consapevole vitalità.

La foto più grande, di rappresentanza, è ricavata da un negativo (lo chiamiamo “B”).

Come il lettore può constatare qui sotto, le due fotografie più piccole sono invece entrambe ricavate da un altro medesimo negativo (lo chiamiamo “A”): la “carta da visita” (poco più grande dei nostri biglietti attuali) con solo il volto e parte del busto in un ovale; un cartoncino tipo i nostri “with the compliments” con la figura quasi di tre/quarti, anch’esso in un ovale.

Da notare che, come in questo caso, positivi diversi dallo stesso negativo possono fare pensare a negativi diversi: essendo la stampa realizzata con la luce naturale era sufficiente una anche debole variazione di intensità luminosa per dare con gli stessi tempi di esposizione risultati anche molto diversi all’osservazione; i vari passaggi chimici per lo sviluppo e il fissaggio potevano poi dare tonalità cromatiche molto distanti, come evidente nel nostro caso.

Di queste due stampe dal medesimo negativo chiediamo al lettore di tenere a mente soprattutto quella con la figura di tre quarti — è infatti dalla manipolazione di questa per mano di un altro fotografo che verrà esemplato il “Millantato Molteni di Lecco”.

Vorremmo che questa mini-galleria Manzoni/Duroni fosse più ampia: è comunque sufficiente ad avere un’idea precisa della fisionomia di Manzoni a 77-78 anni.
Il nostro appare estremamente giovanile (del resto egli stesso si vantava di godere di una robusta vecchiaia) e con una espressione decisa.

I ritratti sicuramente piacquero e presumibilmente vennero venduti bene (con soddisfazione del figlio Pietro che ne ricavava certo una provvigione).

Ma soprattutto diedero modo agli artisti di potere finalmente usare matite, pennelli e bulino su un soggetto bene identificabile e non così anguillesco come era stato con la categoria il nostro Manzoni fino a quel 1862-63.

Già che siamo in argomento, un piccolo inciso: nel citato volume “Casa Manzoni” del 2016, a pp. 90-91 si presenta un ritratto fotografico f.to cm 65,5×50, firmato “Guidoni e Bossi”.

Nella relativa Scheda illustrativa Chiara Lampugnani scrive che i due avevano rilevato lo stabilimento fotografico da Icilio Calzolari nel 1888; il quale a sua volta lo aveva rilevato nel 1867 [sic!] da Duroni, autore dell’altra fotografia esposta nel volume a p. 252 [ne abbiamo parlato appena sopra]; che quindi «si può congetturare che si tratti di una fotografia realizzata a partire da uno dei negativi dello stesso Duroni».

Solo per definire il meglio possibile il quadro di questi riferimenti iconografici del Manzoni, è opportuno segnalare essere molto improbabile che la fotografia di “Guidoni e Bossi” (la mostriamo a lato) faccia parte di quella serie di ritratti che noi riteniamo eseguiti da Duroni nel 1862-63 e di cui abbiamo mostrato sopra tre riproduzioni positive.

Innanzitutto la fisionomia di Manzoni appare decisamente più “invecchiata” (si può pensare ad almeno 5-6 anni in più) e riflette un diverso stato d’animo esistenziale: rispetto a quello serio ma serenamente vitale dei ritratti di Duroni, in questa fotografia Manzoni appare solo e psicologicamente preso da pensieri non lieti e senza futuro.

Vi è inoltre un dettaglio nell’abbigliamento dell’effigiato da non trascurare ai fini iconografici: nella fotografia “Guidoni e Bossi”, sul risvolto di copertura della abbottonatura all’inglese della camicia è apposta una spilla, assente nei ritratti del Duroni.

Per concludere una piccola segnalazione per dovere d’ufficio: Duroni cedette lo studio a Calzolari non nel 1867, come indicato da Lampugnani, ma nel marzo 1866 come da comunicazione dello stesso Calzolari alla Camera di Commercio di Milano del 25 ottobre successivo (R. Caccialanza, “Leandro Crozat”, 2015, p. 112, n. 69).

5.2 / L’evoluzione tecnica della fotografia spinge gli artisti a usarla anche per la ritrattistica.
Quelli di talento ne arricchiscono il proprio stile; i mediocri si limitano a copiare mediocremente il lavoro dei Duroni, Alinari, Rossi che ormai governano la scena dell’immagine.

Nei primi anni ’60 dell’800 l’introduzione del procedimento negativo/positivo e poi delle lastre pre-sensibilizzate consente l’affermazione su larga scala della fotografia e i pittori ovviamente ne fanno uso.

Quanto alla qualità delle sinergie con l’arte tradizionale, è in funzione della qualità degli artisti. In Inghilterra Reynolds e in Francia Monet o Degas (solo per citare i più noti) ne fanno un elemento di potenziamento del proprio talento, usando la fotografia per innovare le proprie tecniche pittoriche anche attraverso l’assimilazione delle nuove dimensioni chiaroscurali che la fotografia propone.

In Italia forse questo processo è meno immediato e perché si abbia un utilizzo sistematico della fotografia da parte degli artisti ci vorrà qualche anno in più, verso la fine degli anni ’60.

Ne abbiamo comunque un esempio interessante nel ritratto di Carlo Dossi eseguito da Tranquillo Cremona nel 1867.
Da ciò che si può arguire dalla riproduzione (bisognerebbe vedere l’originale) la maniera del dipingere di Cremona ci pare in questo caso ancora abbastanza tradizionale. Così come appare decisamente conformista la volontà del pittore di “abbellire” l’effigiato correggendogli elementi fisiognomici caratteristici anche se superficialmente antiestetici.

Nel ritratto l’orecchio di Dossi è sempre ben evidente ma Cremona ha pensato di rifilargliene uno tutto ordinatino, in sostituzione di quello decisamente aggrovigliato che Dossi si portava in giro nella realtà.

Gli occhi un poco stretti del Dossi reale, nel ritratto sono diventati tondi e quasi infantili.
Anche la bocca del giovane scrittore, larga e con le labbra strette arcuate verso il basso, non è piaciuta a Cremona che ha preferito appiccicargli una boccuccia tumida e tutta graziosa.

Giusto per completezza, notiamo che anche nello zigomo dell’amico Cremona è intervenuto pesantemente: nel ritratto è molto più in evidenza ed è anche spostato rispetto al dato fotografico.
Così come è stata modificata la linea della mascella e la forma del mento, entrambe più “ordinate” rispetto alla realtà. O meglio della realtà fotografica.
Viene da pensare che la fotografia apparisse a Cremona deformante rispetto alla carne viva che egli ben conosceva. Cremona era infatti amicissimo di Dossi: lo vedeva praticamente tutti i giorni e sapeva quindi perfettamente come fosse fatta la faccia dell’amico.

È come se Cremona avesse voluto correggere difetti del mezzo fotografico, visto come deformante della realtà: proprio il contrario di quanto si pensa usualmente.

O forse Cremona ha ceduto a una richiesta dell’amico di farlo più “carino”. Chissà!

Giusto per completezza, notiamo che anche nello zigomo dell’amico Cremona è intervenuto pesantemente: nel ritratto è molto più in evidenza ed è anche spostato rispetto al dato fotografico.
Così come è stata modificata la linea della mascella e la forma del mento, entrambe più “ordinate” rispetto alla realtà. O meglio della realtà fotografica.
Viene da pensare che la fotografia apparisse a Cremona deformante rispetto alla carne viva che egli ben conosceva. Cremona era infatti amicissimo di Dossi: lo vedeva praticamente tutti i giorni e sapeva quindi perfettamente come fosse fatta la faccia dell’amico.

È come se Cremona avesse voluto correggere difetti del mezzo fotografico, visto come deformante della realtà: proprio il contrario di quanto si pensa usualmente.

O forse Cremona ha ceduto a una richiesta dell’amico di farlo più “carino”. Chissà!

Un altro esempio del passaggio fotografia / pennello ci viene da Hayez ma con modalità differenti rispetto a quanto abbiamo visto per Cremona — siamo già ai primi del decennio successivo.

Nel 1870 viene commissionato ad Hayez il ritratto di Rossini, morto due anni prima (il dipinto è presso la Pinacoteca di Brera, Milano). Il pittore usa una fotografia del compositore che questi gli aveva mandato come segno di amicizia, ma la usa solo come traccia.
Il ritratto che ne esce è infatti basato sulla memoria che Hayez aveva di Rossini, da lui lungamente frequentato: a differenza di Cremona, Hayez non ha assolutamente “abbellito” Rossini; il quale nel dipinto è indubitabilmente Rossini ma non è la sua fotografia ricopiata col pennello: è un vero ritratto di Hayez.

Hayez quindi, seppure solo come supporto alla memoria personale, nel 1870 utilizzò la fotografia per arrivare al ritratto di Rossini.

E Molteni? Noi non abbiamo mai letto nulla a proposito di un possibile utilizzo della fotografia da parte del pittore milanese per la realizzazione dei suoi ritratti. Ma noi ci occupiamo d’arte solo come riflesso dell’interesse verso Manzoni: c’è qualcuno tra i lettori che ne ha mai avuto notizia?
Se sì, sarebbe utilissimo lo rendesse noto al pubblico: siamo a sua completa disposizione per darne la più ampia diffusione.

Tornando a Manzoni, dobbiamo dire che il nostro autore è stato meno fortunato di Rossini o anche di Dossi.
Soprattutto dopo la morte dello scrittore (22 maggio 1873) le sue fotografie scattate da Duroni (e poi da altri) divennero elementi di riferimento per gli artisti ma con risultati deludenti.

Sempre presso la “Casa del Manzoni” abbiamo due esempi di pittura ricavati dai fotoritratti di Duroni sopra riportati. Il primo è di Carlo De Notaris, commissionatogli nel 1875.

La postura di Manzoni è ripresa (ma in modo speculare) dalla fotografia di Duroni (lo abbiamo già detto, un positivo era stato donato da Manzoni alla moglie di Grossi) ma ambientata in una delle stanze di Via Morone (le immagini sono prese dal volume “Casa Manzoni” già citato).

Nel tratteggiare il volto dello scrittore, De Notaris si è invece decisamente staccato dalla fotografia di Duroni: ha purtroppo cancellato dal Manzoni quell’espressione così ottimisticamente vitale che è il pregio della ripresa del fotografo, lasciandone solo una legnosa seriosità.

L’altro dipinto ricavato da uno degli scatti di Duroni del 1862-63 è un mini-ritratto (cm 13×10, amplificato da una cornice faraonica, degna di miglior contenuto) che più che esemplato è stato proprio preso di peso dalla fotografia.

Come ci dice Alessia Schiavi (“Casa Manzoni”, p. 92), si tratta infatti di «una fotografia applicata su tavola» e poi dipinta, opera di Augusto Laforet del 1884, come da dichiarazione di chi acquisì il dipinto.

Schiavi boccia ovviamente questa fantastica cronologia del ritrattino (nel 1884 Laforet aveva tre anni) ma porta a sua volta fuori strada il lettore sulla cronologia della foto di Duroni, anticipandola a circa il 1855: «Il 1884 è una data troppo precoce per il ritratto, non opera originale ma realizzato intervenendo su una fotografia di A. Duroni di Manzoni settantenne, molto divulgata [ecc.]».
Come abbiamo visto, invece, lo scatto di Duroni è del 1862-63 essendo Manzoni di 77-78 anni.

Alessia Schiavi sottolinea comunque un aspetto utile al nostro discorso: «Per il ritratto di Manzoni Laforet lavorò sulla fotografia di Duroni con vernici accentuando i contrasti chiaroscurali in direzione di una maggiore drammaticità dell’immagine.»

L’altro dipinto ricavato da uno degli scatti di Duroni del 1862-63 è un mini-ritratto (cm 13×10, amplificato da una cornice faraonica, degna di miglior contenuto) che più che esemplato è stato proprio preso di peso dalla fotografia.

Come ci dice Alessia Schiavi (“Casa Manzoni”, p. 92), si tratta infatti di «una fotografia applicata su tavola» e poi dipinta, opera di Augusto Laforet del 1884, come da dichiarazione di chi acquisì il dipinto.

Schiavi boccia ovviamente questa fantasiosa cronologia del ritrattino (nel 1884 Laforet aveva tre anni) ma porta a sua volta fuori strada il lettore sulla cronologia della foto di Duroni, anticipandola a circa il 1855: «Il 1884 è una data troppo precoce per il ritratto, non opera originale ma realizzato intervenendo su una fotografia di A. Duroni di Manzoni settantenne, molto divulgata [ecc.]».
Come abbiamo visto, invece, lo scatto di Duroni è del 1862-63 essendo Manzoni di 77-78 anni.

Alessia Schiavi sottolinea comunque un aspetto utile al nostro discorso: «Per il ritratto di Manzoni Laforet lavorò sulla fotografia di Duroni con vernici accentuando i contrasti chiaroscurali in direzione di una maggiore drammaticità dell’immagine.»

In realtà Laforet non utilizzò una stampa positiva di Duroni ma un suo ingrandimento realizzato in una data non definita (qui mostriamo l’originale di Duroni e l’ingrandimento di Laforet nelle rispettive proporzioni).

La “drammatizzazione” della fisionomia di Manzoni operata da Laforet ci sembra dipenda dall’unico difetto dei positivi di Duroni: i tratti del volto risultano infatti quasi evanescenti ed era invece utile per il pittore tirare fuori, con l’opportuna esposizione e tempo di sviluppo, tutti gli elementi atti a meglio evidenziare la fisionomia dell’effigiato.

Ricordiamo comunque che fino agli anni ’80 dell’800 i risultati di un ingrandimento da negativo con le prime “macchine solari” (così erano chiamati i nonni degli ingranditori) non erano un granché e quindi si adottava un’altra procedura.
Per ingrandire una fotografia se ne fotografava il positivo ingrandendolo nella ripresa. Dai vari passaggi a un nuovo positivo era abbastanza inevitabile l’alterazione delle caratteristiche chiaroscurali degli originali e la tendenza a quella “drammaticità” rilevata da Schiavi, determinata dalla progressiva perdita dei dettagli e dall’aumento del contrasto.

Ciò detto, è opportuno evidenziare che non sono stati solo i pittori di secondo ordine a ispirarsi ai fotoritratti manzoniani di Duroni.

In realtà Laforet non utilizzò una stampa positiva di Duroni ma un suo ingrandimento realizzato in una data non definita (a lato mostriamo l’originale di Duroni e l’ingrandimento di Laforet nelle rispettive proporzioni).

La “drammatizzazione” della fisionomia di Manzoni operata da Laforet ci sembra dipenda dall’unico difetto dei positivi di Duroni: i tratti del volto risultano infatti quasi evanescenti ed era invece utile per il pittore tirare fuori, con l’opportuna esposizione e tempo di sviluppo, tutti gli elementi atti a meglio evidenziare la fisionomia dell’effigiato.

Ricordiamo comunque che fino agli anni ’80 dell’800 i risultati di un ingrandimento da negativo con le prime “macchine solari” (così erano chiamati i nonni degli ingranditori) non erano un granché e quindi si adottava un’altra procedura.
Per ingrandire una fotografia se ne fotografava il positivo ingrandendolo nella ripresa. Dai vari passaggi a un nuovo positivo era abbastanza inevitabile l’alterazione delle caratteristiche chiaroscurali degli originali e la tendenza a quella “drammaticità” rilevata da Schiavi, determinata dalla progressiva perdita dei dettagli e dall’aumento del contrasto.

Ciò detto, è opportuno evidenziare che non sono stati solo i pittori di secondo ordine a ispirarsi ai fotoritratti manzoniani di Duroni.

Lo hanno fatto anche bravi fotografi suoi concorrenti; i quali hanno utilizzato gli scatti del collega per dare corpo, per esempio, a propri prodotti editoriali, anch’essi “nello spirito di una maggiore drammaticità dell’immagine”.

È il caso di G.B. Ganzini, udinese di origine (decisamente più giovane di Duroni ma negli anni ’60 dell’Ottocento già affermato fotografo in Milano) che per una pagina del suo album fotografico “Vedute dei Promessi Sposi”, approntato nell’ottobre 1869, ha utilizzato uno dei fotoritratti di Manzoni realizzati da Duroni, ingrandendolo di circa il 210%. 

Agganciandoci alle considerazioni di poco sopra sui chiaro-scuri del ritrattino di Laforet, invitiamo il lettore a constatare come, molti anni prima di lui, anche Ganzini, nell’ingrandire la fotografia di Duroni, scelse di contrastarla fortemente rendendo dominanti le parti più scure.

La cosa è particolarmente evidente per gli elementi più propriamente espressivi — occhi e bocca. Le ombre delle arcate sopraciliari e il taglio duro delle labbra strette in una bocca certo non piccola rendono più incisiva la fisionomia di Manzoni facendo prevalere il tratto severo su quello anche lietamente giovanile dominante nei positivi di Duroni.

Nella riproduzione di Ganzini, l’espressione di Manzoni appare così quasi “altra” rispetto all’originale di Duroni: forse per scelta consapevole di Ganzini, che ha così voluto mascherare l’utilizzo (forse non concordato) dell’opera di un collega/concorrente; o forse come scelta di stile verso una maggiore drammatizzazione.

Sta di fatto che la riproduzione di Ganzini appare come una foto nuova, quasi Ganzini avesse fotografato egli stesso Manzoni di persona; cosa non vera ma che verosimilmente il fotografo poteva desiderare di fare credere.

Su questo album di Ganzini stiamo producendo una paginetta a sé di approfondimento (uscirà a giorni). L’argomento ha un certo interesse per constatare come il pensiero e l’opera di Manzoni vennero interpretati (spesso anche molto malamente) da molti artisti, figurativi e non.

6. Quindi dal fotografo Duroni al fotografo Ganzini. E da questi al “Millantato Molteni di Lecco”, copiator dei copiatori.

6.1 / La trasposizione dalla fotografia: fedele sul piano geometrico, negativamente deformante su quello pittorico.

L’esecutore del “Millantato Molteni di Lecco” è stato preciso per quanto riguarda la trasposizione dalla foto alla tavola per la pittura a olio con un ingrandimento del 400%.

Il ritratto su tavola misura infatti mm 330×500. La parte della riproduzione fotografica che è servita da modello è un rettangolo pari a circa 81 millimetri per 125.

L’ingrandimento appare preciso ma con curiose varianti “creative”: la copia è infatti estremamente fedele sul piano geometrico, mentre presenta evidenti difformità su particolari del volto di Manzoni.

Il pittore inoltre è incappato in comportamenti contraddittori.

Da un lato è malauguratamente intervenuto con la propria “creatività” su alcuni elementi fondamentali per la definizione della fisionomia di Manzoni, falsandone inutilmente i tratti.

Dall’altro è rimasto troppo vincolato al modello fotografico di Ganzini, accogliendone pedissequamente anche le ombre troppo accentuate, sul dipinto divenute vere e proprie “macchie”.

Peccato! se il nostro sconosciuto pittore avesse avuto un poco più di talento, avremmo un bel ritratto di Manzoni nel pieno della sua molto giovanile vecchiaia (ancorché non di mano del Molteni) e non invece quella mediocrissima opera — per di più per nulla fedele né ai tratti fisici né alla psicologia dell’effigiato Manzoni — che il visitatore guarda con scarso entusiasmo da 37 anni a Villa Manzoni e che ora è stato preso a base per il nuovo marchio dai vari “esperti del Manzoni” che gestiscono — scientificamente si intende — il Museo che reca il suo nome.

Ma vediamo distintamente i due aspetti del passaggio dalla fotografia al dipinto cominciando dalla trasposizione dimensionale.

Qui sotto riportiamo un particolare di fotografia e dipinto, perché il lettore ci possa seguire con maggiore facilità.

Abbiamo posto in triangolazione la fotografia e il dipinto esemplato su di essa; a partire dalle immagini ci limitiamo a suggerire alcuni dettagli.
Il lettore potrà facilmente verificare da sé come il dipinto sia una quasi perfetta trasposizione dell’assetto geometrico del volto di Manzoni ripreso nella fotografia.

.
Sul piano orizzontale …
abbiamo utilizzato gli allineamenti [1] e [2] per gli occhi; il [3] per la punta del naso; il [4] per la punta del colletto; il [5] per la congiunzione delle labbra; il [6] per un altro allineamento del colletto all’incrocio con il papillon.

Sul piano verticale …
con [B] abbiamo definito il margine destro del volto; con [C-D] la larghezza dell’occhio destro (notare in [D] l’allineamento perfetto con l’inizio dell’arcata sopraciliare destra); con [E] il punto centrale della bocca; con [F-H] la larghezza dell’occhio sinistro; con [I] l’allineamento in [M] tra colletto e papillon; con [L] la chiusura dimensionale del capo con il bordo dell’orecchio sinistro; con la diagonale [A-N], l’allineamento tra il punto [M] già citato e la curva dell’arcata sopraciliare destra.

Il lettore può divertirsi a cercare altri allineamenti — con quelli indicati ci sembra però di avere dato sufficienti elementi per potere tranquillamente concludere questa parte dell’analisi col constatare che — senza ombra di dubbio e indipendentemente dal nome del pittore — il “ritratto di Lecco” è stato esemplato da quella fotografia.

6.2 / Veniamo ora al deformante e insieme troppo fedele intervento pittorico.

La trasposizione geometrica dalla riproduzione fotografica alla tavola del dipinto può essere relativamente semplice, anche utilizzando la ben collaudata quadrettatura delle immagini — a limite è un lavoro che può svolgere egregiamente anche chi non capisce nulla di pittura.

Il passaggio dal bianco e nero della fotografia al dipinto a olio comporta però scelte qualitative che richiedono esperienza e competenza tipiche dell’arte pittorica.
Non è il caso di entrare in dettagli ma è infatti evidente anche a chi non se ne occupa abitualmente che gli elementi cromatici hanno una loro particolare valenza dimensionale: un’area del dipinto, o un dettaglio, cui viene data una luce eccessiva, all’occhio del riguardante appare come ingrandito, e viceversa.

Il modo con cui il pittore ha operato sul ritratto di cui ci occupiamo è abbastanza curioso.

Primo / Da un lato è incappato in errori pacchiani che hanno decisamente peggiorato la fisionomia del modello — naso, zigomo.

Secondo / Dall’altro (lo si accennava sopra) si è sentito autorizzato a reinterpretare alcuni dettagli anatomici del volto di Manzoni — la bocca — pensando forse di fare un favore allo scrittore che aveva notoriamente labbra molto sottili/arcuate verso il basso.

Terzo / Dall’altro ancora — e proprio al contrario — si è invece rigidamente attenuto agli elementi chiaroscurali della riproduzione fotografica, anche quando questi avrebbero potuto/dovuto essere modificati per una maggiore coerenza pittorica.

Ma andiamo per gradi.

6.3 / Gli errori dilettanteschi.

Zigomo — Guardatelo quel gnocco rosato: con quelle luci troppo vive ha preso un rilievo eccessivo: dà l’impressione che al povero Manzoni abbiano dato un cazzottone proprio lì (forse è per quello che il poeta sembra così irritato).

Naso — L’ombra che delimita la cresta del setto nasale è stata applicata malamente.
Nella riproduzione fotografica che ha fatto da modello al dipinto, il profilo del naso si intravede soltanto e il nostro ignoto pittore ha dovuto metterci del suo.
Ma così il naso di Manzoni, in natura non piccolo ma piuttosto sottile, è stato trasformato in un albero di maestra.

6.4 / Censurati i tratti caratteriali di Manzoni: inventata la boccuccia di rosa.

Manzoni aveva la bocca generosamente larga (tutto mamma Giulia!) ma con labbra sottili e tendenti al basso — una piega caratteriale come per tutti accentuatasi col passare degli anni.

Che ha fatto il nostro pittore dell’ingranditore?
Sicuramente con la buona intenzione di togliere qualche anno allo scrittore è intervenuto drasticamente: l’ha resa meno larga e ha avuto la bella idea di disegnargliela a boccuccia di rosa, attenuando di molto le pieghe verso il basso.

Per completare il misfatto ha aggiunto un po’ di ciccia al labbro inferiore — tra l’altro, a lui o a qualche sciagurato restauratore è scappato il pennello e ne è venuto un rigonfiamento anomalo sul labbro superiore sinistro.

Avevamo già visto sopra come anche Tranquillo Cremona, anche lui preoccupato delle supposte “imperfezioni” dell’amico Dossi, avesse messo parecchio del suo per “migliorarne” la fisionomia — evidentemente a quei tempi le pulsioni chirurgico-pittoriche erano nell’aria.

Sappiamo che qualche lettore attento potrebbe sentirsi solleticato da questi dettagli a farsi un’idea sull’autore del ritratto.
Ma attenzione: al momento gli indizi sono troppo labili per pensare a Cremona come autore del “Millantato Molteni di Lecco” — semmai possono essere utilizzati per avviare un lavoro di scavo in quell’ambiente artistico-fotografico per cercare un ancora acerbo emulo di Cremona.

6.5 / Al contrario, ottusa fedeltà alle eccessive ombre dell’originale fotografico.

La stampa fotografica che è servita da modello per il “Millantato Molteni di Lecco” ha le luci decisamente chiuse: là dove nel fotoritratto di Duroni le ombre delle arcate orbitali erano appena accennate, rendendo il ritratto un poco evanescente, Ganzini, nel maneggiare il negativo per una nuova composizione tutta sua, le ha al contrario accentuate, “drammatizzando” l’espressione di Manzoni.

Il nostro pittore dell’ingranditore, anziché considerare criticamente questo aspetto e attenuare le ombre eccessive di Ganzini, le ha riprodotte con straordinaria precisione, come il lettore può agevolmente constatare — sembra anzi che il pittore ne abbia fatto una sua scelta stilistica. Purtroppo con risultati negativi sul piano pittorico.

In effetti, se guardate il dipinto, ciò che rende l’espressione di Manzoni quasi inquietante è proprio l’ammasso di quelle ombre, disegnate con pedissequa fedeltà all’originale fotografico ma come per una discussione di geometria piana sui poligoni concavi — nulla a che vedere né con un qualsivoglia ritratto né tanto meno con la fisionomia di Manzoni.

Preghiamo il lettore di fissare nella memoria questo aspetto perché è la prova provata a conferma della nostra convinzione secondo cui il “Millantato Molteni di Lecco”:

a. non solo è stato esemplato da una specifica riproduzione fotografica (il che già non è poco per potere eventualmente individuarne il vero autore);
.
b. ma anche che quella specifica riproduzione fotografica, con quelle ombre così caratterizzanti, è stata realizzata da Ganzini nel 1869. Il che — sia detto per inciso — esclude per ovvie ragioni Molteni, morto ai primi di gennaio del 1867.

6.6 / Riassumendo sul modello del “Millantato Molteni di Lecco” …

a. Nel 1862-63 (per prudenza manteniamoci su questo arco temporale ma noi riteniamo nella primavera del 1862) Duroni realizzò una serie di fotoritratti di Manzoni (lo scrittore aveva 72-73 anni).
.
b. Soprattutto dopo la metà degli anni ’60 cominciò a diffondersi tra i pittori l’uso della fotografia come riferimento anche nella ritrattistica.
.
c. Alla fine del decennio (e poi oltre) le fotografie di Duroni vennero usate per ritratti di Manzoni da alcuni pittori (De Notaris, Laforet) ma anche ritratti fotografici, come da G.B. Ganzini.
.
d. Nell’ottobre 1869 questi produsse l’album “Vedute dai Promessi Sposi” accludendovi un ritratto fotografico di Manzoni frutto della rielaborazione di Ganzini di una delle foto di Duroni.
.
e. Il “Ritratto di Manzoni” custodito a Lecco e detto senza alcuna argomentazione “DI” Molteni , è stato di evidenza esemplato su questa rielaborazione di Ganzini: ne segue con assoluta precisione non solo il profilo geometrico ma anche le caratteristiche chiaroscurali, fortemente contrastate rispetto all’originale di Duroni.
.
f. Il “Millantato Molteni di Lecco” è quindi stato realizzato dopo la morte di Molteni (gennaio 1867), verosimilmente al primo anniversario della morte di Manzoni (1874) o nel decennale (1883).
Solo una analisi strumentale potrebbe darci elementi per una risposta più certa e per individuarne l’autore.

Ma passiamo ad altro.

7. Iconografia talebano-lariana: come trasformare un dipinto mediocre in un marchio deformante.

Fino a questo punto abbiamo trattato due aspetti del nuovo marchio del Museo Manzoniano: esso si ispira a un dipinto

la cui millantata simbolicità del Museo Manzoniano è inesistente;
.
la cui millantata autografia molteniana è frutto di pura fantasia.

È opportuno ora analizzare il pittogramma del marchio, quella sua parte propriamente grafica che si vorrebbe essere simbolo perfetto del Museo Manzoniano. È opportuno:

Primo — Verificarne la coerenza rispetto all’originale ritratto di cui è una rielaborazione.
.
Secondo — Valutare se appare coerente rispetto al pensiero di Manzoni circa il tema della “fisionomia” — è questo un aspetto da nessuno degli estensori del “Progetto Museo Manzoniano” ricordato ma che è ovviamente fondamentale.

Rileggiamo il brano del “Progetto Museo Manzoniano” relativo al come si è giunti a elaborare il pittogramma del nuovo marchio (evidenziazioni nostre):

«Abbiamo quindi deciso di procedere attraverso la stilizzazione dell’icona per eccellenza del Museo, ovvero il ritratto di Manzoni ad opera del Molteni che risulta familiare sia sul territorio che oltre; le caratteristiche peculiari del Manzoni maturo e anziano — la capigliatura, le basette, il papillon, l’ottocentesca ieraticità — sono immediatamente riconoscibili a livello nazionale e probabilmente anche internazionale.»

Quindi secondo gli estensori del “Progetto Museo Manzoniano”, in tutta Italia e “probabilmente” nel Mondo, quando qualcuno vede basette, papillon, ottocentesca ieraticità (qualunque cosa si voglia intendere con questa espressione) pensa inevitabilmente a Manzoni.

È difficile pensare che simili sciocchezze possano costituire l’asse portante di un progetto di comunicazione incentrato su Manzoni — ma è proprio così.

Siccome la storia, e la nostra esperienza quotidiana, ci insegnano che dietro ciò che appare come solo ridicolo vi sono spesso programmi e progetti terribilmente seri nella loro mediocrità, è opportuno cercare di comprendere cosa vi possa essere di programmatico dietro questa fantasia in libertà a base di basette e papillon.

7.1 / L’assunto “basette, papillon, ottocentesca ieraticità” come elemento distintivo dell’immagine di Manzoni è solo una chiacchiera da fumetto.

Abbiamo già visto come il “Millantato Molteni di Lecco” si caratterizza per una ben misera notorietà.

Sappiamo invece che la riconoscibilità fisica di cui gode oggi Manzoni è veicolata da tre altre immagini.

1. In primo luogo, in assoluto, il ritratto eseguito da Hayez nel 1841 e da lui replicato nel 1874 in modo quasi perfetto.

Questo ritratto gode di una grandissima notorietà in Italia ed è certo conosciuto a livello internazionale.

Oltre alla sua qualità artistica — è veramente un eccellente ritratto — bisogna ricordare che una copia perfetta dell’opera è esposta al pubblico da quasi un secolo e mezzo; ciò grazie al mecenatismo di Stefano Stampa (figliastro di Manzoni e proprietario dell’originale) e di Hayez che la realizzò nel 1874 donandola all’Accademia di Milano.
Sono quindi 146 anni che questo dipinto è presente alla Pinacoteca di Brera, una delle più conosciute raccolte d’arte del Mondo.

Questo ritratto è stato utilizzato innumerevoli volte nelle pubblicazioni dedicate a Manzoni; può essere — questo sì — considerato l’icona di Manzoni (non della Pinacoteca di Brera che lo ospita).

1. In primo luogo, in assoluto, il ritratto eseguito da Hayez nel 1841 e da lui replicato nel 1874 in modo quasi perfetto.

Questo ritratto gode di una grandissima notorietà in Italia ed è certo conosciuto a livello internazionale.

Oltre alla sua qualità artistica — è veramente un eccellente ritratto — bisogna ricordare che l’opera è esposta al pubblico dal 1874, grazie al mecenatismo intelligente di Stefano Stampa, figliastro di Manzoni, che consentì nel 1874 allo stesso Hayez di realizzare una copia del ritratto del 1841 (di sua proprietà) perché fosse esposto al pubblico.
Sono quindi 146 anni che questo dipinto è presente alla Pinacoteca di Brera, in una delle più conosciute raccolte d’arte del Mondo.

Questo ritratto è stato utilizzato innumerevoli volte nelle pubblicazioni dedicate a Manzoni; può essere — questo sì — considerato l’icona di Manzoni (non della Pinacoteca di Brera che lo ospita).

In questo ritratto hayeziano, l’unico elemento dei tre richiamati da Negri come distintivi di Manzoni sono le “basette”, decisamente però meno folte di quanto non appaia nel “Millantato Molteni di Lecco”.

IERATICITÀ = ZERO.
Nel ritratto di Hayez non vi è traccia alcuna della fantomatica “ieraticità” di Manzoni (attribuitagli dall’architetto Negri e dal Direttore scientifico Rossetto) da lui mai avuta, per fortuna sua e nostra.
Manzoni ha la sua espressione, sempre ricordata da amici e parenti, un poco distaccata e interrogativa ma semplice e indulgente.

PAPILLON = ZERO.
Nel ritratto di Hayez non vi è traccia di “papillon”, che significa nodo a “farfalla”. La sciarpa di Manzoni (non è una cravatta) è qui fermata con un semplice nodo singolo.

In questo ritratto hayeziano, l’unico elemento dei tre richiamati da Negri come distintivi di Manzoni sono le “basette”, decisamente però meno folte di quanto non appaia nel “Millantato Molteni di Lecco”.

IERATICITÀ = ZERO.
Nel ritratto di Hayez non vi è traccia alcuna della fantomatica “ieraticità” di Manzoni (attribuitagli dall’architetto Negri e dal Direttore scientifico Rossetto) da lui mai avuta, per fortuna sua e nostra.
Manzoni ha la sua espressione, sempre ricordata da amici e parenti, un poco distaccata e interrogativa ma semplice e indulgente.

PAPILLON = ZERO.
Nel ritratto di Hayez non vi è traccia di “papillon”, che significa nodo a “farfalla”. La sciarpa di Manzoni (non è una cravatta) è qui fermata con un semplice nodo singolo.

2. Nel secondo ritratto di Manzoni per notorietà (almeno in Italia) di tutto si può accusare lo scrittore tranne che di “ieraticità”.

Anche questo ritratto è abbastanza noto, non foss’altro che per comparire (malauguratamente) sulla copertina delle ultime riedizioni di “La famiglia Manzoni” della Ginzburg (certamente con suo grande cruccio — se qualcuno vuol sapere perché, legga qui).
Venne eseguito, si ritiene, nel 1805; un tempo era attribuito alla Cosway; ora è senza un padre riconosciuto.

Qui il ventenne Manzoni non ha ovviamente nulla di “ieratico” (ricorda piuttosto Elvis Presley nei suoi momenti migliori) e al collo non ha proprio nulla con cui farsi un qualsiasi tipo di nodo.

Le basette si fermano a fine orecchio, come suggerito anche oggi dagli esperti di estetica maschile per i volti lunghi.

3. Il terzo ritratto per notorietà (ma anche questo di gran lunga dietro il primo di Hayez) è il ritratto Molteni/d’Azeglio del 1835.

Questo è l’unico in cui Manzoni sfoggi un nodo a farfalla. Ma attenzione: non è il papillon lineare del “Millantato Molteni di Lecco”.
È un nodo a farfalla di una sciarpa piuttosto alta, con doppio giro attorno al collo, come portato da quasi tutti gli uomini del tempo per proteggersi la gola (frequenti allora i raffreddori e senza tachipirina).

È cioè tutto tranne che un particolare distintivo dell’abbigliamento di Manzoni, come pretenderebbero i “creativi” che al poeta hanno tagliato la faccia.

Qui invece le basette sono piuttosto spelacchiate, in coerenza con l’espressione di accorata interrogazione del ritrattato in una delle fasi più critiche della vita dell’effigiato.

Riassumendo su questo aspetto possiamo bene affermare che il “Millantato Molteni di Lecco” non solo è il peggiore dei pochi ritratti di Manzoni ma è fortunatamente anche il meno conosciuto.

a. Il più noto ritratto di Manzoni, questo sì anche a livello internazionale, è quello realizzato da Hayez nel 1841. La sua notorietà si deve a diversi fattori: ha una alta qualità artistica accompagnata da una grande fedeltà sia ai tratti fisiognomici dell’effigiato sia alla sua immagine psicologica; grazie al mecenatismo di Stefano Stampa e dello stesso Francesco Hayez è offerto al pubblico dal 1874 (146 anni a oggi) alla Pinacoteca di Brera, una delle raccolte più conosciute al mondo.

b. Per notorietà seguono il ritratto giovanile di Manzoni probabilmente del 1805, già attribuito alla Cosway (di discreto livello anche se viziato da una posa del giovane troppo “romantica”).
Seguito dal ritratto Molteni/d’Azeglio del 1835, forse il più interessante dei tre per lo sfondo rappresentante il territorio lariano ma poco noto sia perché reso pubblico solo nel 1952 sia per l’esposizione certo non ottimale alla Sala Manzoniana della Braidense di Milano.

c. È quindi una abnorme deformazione della realtà presentare il “Millantato Molteni di Lecco” come rappresentativo dell’immagine di Manzoni. Proprio al contrario questo ritratto è pochissimo noto e pochissimo rappresentato a tutti i livelli.
Si caratterizza inoltre per una mediocre qualità artistica, legata anche all’essere copia inesperta di una fotografia, ma soprattutto per la lontananza abissale rispetto alla figura psicologica di Manzoni, ben nota per i molti e concordi ricordi sia delle persone che lo frequentarono con continuità sia di quelli che con lui ebbero anche solo un breve incontro.

7.2 / Chirurghi estetici dal bisturi senza controllo.

Ma veniamo all’operazione di chirurgia facciale che, ci sembra, debba essere attribuita esclusivamente alla fantasia e alla mano dello studio dell’architetto Negri, ancorché con la piena e consapevole approvazione di tutta la catena decisionale del Comune di Lecco.

Sulla pagina Facebook dello studio diennepierre del 25 ottobre scorso troviamo il percorso creativo che ha portato a cancellare i lineamenti di Manzoni dal pittogramma che dovrebbe simbolizzare il Museo a lui dedicato.

Così Negri ne ha descritto il processo creativo (“Progetto Museo Manzoniano”, p. 41):

«La sagoma del logo mette in evidenza le suddette caratteristiche [capigliatura, basette, ieraticità — ndr] riducendo il ritratto ai minimi termini di una immagine positivo/negativo, senza i tratti del volto. Nessun altro elemento o colore intervengono nella sagoma per non perdere immediatezza comunicativa e riproducibilità a qualsiasi scala di rappresentazione.»

Come si vede, viene descritto il percorso tecnico ma nessuna idea del perché si sia scelto di rappresentare la fisionomia di un uomo cancellandone i lineamenti.

Qui a lato (riprendendo dalla già ricordata pagina Facebook dello Studio diennepierre) riportiamo le tappe del percorso con cui in Photoshop Negri, o chi per esso, ha preceduto a evidenziare le parti a suo avviso caratteristici di Manzoni.

Nell’entusiasmo il pennello/bisturi è sfuggito di mano all’operatore che è andato oltre le basette e ha compreso nella selezione anche il colletto della camicia di Manzoni.
Il creativo ha quindi fatto onore al termine: per Manzoni ha creato ex-novo una barba, anche se “alla Cavour”. Il resto è poi venuto da sé.

Sulla pagina Facebook dello studio diennepierre del 25 ottobre scorso troviamo il percorso creativo (si fa per dire) che ha portato a cancellare i lineamenti di Manzoni dal pittogramma che dovrebbe simbolizzare il Museo a lui dedicato.

Così Negri ne ha descritto il processo creativo (“Progetto Museo Manzoniano”, p. 41):

«La sagoma del logo mette in evidenza le suddette caratteristiche [capigliatura, basette, ieraticità — ndr] riducendo il ritratto ai minimi termini di una immagine positivo/negativo, senza i tratti del volto. Nessun altro elemento o colore intervengono nella sagoma per non perdere immediatezza comunicativa e riproducibilità a qualsiasi scala di rappresentazione.»

Come si vede, viene descritto il percorso tecnico ma nessuna idea del perché si sia scelto di rappresentare la fisionomia di un uomo cancellandone i lineamenti.

Qui a lato (riprendendo dalla già ricordata pagina Facebook dello Studio diennepierre) riportiamo le tappe del percorso con cui in Photoshop Negri, o chi per esso, ha preceduto a evidenziare le parti a suo avviso caratteristici di Manzoni.

Nell’entusiasmo il pennello/bisturi è sfuggito di mano all’operatore che è andato oltre le basette e ha compreso nella selezione anche il colletto della camicia di Manzoni.
Il creativo ha quindi fatto onore al termine: per Manzoni ha creato ex-novo una barba, anche se “alla Cavour”. Il resto è poi venuto da sé.

Dobbiamo dire che il creativo dello studio Negri e associati se l’è cavata a buon mercato: doveva ricavare una figura stilizzata da quel mediocre dipinto? e lui lo ha fatto, seppure con un pizzico di creatività fornendo a Manzoni una barba da lui mai sfoggiata.
Trovandosi però poi a disagio sul come stilizzare la “ieraticità”, ha deciso che era inutile perdere troppo tempo e che la soluzione migliore era di cancellare tutto il volto del rappresentato — chisseneimporta!

Ecco, questo è il processo creativo grazie al quale nel “Progetto Museo Manzoniano” si è creato il pittogramma del nuovo marchio.

Ma non è finita.
Il pittogramma di cui abbiamo appena descritto la genesi, oltre a essere una cosa in sé senza senso, è anche una manifestazione attiva di aperto contrasto con tutto ciò che Manzoni ha espresso con lo scritto e con le immagini sulla “fisionomia” dell’essere umano.

7.3 / La “fisionomia” nel romanzo di Manzoni.

La valorizzazione della fisionomia (anche quella fisica) è l’espressione della unicità di ogni individuo; del suo essere inconfondibile testimone dell’umanità.

Ed è la via attraverso cui la cultura classica occidentale (e lo stesso cristianesimo, a parte le parentesi iconoclaste) ha dedicato tante energie nella rappresentazione di occhi, labbra, volti come simboli del mondo interiore di ogni essere umano.
Tanto da farne in ambito religioso i canali privilegiati del rapporto tra uomo e perfezione, tra uomo e ineffabile sentimento, tra uomo e finalità all’uomo via via sconosciute — da qui la enorme produzione artistica “umana” e “fisiognomica” che caratterizza la nostra cultura.

Si può naturalmente anche non essere d’accordo con nessuno di questi riferimenti della cultura occidentale e con i suoi modi espressivi.
E infatti, per esempio, il mondo islamico in generale considera blasfema la rappresentazione finanche del proprio fondatore Maometto.
A partire da lì, i suoi peggiori epigoni — i talebani, tanto per ricordare i più noti nell’attualità — si fanno un obbligo del distruggere ogni opera d’arte in cui sia rappresentato alcunché in forma umana.

Ma ci sembra che Manzoni non fosse musulmano e fosse anzi un compiuto rappresentante della cultura occidentale.
E che nel suo romanzo “I Promessi Sposi — Storia della Colonna Infame” abbia coerentemente fatto ampio uso dei caratteri fisiognomici per la rappresentazione di sentimenti e azioni dei suoi personaggi.

L’innominato è per l’appunto senza nome; ma Manzoni ce ne ha dato una fisionomia fisica inconfondibile. Una fisionomia che consente di mostrarne anche plasticamente il percorso morale.
E così è per tutte le altre figure che popolano l’intera narrazione.

Ma chi ha pensato, e realizzato, e approvato quel logo che cancella i lineamenti di Manzoni, ha mai letto “I Promessi Sposi”? Sembrerebbe proprio di no!
E allora, prendendoli caritatevolmente per mano, mostriamo loro se e come Manzoni è ricorso con abbondanza anche a volti, occhi, labbra per coinvolgerci nel suo romanzo.

7.4 / I riferimenti agli elementi fisionomici nel romanzo di Manzoni.

I Promessi Sposi — Storia della Colonna Infame”, Redaelli, 1840, p. 309:

«[…] in tali strette, Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, […] aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. Quell’altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto, che, a dire il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere anche più malizioso; e probabilmente avrebbe avuto un gusto matto a far andare un povero contadino dalla parte opposta a quella che desiderava. […]»

Curioso come Manzoni facesse caso e sottolineasse la verità già enunciata in Ecclesiaste 19/26.
Ma andiamo più nel dettaglio.

Abbiamo messo a data-base l’edizione 1840-42 della Quarantana e ne abbiamo tirato fuori alcune ricorrenze.

Volete sapere quante volte nel suo romanzo Manzoni cita figure del mondo di sopra, Dio/Signore? 225+73 = 298!

E Renzo? 585 — Lucia? 397 — Don Abbondio? 234 — Agnese? 219 — Don Rodrigo? 170 – Padre Cristoforo? 136 — l’innominato? 93 — il Cardinale Federigo? 68, e via a discendere.

Per andare su altri riferimenti, quante volte ricorre la parola “peste” con i vari collegati (pestilenza / pestifero / pestilenziale / pestilente)? 133.
morte/morto e connessi? 125 — Bravo/bravaccio, ecc.? 117.

Incuriositi, siamo passati a interrogarci sugli strumenti di cui il nostro sviluppo animale ci ha dotato per comunicare sia con i nostri più o meno simili sia (per chi lo vuole, non è obbligatorio) con la divinità.

Occhio / occhiata / occhietti / occhiacci / occhioni e connessi? 306. Però!
viso / volto? 186.
labbra / lingua / denti / orecchio / ciglia / capelli? 179.

Guarda, guarda …
Nel romanzo del Manzoni l’apparato fisico del comunicare umano nelle sue diverse articolazioni compare per 671 volte!

Quindi più del doppio di quanto non compaia lo stesso destinatario (Dio/Signore) di parte di quella comunicazione, che nella nostra classifica iniziale avevamo messo al terzo posto, dopo Renzo e Lucia.

Questo è proprio curioso!
Per la verità, guardando il nuovo marchio di Villa Manzoni e/o del Museo Manzoniano avevamo pensato che la figura rappresentata solo con barba e capelli, fosse un campione della incomunicabilità quanto meno tra gli uomini (figuriamoci con la divinità!).

7.5 / La fisionomia individuale asse portante delle illustrazioni de “I Promessi Sposi — Storia della Colonna Infame”.

Il romanzo “I Promessi Sposi – Storia della Colonna infame” (1840-1842) è composto da 38 capitoli per “I Promessi Sposi” e da un unico lungo capitolo (diviso in 7 sotto-capitoli) per la “Storia della Colonna Infame”, quindi complessivamente 39 capitoli.

La prima pagina di ogni capitolo riporta una intestazione e un capolettera disegnati: abbiamo quindi 78 disegni tra intestazioni e capolettera che, seppure ne esprimono in modo significativo il contenuto, non hanno un legame diretto con il testo (anche i sette sotto-capitoli della “Storia della Colonna Infame” hanno una illustrazione come capolettera ma è solo un grafismo ornamentale).

Nell’intera opera, le immagini (di qualsiasi tipo) sono 425.
Accantonate le 78 di cui abbiamo appena detto, abbiamo quindi 347 illustrazioni che sono diretta espressione grafica del testo e per le quali Manzoni si era moltissimo impegnato per indicarne la rigorosa collocazione all’interno delle pagine.

Di queste 347 illustrazioni (tutte organiche al testo del romanzo) 35 (pari al 10%) sono “ritratti fisiognomici” a “mezzo busto”, ossia concepiti e realizzati per mostrare al lettore proprio la faccia dell’effigiato.

Questi “ritratti fisiognomici” riguardano:

• 10 figure più o meno importanti dello svolgimento della vicenda chiamiamola così “personale” dei due promessi sposi;
.
• 25 personaggi rappresentativi del momento storico in cui si svolge la vicenda personale di Renzo e Lucia.

Abbiamo così 10 ritratti raffiguranti:
Don Abbondio; don Rodrigo; Renzo; Lucia, Padre Cristoforo; la Signora di Monza; il Conte zio; l’innominato, il Cardinale Borromeo; don Ferrante.

Per il momento storico abbiamo invece complessivamente 25 ritratti così divisi:

10 per la grande politica: Luigi XIII, Filippo IV, il conte di Olivares, il Cardinale di Richelieu, Ambrogio Spinola, Carlo I Gonzaga, Urbano VIII, Maria de’ Medici, Carlo Emanuele, Ferdinando II Imperatore;
.
1 per la medicina: Ludovico Settala;
.
8 per il diritto: Girolamo Cardano; Machiavelli; Giovanni Botero; Baldo degli Ubaldi; Bartolo da Sassoferrato; Prospero Farinacci; Cesare Beccaria; Egidio Bossi;
.
6 per l’analisi storica ed etica: Giuseppe Ripamonti, Batista Nani, Ludovico Muratori, Pietro Giannone, Giuseppe Parini, Pietro Verri.

Accanto a questi ritratti a “mezzo busto” (quasi foto-tessera per la carta di identità) nel romanzo vi sono almeno 35 immagini nelle quali l’attenzione del lettore è stata dall’artista focalizzata sull’espressione del volto delle pur piccole illustrazioni.

Inoltre, possiamo individuare 202 immagini raffiguranti singole persone, o a coppie, o a piccoli gruppi, tutti con volti perfettamente distinguibili e ben caratterizzati.

Abbiamo quindi su 347 illustrazioni ben 274 immagini (ossia il 79%) nelle quali la fisionomia gioca un ruolo o decisivo o importante nello sviluppo del romanzo.

Possiamo quindi tranquillamente affermare che il romanzo di Manzoni, così come ce lo ha voluto consegnare nel 1840-42, può essere definito anche come il romanzo della “fisionomia umana”.

7.6 / Dite che per Manzoni la fisionomia umana è importante?
E chiseneimpippa: nel marchio a nome suo noi la tagliamo proprio a lui!

Perché Manzoni ha voluto evidenziare con questa insistenza i caratteri della fisionomia umana sia nel testo del suo romanzo che nelle illustrazioni? Su cosa voleva richiamare l’attenzione del lettore?

La risposta è abbastanza semplice: perché in Manzoni la fisionomia dell’individuo è la manifestazione del suo essere “fatto a immagine e somiglianza” dell’Essere supremo.

L’Essere supremo ha quindi per Manzoni la barba o i baffi delle molte figure maschili del romanzo o le sembianze di una giovane modesta o di una vecchia serva o di una monaca sbandata? Ovviamente no.

Per Manzoni nella infinita unicità della fisionomia umana si riflette la infinitezza dell’essere supremo, il suo essere insieme generalità e unicità.

Per il cattolico Manzoni ogni uomo è immagine dell’Onnipotente; e quando egli nel suo romanzo ne disegna il volto — qualunque esso sia — intende che vi sia specchiata sia la straordinaria molteplicità del tutto sia quelle parti del divino che sono in ogni individuo.

Il quale, come “immagine di Dio” ha facoltà di intendere, scegliere, volere, creare.

La questione non è di poco conto.
Ne discende che l’individuo, qualunque sia il suo ruolo nella collettività o nelle relazioni personali, ha responsabilità sue proprie che non può eludere e a cui non può essere sottratto.

Il dibattito è vecchio: l’uomo è in balia del cieco destino oppure ne è il principale costruttore?

Per il cattolico Manzoni la risposta è scontata: l’uomo ha il compito di governare se stesso con modalità conformi al proprio essere proiezione del divino.
Inutile ricordare che anche per il materialismo dialettico (divino a parte) la vita degli uomini è solo ed esclusivamente nelle loro mani e che in questo processo hanno grande importanza anche le singole personalità con tutte le loro determinazioni soggettive.

Materialismo a parte, se siamo d’accordo sull’importanza che Manzoni assegnava alla fisionomia umana, allora dobbiamo chiederci che senso abbia avere cancellato proprio la sua fisionomia, nel marchio che, almeno nelle dichiarazioni, vorrebbe ricordarlo.

In appendice alla nostra Nota sul marchio talebano e il fasullo Molteni, rivolgiamo un invito (amaro) ai funzionari museali di Lecco e ai loro referenti Assessore alla Cultura e Sindaco: mettete le cose a posto in quel museo!

Così non va bene! 

Ora che il lettore ha un quadro documentato sulla storia del “Ritratto di Manzoni” e sulla sua completa estraneità a Molteni, possiamo riprendere un argomento cui sopra avevamo solo accennato.

Al punto 2.9, avevamo anticipato una volgare balla della Direzione scientifica del Museo Manzoniano messa sul sito Web del Comune dedicato al Museo stesso.

Lì è scritto, infatti (sottolineature nostre):

«La sala 3 ricostruisce lo studio di Manzoni […]. Sono presenti alcuni oggetti personali, come la famosa tabacchiera e il ritratto che Giuseppe Molteni dipinse per lo scrittore.»

Ossia, prima di tutto si ribadisce al lettore (e al visitatore del Museo) che il “Ritratto di Manzoni”, custodito nella Sala 3 del Museo, è indubitabilmente “DI” Molteni.
Ma in secondo luogo si avanza suggestivamente l’idea che il dipinto fosse uno degli “oggetti personali” dello scrittore e tra le cose a lui emotivamente più vicine (come appunto la “famosa tabacchiera”); così da fare pensare al lettore non al corrente delle vicende manzoniane che il dipinto sia stato addirittura commissionato a Molteni dallo stesso Manzoni.

Da tutto ciò che il lettore ha potuto leggere fin qui appare chiaro come questa sia una incredibile panzana, buona forse per un fumetto destinato ai marziani ma indegna di un Museo dedicato a Manzoni.
Qui non si tratta di opinioni ma di fatti ben noti e solo volutamente taciuti dalla Direzione Scientifica del Museo Manzoniano.

La quale però non si è ritenuta soddisfatta della palla con cui ha sporcato la pagina ufficiale del Comune dedicata a Manzoni ma ha ritenuto opportuno rincarare la dose, seguendo il principio che quando si comincia coll’inventare non bisogna essere timidi ma inventare, inventare sempre di più.

La Direzione Scientifica si è infatti impegnata e ha trasformato una risibile fantasia su un pessimo dipinto in una riscrittura integrale di momenti della vita di Manzoni e anche della storia patria.

Vediamo in che modo.

Sulla pagina Facebook del Sistema Museale Urbano di Lecco, il 27 e il 28 giugno alle ore 18:30 sono state postate le due informazioni sotto riportate.

Questi i due testi (li riportiamo integralmente, errori ortografici inclusi).

27 giugno:

«[Giuseppe Molteni, ritratto di Alessandro Manzoni] / Giuseppe Molteni dipinse questo ritratto quando lo scrittore fu nominato Senatore del Regno d’Italia.
L’opera è esposta nella sala 3 del Museo Manzoniano, vicino alla famosa tabacchiera.
Nella sala 9 invece potete trovare il Decreto di nomina del 9 agosto 1859, di cui abbiamo riportato un particolare nella seconda foto. / Venite a vederli in museo!»

28 giugno:

«[Bozza autografa di Alessandro Manzoni, aprile 1860] / “Maestà! La camera dei deputati […]” / È questo l’inizio della bozza del discorso di Saluto al Re Vittorio Emanuele II, a nome della Camera dei Deputati, nel giorni dell’naugurazione del parlamento.
Al momento della sua stesura lo scrittore era stato da poco nominato Senatore del Regno d’Italia.
Quando fu il momento di declamarlo indossò lo stesso smoking che potete vedere nel ritratto dipinto da G. Molteni (l’opera pubblicata ieri). / Questo documento è esposto nel Museo Manzoniano all’interno della sala 9, il ritratto in sala 3. / Venite a vederli!»

Le nostre osservazioni.

Dai testi appena riportati riprendiamo due affermazioni:

27-06 — «Giuseppe Molteni dipinse questo ritratto quando lo scrittore fu nominato Senatore del Regno d’Italia
28-06 — «Nella sala 9 invece potete trovare il Decreto di nomina del 9 agosto 1859 [si intende la nomina a Senatore citata il 27-06 NdR]».

Pensiamo che queste due informazioni siano la dimostrazione inoppugnabile del preoccupante marasma culturale e organizzativo presente al Museo Manzoniano, cui è OBBLIGO portare immediatamente rimedio opportuno, individuandone al contempo i responsabili a tutti i livelli.

Le frasi insultanti l’intelligenza che stiamo analizzando non sono state riportate su Facebook da un qualche praticante alle prime armi che ha preso lucciole per lanterne: sono parte della comunicazione ufficiale offerta al visitatore del Museo.

Qui mostriamo la vetrina della Sala 9 dove sono custoditi i documenti in questione.
Il secondo e il terzo da sinistra costituiscono ciò su Facebook la Direzione Scientifica del Museo indica come la nomina di Manzoni a Senatore; le didascalie poste a pochi centimetri dai documenti stessi (perfettamente leggibili) riportano la medesima informazione: «Decreto di nomina di Alessandro Manzoni a Senatore del Regno d’Italia [Milano, 9 agosto 1859]»

Il visitatore che abbia fatto almeno le medie inferiori rimane perplesso: il 9 agosto 1859 non esisteva ancora il Regno d’Italia, costituitosi il 17 marzo 1861.

Il visitatore che abbia poi una qualche idea delle vicende manzoniane rimane due volte perplesso: Manzoni infatti venne nominato Senatore (del Regno di Sardegna) il 29 febbraio 1860.

Quando il visitatore alza lo sguardo di 20 centimetri non rimane perplesso ma allibito: i documenti che legge perfettamente non hanno nulla a che vedere con la nomina di Manzoni a Senatore.

Sono la proposta di Decreto avanzata da Rattazzi in data 9 agosto 1859 per l’erogazione a Manzoni (che ancora non era Senatore) di una pensione vitalizia di lire 12.000 — leggere per credere.

Il lettore si chiederà come è possibile che nel Museo dedicato a Manzoni e inaugurato in una nuova configurazione il 26 ottobre 2019 con la spesa di circa un milione di Euro, siano proposte al pubblico simili castronate.

Evidentemente NESSUNO ha mai letto cosa effettivamente fossero quei documenti indicati come “Decreto di nomina a Senatore di Manzoni del 9 agosto 1859”.
Non ci ha pensato chi li ha disposti a vetrina (lo Studio diennepierre dell’architetto Negri); non ci hanno pensato i ringraziati nell’ingenuo video (propagandistico solo di questo o quel funzionario in ansia di visibilità — il regista Antonio Losa è l’unico incolpevole) che si minaccia di utilizzare a livello nazionale per “promuovere” il Museo; non ci ha pensato l’Assessore alla Cultura, Simona Piazza; non ci ha pensato il Sindaco Virginio Brivio, anch’essi troppo impegnati ad arrotondare le frasi per lasciare un’impronta negli annali della città.

Ma soprattutto non ci ha pensato la Direzione scientifica. La quale evidentemente ha controllato quanto è stato disposto nel Museo (di cui ha la piena responsabilità) pensando a tutt’altro — il lettore apprezzerà senz’altro la nostra astensione dal turpiloquio.

La cosa straordinaria è che questa castronata è stata ripetuta, a cura della medesima Direzione scientifica del Museo, su Facebook, un social utilizzato da 2,5 miliardi di persone: una bella pubblicità mondiale per il Museo Manzoniano! Complimenti! Altro che il video di Losa!

E nessuno della catena decisionale in area culturale del Comune di Lecco se ne è accorto: forse anche in quei giorni erano tutti troppo impegnati ad autopromuoversi, in un modo o nell’altro (ci torneremo con una noticina ad hoc a proposito dell’utilizzo improprio del Salone delle Grisaglie di Villa Manzoni).

La cosa è preoccupante: c’è evidentemente qualcosa che non va nella struttura e nel modo con cui vengono scelti i responsabili dell’intera area culturale del Comune — bisogna cambiare.

Ma non il passo: bisogna cambiare decisamente rotta. E insieme cambiare anche il cuore!
Anche il cuore. Certo!

Perché di tutta evidenza i funzionari di ogni livello preposti alla tutela della cultura manzoniana della città non solo sono ignoranti (condizione comunque relativa — anche il più sapiente è ignorante) ma proprio se ne fottono (il lettore scuserà il francesismo).

Ma non è finita.
Perché anche quanto affermato sulla “Bozza del discorso al Re” è un’altra solenne castronata, frutto della sfrenata fantasia della Direzione Scientifica del Museo e della insipienza /indifferenza di tutti i consulenti del Museo.

Uscendo dal marasma museal/museografico, vediamo di individuare il vero contesto cui si riferisce la “Bozza” autografa di Manzoni.

Mai si era sentito parlare di un “Saluto al Re” nell’aprile 1860 non solo suggerito ma anche declamato da Manzoni, per di più addobbato dallo stesso smoking sfoggiato nel “Ritratto” di cui ci occupiamo (questa dello smoking è proprio umoristica, come vedremo poi).

Lasciando la fantasia formato fumetto alla Direzione scientifica del Museo, parliamo un pochino delle vicende storiche, quelle vere.

Il 2 aprile 1860 a Palazzo Madama di Torino venne inaugurata la VII (e ultima) Legislatura del Regno di Sardegna, cui partecipò anche Manzoni, nominato Senatore il 29 febbraio appena passato.

Ma il Senatore Manzoni non fece nessunissimo discorso di “Saluto al Re”; anzi non ci fu proprio nessun discorso di “Saluto al Re” da parte di chicchessia.

Prendiamo dalla cronaca “Seduta reale d’inaugurazione della sessione del 1860” a cura della Camera dei deputati:

«Alle 10 preciso il suono dei tamburi e l’eco degli evviva annunziavano l’arrivo di S. M. il Re. Muovevano ad incontrare la M. S. i ministri e le deputazioni delle due Camere, quella dei senatori avente a capo S. E. il marchese Alfieri di Sostegno, e quella dei deputati il generale Zenone Quaglia, presidente seniore.
All’entrare di S. M. il Re nell’aula tutti i senatori e deputati si sono levati in piedi battendo le mani e gridando: Viva il Re! Gli applausi sono durati parecchi minuti.»

Nella cronaca ufficiale o giornalistica non si fa alcun riferimento a un “discorso di saluto” da parte del generale Quaglia (Presidente seniore della Camera e quindi eventualmente l’unico deputato a ciò). Né tantomeno al fatto che un tale discorso sarebbe stato steso da Manzoni.

L’informazione data a livello mondiale dalla Direzione scientifica del Museo Manzoniano è semplicemente una palla!

In realtà il documento autografo di Manzoni si riferisce a tutt’altra occasione.

Camera dei deputati — Nella tornata del 19 ottobre 1860 (ossia 6 mesi dopo), venne letto dal Deputato Giorgini un “Indirizzo al Re” (cosa ben diversa da un “Saluto”), relativo all’imminente scioglimento della VII Legislatura.

Il ruolo di portavoce della Camera di Giorgini può spiegare il perché dell’intervento di Manzoni nella stesura di una bozza dell’Indirizzo (come noto Giorgini era genero di Manzoni e con lui in ottimi e strettissimi rapporti).

Questo comunque il testo dell’Indirizzo a Vittorio Emanuele II, letto a nome della Camera da Giorgini – come si vede, quanto meno nell’incipit che è mostrato ai visitatori del Museo Manzoniano, il discorso pronunciato da Giorgini non ha nulla delle parole scritte nella “Bozza” da Manzoni.

SIRE !

Questa Camera, che deve la sua origine alle recenti annessioni dell’Emilia e della Toscana, sarà presto sciolta da un evento ugualmente fortunato, l’annessione di nuove e più estese provincie, per la quale potrà dirsi, se non in fatto, certo virtualmente compita la liberazione e l’unificazione dell’intera penisola.

Così nessun Parlamento avrà mai una storia più gloriosa di questo, perchè i termini tra i quali si trova compresa la sua breve esistenza sono veramente e resteranno i fatti più grandi del nostro nazionale risorgimento, perchè a lui fu dato di ratificare il primo di questi due fatti, e di apparecchiare il secondo, mediante il pieno e leale concorso che si gloria di aver prestato alla politica del vostro Governo.

Ma i Deputati delle provincie che già si chiamano, o presto si chiameranno, antiche, non potrebbero separarsi senza pensare che a Voi principalmente, o Sire , si deve il merito dei maravigliosi successi ai quali ebbero l’onore di cooperare.

Nè essi crederebbero di essere stati interpreti fedeli della nazione che rappresentano, se il loro forse ultimo atto non fosse un’espressione solenne di quella profonda e devota riconoscenza che in tutti i modi e in tutte le occasioni vi ha manifestata l’Italia.

E nessun momento per far giungere sino a Voi l’omaggio della nazionale riconoscenza potrebbe essere più opportuno di quello nel quale la Maestà Vostra, alla testa del suo valoroso Esercito, affretta il compimento dell’alta impresa, che assicurando coll’unità del regno l’indipendenza della nazione italiana, e il libero e regolare svolgimento delle sue grandi facoltà, apre all’Europa una nuova èra di prosperità, di progresso e di pace.

Possa, o Sire, l’affetto e la fede che l’Italia ripone in Voi sostenere il vostro e il nostro coraggio tra le difficili prove, che forse ci dividono ancora dal giorno, in cui un nuovo e maggiore Parlamento, riunito intorno a Voi, acclami il Liberatore col titolo augusto che deve associare indissolubilmente i destini d’Italia a quelli della vostra nobile Stirpe.

______

Deputazione estratta a sorte per presentare l’indirizzo a S. M.: deputati Moretti, Cavour Camillo, Massarani, Cabella, Robecchi Giuseppe, Loreta, Sperino, Carbonieri, Ricasoli Vincenzo. — Supplenti Vertea, Morandini, Testa.

Il deputato Giorgini fu dalla Camera chiamato a farne parte.

Il giallo del papillon nero.

Per concludere questa ultima parte della nostra Nota, sollecitata dalle improvvide uscite della Direzione Scientifica del Museo Manzoniano su Facebook, ci è rimasto da illustrare la fantasia solo veramente umoristica dello “smoking”.

Diciamo “umoristica” perché è l’unico modo non perseguibile penalmente con cui riusciamo a parlare della modalità sartoriale con cui la Direzione Scientifica del Museo Manzoniano ha cercato di dare un senso e una storia a quel mediocrissimo Ritratto di Manzoni che dopo la nostra analisi risulta evidentemente senza padre riconoscibile.

Con la sua umoristica uscita la Direzione Scientifica dice: la autografia molteniana del Ritratto è indiscussa; dopo decenni di silenzio sulla sua cronologia noi ci mettiamo un punto fermo, dandolo al 1860: Molteni eseguì il ritratto in occasione della nomina di Manzoni a Senatore; ce lo ha voluto rappresentare vestito con lo stesso smoking con cui pronunciò il discorso di Saluto al Re.

La cosa umoristica è nell’idea balzana che alle 10 del mattino del 2 aprile 1860 all’inaugurazione del Parlamento (dove Manzoni non pronunciò nessun discorso di nessun tipo) i parlamentari convenuti a Torino fossero vestiti con lo “smoking”, ossia con un vestito da sera (tra l’altro “inventato” da una sartoria inglese nel 1865, quindi a “saluto” già passato da un pezzo).

È questa una tale fesseria che ha costretto una figura nota in Lecco (e di solito molto simpatizzante con la nuova Direzione) a prendere le distanze. Se andate poco sopra a rivedere la nota su Facebook, potrete infatti notare un unico commento.

È di Gian Luigi Daccò (già Direttore del Museo Manzoniano) il quale butta là un ironico «Indossò lo smoking? Sicuri?».
È ovvio, di Daccò tutto si può dire tranne che sia così sprovveduto come mostra di essere l’attuale Direttore.

Chiunque si occupi anche marginalmente delle storie patrie risorgimentali sa infatti che tutti i partecipanti civili alla cerimonia di inaugurazione del Parlamento erano vestiti con la marsina, o frac, se vi piace di più. E avevano ovviamente la cravatta BIANCA!
BIANCA! non nera come il papillon del Ritratto dello sconosciuto di Lecco.

Svegliarsi signori!
Come aiutino al risveglio proponiamo il notissimo dipinto di Pietro Tetar van Elven (“Inaugurazione del Parlamento a Palazzo Madama il 2 aprile 1860”) nel quale il pittore (che fu testimone diretto della cerimonia) fa vedere con grande precisione come tutti i civili presenti fossero in marsina e cravatta bianca e non in smoking col farfallino nero come fantasticato dalla Direzione Scientifica del Museo (i commessi del Parlamento li avrebbero presi a male parole e non li avrebbero fatti entrare).

Qui proponiamo sia il dipinto di Tetar van Elven sia suoi particolari con Manzoni e altri personaggi stranoti, tutti rigorosamente con la cravatta bianca (per la cronaca: Alessandro Manzoni, Massimo d’Azeglio, Cesare Alfieri di Sostegno, Giuseppe Garibaldi, Urbano Rattazzi, Pier Carlo Boggio, Alfonso Ferrero de La Marmora, Filippo Galvagno, Luigi Des Ambrois de Nevâche).
Con il che ci auguriamo di non dovere tornare più su queste fesserie sartoriali.

A presto con la Nota n. 2 dedicata al pessimo filmato, prodotto da Karmachina Srl, che nella Sala 1 del Museo accoglie (si fa per dire) il visitatore.

Post Scriptum:

nella Nota sopra proposta riteniamo siano rinvenibili con facilità alcuni elementi di riflessione per una gestione della “cultura manzoniana” della città; diversa da quella miope, raffazzonata (e anche cialtronesca — lo abbiamo appena evidenziato con documenti comprensibili a tutti) che i cittadini lecchesi (e in generale tutti gli interessati a Manzoni e alle sue vicende) hanno dovuto subire in questi ultimi anni.

In questo periodo a Lecco è in corso la campagna per le elezioni comunali (si terranno alla fine di settembre) e il tema “cultura” dovrebbe teoricamente essere tra i primi dell’agenda elettorale di ogni schieramento.
Il che purtroppo non è.

Nelle due settimane passate il nostro Centro Studi ha incontrato i due principali candidati: prima Gattinoni, poi Ciresa (Valsecchi già ci conosce, da quando coltivava le buone idee della memoria storica della città, ora ci sembra perse per strada).

A entrambi i candidati abbiamo ricordato che negli ultimi tre anni il nostro Centro Studi ha svolto una sistematica azione di chiarimento (oltre 50 saggi, anche piuttosto complessi) sul modo indegno con cui i temi manzoniani sono stati gestititi (se ne è occupata anche la stampa locale) ma senza alcun riscontro da parte di nessuna delle forze politiche di Lecco.

La cosa è curiosa: le forze al governo della città avrebbero potuto fare tesoro delle nostre osservazioni per evitare di apparire come gli affossatori della cultura manzoniana (ciò che in realtà sono stati).

L’opposizione, per costringere le forze alla guida dell’Amministrazione a fare almeno il loro dovere; mostrando al contempo di avere idee anche su questo importante aspetto della vita cittadina.

Invece nulla, né da una parte né dall’altra.

A entrambi i candidati abbiamo fatto altresì presente che nei prossimi quattro anni il nostro Centro Studi si concentrerà anche a livello pubblico sulla figura e l’opera dell’Abate Stoppani, in vista del bicentenario della sua nascita — 15 agosto 2024.

Di quell’Abate Stoppani su cui da quattro anni (guarda caso, in coincidenza con la nostra pubblica attività redazionale) è calato il più pesante silenzio da parte delle strutture cittadine preposte alla cultura: per un cittadino di Lecco (veramente di grande spessore in vita e oggi ancora eccezionalmente attuale), un vero e proprio ostracismo, confermato anche dalla vergognosa deformazione della sua azione a pro’ di Manzoni rinvenibile nella nuova configurazione del Museo Manzoniano.

Il bicentenario è un grosso impegno che condurremo avanti con o senza appoggi istituzionali da parte del Comune.
Va da sé che se la nuova Amministrazione vorrà considerare questa ricorrenza come organica alla cultura della città, sarà tanto di guadagnato per tutti.

Fino a oggi ai temi della cultura e delle radici storiche della città i due candidati non hanno dedicato praticamente neppure una parola.
Negli incontri cordiali che abbiamo avuto con loro ci è stato assicurato che questi temi saranno ben presenti nella loro azione: vedremo presto dai loro programmi definitivi se si tratta di parole di circostanza o di convincimenti consolidati.

Siamo un pochino scettici, visto il silenzio di questi anni (tra l’altro, al posto loro, avremmo fatto al nostro Centro Studi un terzo grado di mezza giornata per raccogliere almeno qualche idea sul bicentenario — nulla può essere improvvisato).

Nell’attesa, buona campagna elettorale a tutti (anche a Valsecchi naturalmente).

Fabio Stoppani